
Non conoscevo Max Hirzel. È stata la mia amica e gallerista Adolfina De Stefani che ha ospitato una sua mostra a segnalarmi l’importanza del suo lavoro. Una serie di circostanze mi hanno impedito di assistervi ma il libro di Max Hirzel, Corpi migranti mi ha confermato l’urgenza di parlarne, anche per un campo visivo ampio che mostra a noi tutti. Come scrive sul suo libro: Da un lato del Mediterraneo alcune persone lavorano per restituire un nome a un corpo, dall’altro ci sono le famiglie dei dispersi. Gli uni sanno poco degli altri, l’incontro è il cerchio che a volte si chiude.

Il relitto del naufragio del 18 aprile 2015, recuperato dalla Marina Italiana un anno dopo. Base Nato di Melilli, nei pressi di Siracusa, 2016.
Chi è Max Hirzel e come i viaggi a contatto con le persone hanno influenzato la tua fotografia documentaria?
Sono fotogiornalista documentarista da meno di quindici anni. Dopo aver studiato fotografia da giovanissimo, scattavo per aziende commerciali ma la pubblicità non era il mio ambito, ho smesso e per anni ho lavorato in giro per il mondo ma non come fotografo. Ho amato tutti i posti nei quali sono stato, Medio Oriente, India, Maghreb, America Centrale, ecc. Mi hanno insegnato molto questi luoghi e le loro lingue, a capire le persone, ad entrare nelle loro vite con empatia e rispetto. È fondamentale, fare fotografia documentaria significa occuparsi dell’essere umano.
Parlami di Corpi Migranti, perché questo titolo? Cosa significa per te questa espressione, rispetto a quanto di solito essa rappresenta?
Ho concepito questo titolo fin dal primo editing. Ha una duplice valenza, quelli che di solito etichettiamo come migranti sono persone, il corpo rappresenta la persona, in questo lavoro sono persone scomparse che si muovono, anche nella gestione della morte; ho voluto raccontare ciò che ruota attorno a queste morti, stiamo parlando di migliaia di morti evitabili.
In che senso evitabile? Fai riferimento alle politiche migratorie o a qualche evento specifico?
Certo, queste morti sono una conseguenza diretta delle politiche migratorie che criminalizzano il movimento di persone attraverso il reato di clandestinità. Morti che sono percepite ormai dall’immaginario collettivo europeo come tragedie naturali, ma non lo sono, io la definisco un’anomalia, un’aberrazione della natura che stiamo continuando a permettere, nonostante siano ampiamente prevedibili e ripetitive. È questione di volontà politica. Ho cercato di fotografare quest’anomalia che rappresenta e testimonia cosa succede da trent’anni.

Nell’hangar della base NATO di Melilli, alcune bare già sigillate e pronte per essere trasportate nell’area di trasferimento ai cimiteri. Contengono le salme appena esaminate nell’area dell’hangar adiacente,
predisposta per l’esame autoptico finalizzato all’identificazione. Melilli, 2016.
È una strage immane! Leggendo il libro, i dati riportati sono impressionanti: quarantamila mila morti in trent’anni. Ci sono grandi responsabilità politiche di cui riesci a mostrare gli effetti attraverso le fotografie.
Sì, è complicato perché il tema è troppo politicizzato, d’altronde determina da tempo i risultati politici, si giocano voti e campagne elettorali non solo in Italia. La leva della paura dello straniero e dell’invasione viene usata ad arte, e funziona. Bisognerebbe poter parlare di migrazione da un punto di vista tecnico, cioè come si potrebbe gestirla meglio. Per esempio, diversi intellettuali in Africa e non solo ritengono che una politica di rilascio di visti di entrata e uscita faciliterebbe scambi commerciali e spostamenti con vantaggi reciproci, non tutta l’Africa vuole venire in Europa, ma bisognerebbe cambiare tutto il paradigma legislativo e culturale: e qui entra in ballo l’ipocrisia europea, ha a che fare ovviamente con la gestione delle risorse dei paesi di provenienza e gli interessi che si hanno in questi luoghi.

Ginevra Malta, all’interno di una tenda autoptica, pronta a compilare le note di autopsia per una delle vittime del 18 aprile 2015. Nell’hangar della base Nato di Melilli, nelle due tende autoptiche, vengono esaminati circa dieci corpi al giorno, inclusa l’analisi e la raccolta di tutti i reperti e gli indumenti relativi a ogni salma.
Melilli, 201
Per cui il tuo lavoro intende diversificare la visione del problema, approfondendola, recandoti sui luoghi del dramma.
Il mio lavoro è testimoniare, documentare la realtà. Non è semplice oggi raccontarne la complessità, serve spazio e tempo che spesso il mercato dell’informazione non ha, ma senza è difficile permettere la comprensione delle dinamiche. Arriverà alla gente quello che vedo e intendo? Come posso contribuire a una narrazione di senso? Me lo chiedo costantemente. Da questa domanda è nato questo lavoro: mi chiedevo dove fosse nella migrazione quella zona d’ombra che c’è dopo e oltre il racconto mediatico abituale a cui siamo un po’ assuefatti. Ho pensato potesse essere dopo l’annuncio dell’ennesimo naufragio, per questo ho iniziato dai cimiteri, volevo sapere dove fossero sepolti questi corpi, e come. Poi ho solo seguito le tracce.
Continuiamo a parlare della particolarità del progetto e di come tu racconti i segni lasciati dalla tragica scomparsa di persone rimaste senza neanche un nome.
Anni fa un ragazzo camerunese che cito nel libro, Alpha, mi disse che più della morte temeva di finire in un cimitero anonimo, senza che i suoi potessero piangerlo. In effetti in Sicilia ho trovato situazioni così. Faceva parte di quell’anomalia che volevo fotografare, così come la gestione tecnica di queste morti e di questi corpi. Seguendo questa traccia mi è perso evidente come fosse centrale il tema dell’identificazione, perché in assenza di certezza le famiglie delle persone disperse non possono celebrare il lutto.

Le mani di Ousmane sgranano il rosario musulmano. Lui è uno dei fratelli di Mamadou, scomparso da due anni, presunta vittima del naufragio del 18 Aprile 2015.
Soukouta, Senegal, 2017
Specialmente i corpi che non sono stati identificati. Leggo infatti dal tuo libro, dalla prefazione scritta dal regista etiope Dagmawi Yimer: “Così gli uni accudiscono gli altri, tutti insieme, per esorcizzare il dolore della perdita. Personalmente, penso che a noi abitanti del quartiere Cherkos, senza la cerimonia sia mancata un’opportunità ideale. Immaginando il numero di persone che avrebbero assistito per giorni, sarebbe stata un’occasione di dialogo soprattutto sulle circostanze della morte dei ragazzi, su chi erano, si sarebbero ripercorsi i ricordi”.
Il diritto alla ritualità è uno dei diritti umani che vanno tutelati e con qualsiasi religione. C’è bisogno di dare voce a questa immensa afonia in fondo al mare – dalle ingiustizie e dall’indifferenza globale.
Davanti a tanti numeri, alla tragedia della scomparsa nell’anonimato, non riesco a restare impassibile né ad aggiungere altro.
Maria Grazia Galatà
Max Hirzel
Corpi migranti
emuse, 2021
pagg. 168
illustrato € 30,00
Il volume contiene 84 fotografie a colori accompagnate da documenti, testi e riflessioni di Max Hirzel, Dagmawi Yimer, Grazia Dell’Oro, Federico Faloppa, Pietro Del Soldà.
Con l’adesione di:
Archivio delle Memorie Migranti, Associazione Anni in fuga, Associazione Carta di Roma, Associazione Les Cultures Onlus, Associazione Thomas Sankara, Borderline Sicilia Onlus, Caritas Italiana, CFFC, Green Whale, Il mondo nella città associazione Onlus, HRYO – Human Rights Youth Organization, Maghweb, Musée Mémoire de la mer de Zarzis, Ordine provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri Torino, Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio, SIMM – Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, StatoBrado, University of Reading.
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