Il confine nella danza di Michael Getman e Masoumeh Jalalieh

Michael Getman - Songs & Borders

history 7 minuti di lettura

La poetica visiva di Michael Getman e Masoumeh Jalalieh ruota intorno al concetto di confine. “Border”, parola presente nei titoli di entrambe le performance, inteso come limite, impedimento, ma anche come possibilità, arricchimento; come elemento che, inevitabilmente, si lega, in maniera dialettica, al tema dell'identità. I due artisti che il 6 e 7 maggio, sono approdati a Roma, al Teatro Biblioteca Quarticciolo, provengono da due realtà diverse ma altrettanto difficili, rispettivamente Israele e Iran. E, attraverso il linguaggio del corpo, raccontano paesaggi, esperienze, luoghi e storie.

Michael Getman, con Songs &Borders, porta sul palco cinque performer non professioniste, per uno spettacolo di ricerca documentaristica ed antropologica, più che di tradizionale. Getman, israeliano, si concentra sul concetto di confine, così concreto e pressante nella vita di un popolo la cui identità è indissolubilmente legata alla recente nascita di Israele, stato creato sulla carta, i cui confini sono diventati, ben presto: “confini mentali tra comunità, famiglie e individui”. Come ha spiegato lo stesso coreografo nel talk seguito allo spettacolo, l'idea di Songs &Borders è sorta due anni fa, mentre si trovava per lavoro nel nord del Paese. Durante questo soggiorno il coreografo ha assaporato la bellezza selvaggia di quei luoghi e, nello stesso tempo, la durezza dei confini di cui sono saturi. Getman ha notato come la libertà e la forza vitale della natura si scontrassero con la chiusura dei Kibbutz; con la difficoltà di entrare in contatto con le persone rese “diverse” da confini mentali, tradotti poi in separazioni fisiche. Il contrasto generato tra la sconfinatezza della natura e la necessità umana di “confinarsi” in aree determinate, ha spinto l'artista a creare il progetto volto ad indagare come e quanto queste barriere artificiali vadano ad incidere sull'identità di coloro che le abitano quotidianamente. Da qui, la scelta di lavorare con le comunità, coinvolgendone direttamente i membri, piuttosto che artisti professionisti, per portare in scena, nel modo più autentico possibile, le loro voci, le loro tradizioni.

Songs &Borders interpreta le fratture create dall'uomo in un territorio fisicamente omogeneo, come la differenza che intercorre tra la parola e il canto. Ove la prima, in quanto specchio del linguaggio articolato, figlio della razionalità, risulta incomprensibile a chi parla uno specifico idioma, dunque, può essere divisiva, accentuando le barriere. Mentre il canto, elevandosi al livello più alto, irrazionale della musica e della melodia, tocca l'inconscio e, quindi, costituisce un linguaggio universale, in grado di unire le persone, a prescindere dalla loro provenienza ed origine. Nello spettacolo questo è rappresentato in maniera emblematica nella scena in cui le cinque performer, sedute intorno al tavolo, parlano altrettante lingue diverse, in un dialogo surreale che paradossalmente è costruito sullo schema “botta – risposta” (come se si capissero) e che, alla fine, viene interrotto dalla melodia, elemento che sembra sgretolare le differenze, in nome di un'unità di matrice superiore. Nella stessa scena, il semplice alzarsi in piedi, a tempi alternati – al pronunciar delle battute – delle performer, crea una ritmata coreografia che sembra alludere ad un movimento musicale. In generale, la danza di Songs &Borders è basata su gesti essenziali e, in un certo senso intimi. Perché l'obiettivo di Getman non era quello di creare una coreografia eclatante che stupisse il pubblico; ma lavorare sulla ricerca, lasciare libere le performer di far emergere gli aspetti per loro più importanti. Per questo, ognuna di loro si distingue per delle movenze particolari che la ricollegano alla sua comunità di origine ma, nello stesso tempo, non le impediscono di essere parte anche del tutto. Tra le cinque protagoniste, sin dall'inizio, appare un corpo estraneo, una sorta di fantoccio, vuoto ma significativamente composto da fil di ferro, materiale con cui si tracciano i confini. Tale presenza, con cui alternativamente interagiscono, seppur inquietante, ha una valenza positiva, nella misura in cui il suo essere un puppet alla mercé delle protagoniste, lo trasforma in uno strumento per esorcizzare, ridimensionare ed annullare il concetto di “border”. Infatti, il fil di ferro che precedentemente le separava ora si contrae su stesso e non ha più alcun potere divisivo.

Masoumeh Jalalieh
Masoumeh Jalalieh. Aëla Labbé

Dopo Getman, Masoumeh Jalalieh, artista e performer nata a Teheran e residente in Europa, ha presentato B-Or Der, un lavoro estremamente lirico ed evocativo. Come si evince dal titolo, anche qui l'artista pone al centro il concetto di confine, fisico e mentale, rappresentato materialmente dalla stoffa entro cui si muove e, concettualmente, nella divisione della parola border in B-Or Der.

Per tutta la durata della performance, Masoumeh Jalalieh danza chiusa in bozzolo, un panno di stoffa che, inglobandola interamente, si arricchisce di infiniti significati. A partire da un gioco sulla presenza – assenza; sull'ambivalenza, data dalla difficoltà di mettere subito a fuoco la messa in scena, Masoumeh suscita negli spettatori una moltitudine di suggestioni. Grazie alle sue movenze, forti e potenti ma, contemporaneamente, lente e perfettamente calibrate, in continua espansione (dando inizialmente l'illusione della presenza di più artisti sotto il panno) l'artista trasmette sensazioni estremamente intense, a tratti, contrastanti. I rimandi sono innumerevoli: dalla recente cronaca dell'Iran; alle vicende personali di ciascuno; per arrivare alla storia in senso generale. Così, l'artista riesce perfettamente nel suo duplice intento, ribadito anche nel talk dopo lo spettacolo, di portare il pubblico da una parte ad interpretare l'opera secondo il proprio vissuto; dall'altra, ad ampliare i propri orizzonti.

B-Or Der è stato concepito ben prima della ribellione delle donne in Iran lo scorso settembre, eppure si rivela estremamente attuale, nel proporsi come un disperato anelito alla libertà, come un tentativo di svincolarsi dal giogo del regime, qui rappresentato metaforicamente dal tessuto che impedisce non solo la parola ma anche la vista. Tuttavia, appare evidente che il significato dello spettacolo è ancora più ampio. Anche perché l'artista, pur rivendicando le proprie origini iraniane, sottolinea come la permanenza in Europa le abbia permesso di espandere la sua visione e di arricchirla con numerosi stimoli provenienti da paesi e culture diverse. L'opera di Masoumeh Jalalieh, racconta dell'Iran ma si spinge anche oltre, per parlare degli esseri umani, della possibilità di ciascuno di uscire dal buio, di aprire gli occhi, e di compiere, durante l'arco della vita, continue rinascite.
Ludovica Palmieri

Teatro Biblioteca Quarticciolo – Roma
Masoumeh Jalalieh
B-Or Der
durata: 20'

Michael Getman
Songs &Borders
durata: 40'
coreografie Michael Getman
assistente coreografica e dramaturg Yael Venezia
ricerca Dániel Péter Biró
cantante Neue Vocalsolisten
costumi Renee van Ginkel Pupazzi
scenografie Ma'ayan Tsameret
oggetti scenici Ayelet Adiv
Produzione Mia Chaplin
Organizzazione Zachi Choen
Web design & Video editing Idan Herson
Comunicazione Internazionale Katherina Vasiliadis Supportato da Clore Center for the Performing Arts (IL); The Pais Lottery Foundation (IL); The Ministry of Sport and culture in Israel; The Choreographers Association (IL); Zygota Productions (IL); Goethe Institut (IL, DE) In collaborazione Neue Vocalsolisten (DE)

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