
In un'epoca di migranti e di identità fluide tutte da definire e da tutelare, il romanzo di Massimiliano Conte – Adiós Caracas – si propone anche come una interessante narrazione e riflessione sulle radici e sul rapporto fra la storia individuale e la Storia nel suo complesso. Gli italiani, nelle diverse fasi della nostra storia nazionale, hanno scelto mete più o meno note e lontane. Conte, nella sua narrazione, ci porta verso il Venezuela con il suo fascino esotico e resoconti improbabili: una terra da raggiugere con lunghi viaggi in mare o con le nuove opportunità offerte dai viaggi aerei.
La storia di una giovane famiglia italiana attratta da un paese come il Venezuela fra il 1958 e il 1977; la storia di una passione che si stempera al contatto con le difficoltà di una realtà che appare ben lontana dall'immaginazione. Tanti temi in Adiós Caracas e tante suggestioni. Ne abbiamo parlato con l'autore, Massimiliano Conte, psicologo attivo da anni nel campo della formazione, che con questo romanzo fa il suo esordio narrativo.

Partiamo un attimo dalla cornice storica del suo romanzo che parla anche di un tempo in cui migravamo verso terre più o meno esotiche e misteriose. Che cosa porta una giovane coppia di italiani a partire per il Venezuela? Quale era la condizione all'epoca del paese sudamericano?
La domanda che mi pone è la domanda topica che avrei voluto rivolgere ai miei genitori ma che non sono riuscito a rivolgere a loro: ero troppo giovane ed essi ancora troppo presenti nella mia vita. Sono riuscito però ad intuire le loro motivazioni, una volta passati a miglior vita, dalla lettura delle lettere che mia madre aveva conservato in copia. È così che ho scoperto che non si trattava di una emigrazione per necessità economiche, né politiche: la loro fu la scelta di abbandonare una dimensione familiare rigida e tradizionale, alla ricerca di un El Dorado qual era il Venezuela di quei tempi, in particolare da parte di mio padre, una “testa calda” alla perenne ricerca di novità ed esperienze. Mia madre lo seguì a ruota, benché alla fine forse poco convinta, sposandosi per procura e intraprendendo un viaggio senza ritorno. Tutto avvenne tra il 1957 e il 1958, anno della caduta del regime autoritario di Marcos Pérez Jiménez, l'ultimo caudillo venezuelano che aveva provato – e in parte riuscito – a far crescere economicamente il suo paese a discapito della democrazia, dell'equità sociale e della libertà di opinione. Mio padre era già lì come vice capo-scalo dell'Alitalia e visse la fase dei tumulti di massa; mia madre arrivò appena dopo la fuga del dittatore in una Caracas ancora in fermento per i fatti accaduti. Fu il Plan de Emergencia a pilotare il paese verso nuove elezioni e a una riforma del sistema di rappresentanza genuinamente democratica.
Seguiamo ancora un attimo questo tema. Anche da un punto di vista architettonico e strutturale Caracas cambia notevolmente. Nel corso della vicenda da lei narrata come cambia la società venezuelana e quali nuovi scenari si vanno costituendo?
Pérez Jiménez aveva sicuramente dirottato molte delle entrate rivenienti dalla produzione del petrolio nell'edilizia popolare e nelle infrastrutture ancor oggi presenti nella città di Caracas. Il mito della capitale moderna e opulenta si faceva largo come l'immigrazione europea, che il caudillo riteneva essenziale per lo sviluppo edilizio (ma non solo: anche produttivo di nuove lavorazioni di beni di consumo) grazie alle varie maestranze e professioni che in Europa si erano cimentate nella ricostruzione post-bellica dei propri paesi di origine: penso in primis all'Italia, la Spagna e il Portogallo. Gli italiani in particolare godevano di una reputazione molto alta nel campo della manovalanza e nel settore delle costruzioni, tant'è che non è un caso che in quegli anni – si tratta del 1963 – fosse stata affidata ad una nota ditta italiana addirittura la progettazione di quella che allora era considerata una delle più grandi dighe idroelettriche al mondo: la diga del Guri, a cento chilometri dal fiume Orinoco. Il passo verso la cementificazione delle grandi città, a partire dalla capitale fu breve. Al paesaggio moderno e molto yankee di Caracas – anche con zone residenziali immerse nel verde per i più abbienti o per la classe media emergente – si aggiunse la crescita incontrollata e geometrica delle favelas, vero conglomerato di povertà e precarietà che già allora circondava quasi a corona la bella e immensa vallata caraqueña.
Nel suo romanzo si snoda la storia di una famiglia e anche la sua dissoluzione. Può presentarci brevemente i protagonisti di questa vicenda e farceli almeno assaporare senza troppo svelare?
Franco, mio padre, forse un emulo di Maurizio Arena, bello e scanzonato, amante delle donne. Anna, mia madre, donna alla perenne ricerca di un amore romantico e “vero”, sincero. Enrique, nobiluomo di origini francesi, succube della madre, anch'egli tombeur dalla doppia vita affettiva. Max, un figlio che diverrà un migrante affettivo alle prese con un mondo adulto instabile e poco affidabile. E poi tanti altri personaggi, con nomi diversi da quelli reali, ognuno con una propria storia da raccontare…
Max, il protagonista e voce narrante della vicenda, sembra alla perenne ricerca di una casa e di una collocazione. Le sembra una giusta lettura?
Max nella sua vita, fino ad oggi, ha cambiato venticinque case, vale a dire, in media, due case e mezzo all'anno. Sì, è una giusta lettura in cui la parola “collocazione” però non induce l'idea di un “radicamento”. Max cercherà sempre una sua collocazione esistenziale ma le vicende esterne a lui, e poi quelle per le quali poteva avere un margine di decisione, lo porteranno a sentirsi non tanto uno “sradicato” quanto una persona avente radici aeree, come la Tillandsia, pianta che si adatta ai terreni più diversi avendo un apparato radicale che non va in profondità e che per questo può essere mobile, riuscendo a trovare nutrimento anche in terreni aridi.
Senza troppo nasconderci è evidente che nel romanzo sia narrata una vicenda che la tocca e la riguarda. In tema di identità e di radici come si sentiva all'epoca un italiano in Venezuela e quali legami manteneva con l'Italia?
Riguardo alle radici, le ho risposto nella domanda precedente, ma devo confessare che è una rappresentazione ex post della vita di questo ragazzo poi diventato adulto. In ogni caso, a quei tempi, un emigrato italiano o figlio di emigrati trovava un terreno abbastanza fertile per sentirsi venezuelano; esisteva allora lo ius soli: acquisivi tutti i diritti di venezuelano se nascevi in quel paese o se arrivavi entro i primi tre anni di vita. Una modernità legislativa che oggi in Italia ce la sogniamo che era funzionale al popolamento di una terra grande tre volte l'Italia, dove chiunque proveniente dal Vecchio Continente poteva coronare il suo sogno sudamericano. Ma è chiaro che in ciascuno di noi, figli di emigranti, potevano emergere spinte identitarie più o meno marcate in senso venezuelano o europeo a seconda della cultura familiare che respiravamo dentro alle mura domestiche. Vista la mia storia, come quella di altre persone presenti nel libro, vivevamo in maniera più contraddittoria questa “doppia anima” – quella venezuelana e quella italiana – forse perché più disincantati rispetto a quella american way of life che caratterizzava il boom economico del Venezuela negli anni '60 e '70; altri, invece, forti anche del definitivo radicamento professionale ed esistenziale dei propri genitori nella nuova “patria”, riuscivano con più facilità a identificarsi con la cultura venezuelana e a ridimensionare se non a “cancellare” la propria origine italiana. Direi, insomma, che il modello culturale e molto “caraibico” del vivere a Caracas rappresentava nella maggior parte dei casi una potente calamita per attenuare l'attrattività del mondo italiano, forse non a torto, in quanto percepito come più tradizionale e paludato. Non fu il mio caso.
Nel 1975 Max parte per Roma e la sua vita ne risulterà cambiata. Come si giunge a questa scelta e quali novità essa comporta?
La morte precoce e improvvisa della propria madre, vissuta a distanza da Roma da un Max adolescente, credo che determinerebbe in chiunque un trauma il cui superamento, forse, potrebbe aver luogo dopo anni di analisi, percorso intrapreso pochi anni dopo una volta lasciata Caracas per Roma. Ma in quel frangente, in quegli anni tristi, vista l'assenza di un padre, Max sopperirà calandosi nel ruolo del minorenne adulto suo malgrado, nonostante i suoi sedici anni. Questa maschera comporterà di lì a poco, conseguito il diploma di maturità, una migrazione di ritorno verso l'Italia per ottemperare al mandato da sempre inculcato della madre: devi laurearti.
Nel suo romanzo si descrive anche – almeno in alcuni passaggi – l'atmosfera culturale di una generazione che si appassionava alla sociologia, alla filosofia e provava a ripensarsi. Come potremmo raccontare quegli anni in un paese come il Venezuela che stava cambiando in maniera decisiva?
Nel Venezuela è sempre esistita, a livello politico, una rappresentanza di sinistra fino alle frange guerrigliere che sono state perseguitate e in alcuni casi anche massacrate dai vari poteri autoritari dell'epoca, almeno fino agli anni '70. La mia generazione di italo-venezuelani, allora, era divisa tra impegnati (una minoranza) e disimpegnati. V'era quindi una piccola élite, tutta imbevuta del fermento adolescenziale e un po' supponente, che si ispirava a quella che allora era la nouvelle vague culturale presente alla Universidad Central de Venezuela: il marxismo-leninismo, Gramsci, la Scuola di Francoforte con i suoi epigoni Adorno, Marcuse, Horkheimer, Habermas e Fromm, oppure Lucio Colletti e la sua rilettura di Marx e Hegel. Temi e autori da far tremare i polsi anche ai più esperti “intellettuali” (che qualcuno vorrebbe, oggi, accostare ai cosiddetti influencer… sic!) verso i quali, almeno io, nutrivo passione e venerazione capendo forse l'un per cento delle loro argomentazioni. Ma tanto bastava per sentirsi impegnati, interessanti, un po' contro lo status quo. Del resto, l'alternativa era seguire l'onda della politica molto televisiva e manipolativa in salsa populista inscenata dai politici di turno dei due maggiori partiti allora imperanti: Acciòn Democratica, ovvero i socialdemocratici, e Copey, i democristiani. Stiamo parlando dei due partiti che hanno, in misura diversa ma correa, contribuito al declino del Venezuela fino all'avvento di Hugo Chavez e, successivamente e più recentemente, del suo pupillo Nicolás Maduro: uno pseudo socialismo infettato nei gangli di corruzione, familismo e repressione che ha tradito l'ideale di intere generazioni per un Venezuela davvero democratico e solidale ispirato ad una reale equità sociale e alla lotta contro la povertà.
Leggendo le sue pagine si evidenzia una grande passione per la musica e per le tecnologie ad essa legate. Come si miscelano, secondo lei, le tradizioni europee e quelle dell'America del Sud?
L'Alta Fedeltà è stata per me una passione oltre ad un antidoto verso la frequentazione di potenziali cattive compagnie. Questa era la tesi di mia madre che mi regalò un impianto stereo per l'epoca davvero super e che ancora conservo gelosamente e sempre ben funzionante. A parte questo, lei mi pone una domanda a cui non è facile rispondere perché apre una pagina della storia della musica che vede la latinoamericana – quindi non soltanto l'America del Sud – protagonista di sonorità e finanche mode che hanno pervaso l'immaginario europeo e mondiale. Senza entrare in dettagli che richiederebbero un'altra intervista e procedendo davvero con l'accetta possiamo trovare esempi di reciproca “contaminazione” su diversi fronti. Se penso alla musica “classica” basti pensare alle creazioni sinfoniche di compositori come l'argentino Alberto Ginastera ispirato all'inizio della sua carriera da Igor Stravinskij, poi negli anni '70 ammirato addirittura da Keith Emerson (Emerson, Lake & Palmer), oppure Amadeo Roldán, diplomato al conservatorio di Madrid, poi promotore del movimento musicale dell'Afrocubanismo; per non dire poi di Carlo Chávez e Silvestre Revueltas in Messico con i loro lavori ispirati alla cultura Maya e Azteca presentati in Spagna durante la Guerra Civile! E che dire di Astor Piazzolla e il suo Libertango che, nella sua appassionata vita, collaborò anche in ambito jazz con Gerry Mulligan, Milva e la grande Mina. Ma non basta. È del Latino e Sud America l'invenzione del cha cha cha, della bossa nova o del bolero cubano che ascoltiamo in tantissime canzoni italiane degli anni '50 e '60! Voglio dire che non è tutto salsa y merengue il contributo della cultura sudamericana alla musica e alla musica europea in particolare, ma molto altro che rischia di essere perso, se non è già stato dimenticato dalla memoria collettiva, soprattutto quella dei nostri giovani di oggi: avendo la possibilità di utilizzare Amazon prime, You Tube e Spotify, rischiano di “consumare compulsivamente” molta musica solo apparentemente “nuova” ma intrisa, a loro insaputa, di radici ritmiche e stilemi musicali che hanno origini nel Nuovo Mondo.
Antonio Fresa
Massimiliano Conte
Adiós Caracas
Robin, 2022
Pagine 294
€ 16,00
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