
Sono universalmente riconosciuti i contributi di Michel Foucault a favore della sociologia della pena tanto che si è arrivati a dire che scrivere oggi sulla pena senza rifarsi a Foucault sarebbe come parlare d’inconscio senza considerare Freud. Innumerevoli e noti sono i suoi studi sull’organizzazione carceraria e sull’estensione dei meccanismi disciplinari a tutto il corpo sociale.
Un suo intervento, poco conosciuto, a un convegno sulle alternative alla carcerazione tenutosi a Montréal nel 1976 è stato recentemente pubblicato in un piccolo volume Alternative alla prigione (Neri Pozza 2022, pp. 112 € 14,50). Nel testo presentato in queste pagine – basato sulla trascrizione condotta nel 1993 da Jean-Paul Brodeur e curato da Sylvain Lafleur – Foucault ricorre frequentemente ad esempi a lui contemporanei sulle forme di controllo emergenti, spiegando la sua idea di estensione della società poliziesca nella nostra epoca.
Foucault non si è mai espresso chiaramente a favore dell’abolizione della prigione. Seppur non si è mai espresso sulla necessità di eliminare gli istituti penitenziari, tutta la sua filosofia, o per lo meno quella articolata in Sorvegliare e punire negli anni Settanta, è fortemente caratterizzata non solo da una riconsiderazione radicale della prigione e dell’ideologia che ne è alla base, ma sul ripudio del regime carcerario propriamente detto. Foucault definiva la prigione “istituzione della morte”: «La prigione non è l’alternativa alla morte», sottolineava con forza; «essa porta la morte con sé. Uno stesso filo rosso corre lungo questa istituzione penale che si presume applichi la legge ma che in realtà ne sospende la validità: oltrepassate le porte della prigione, regnano l’arbitrio, la minaccia, il ricatto, le percosse. […] Nelle prigioni è di vita e di morte e non di “correzione” che si tratta». Attraverso i suoi studi, Foucault ha evidenziato che l’avvento della prigione come nuova tecnica di punizione – apparsa e sviluppatasi storicamente alla fine del XVIII e all’inizio del XIX secolo – va accostato allo sviluppo dell’economia liberale e sui metodi di correzione degli individui attraverso il lavoro.
Nella lontana conferenza del 1976, il tema della gestione differenziale degli illegalismi è centrale in
Foucault ed è alla base delle sue invettive nei confronti dello Stato penale. La questione alla base del pensiero foucaultiano degli illegalismi è sapere se la prigione sia o non sia destinata a scomparire o, al contrario, a essere recuperata o portata avanti sotto altri aspetti penali. Foucault nella conferenza solleva la questione fondamentale di capire come la prigione si sia protratta nel tempo come istituzione penale principale, come regina delle pene, a partire dalla sua creazione alla fine della Rivoluzione francese e fino ai nostri giorni, malgrado le numerose critiche di cui è stata oggetto dai primi anni successivi alla sua sperimentazione. Durante la conferenza a Montréal Foucault significativamente definisce le forme alternative alla detenzione l’indice della diffusione di una malattia o all’interno della comunità, con lo scopo «di diffondere come una forma di tessuto cancerogeno, oltre le mura del carcere, quelle forme di potere che ne erano tipiche. È un vero e proprio strapotere penale, o carcerario, quello che si sta sviluppando, mentre l’istituzione prigione va invece ridimensionandosi. Crolla il castello, ma le funzioni sociali, di sorveglianza, controllo, risocializzazione che dovevano essere fornite dalla prigione in quanto istituzione ora vengono più o meno garantite con altri meccanismi». Le misure alternative alla detenzione contribuiscono – secondo lui – a sottoporre a misure penali l’intera società, generando un dispositivo di sorveglianza generalizzato, di ipersorveglianza. La società è sottoposta in una sorta di perfusione punitiva, in nome della lotta agli illegalismi e all’instaurarsi dell’anomia sociale.
Foucault si domanda se la prigione non tenda, contrariamente alle operazioni politiche, legislative e mediatiche, a mantenere la delinquenza pur aspirando a neutralizzarla, a sviluppare le illegalità mentre pretende, in quanto espressione delle politiche penali, di darsi da fare a reprimere illegalità e crimini, di eliminare il flagello dei reati. Foucault non è contrario a qualsiasi forma di punizione. Tuttavia, insiste per distinguere ciò che è accettabile da ciò che non lo è per non lasciare alla polizia o ai giudici che avallano le decisioni della polizia la facoltà di determinare le azioni e gli individui da rinviare a giudizio. Il suo ragionamento è concentrato soprattutto sull’uso politico del criminale tramite la nozione di illegalismo e, in particolar modo, sull’aspetto aleatorio del mantenimento dell’ordine e delle punizioni che ne derivano. Nella versione francese di Sorvegliare e punire troviamo la distinzione tra illegalismo e delinquenza e tra illegalismo e illegalità. La nozione di illegalismo rimanda etimologicamente alla legge, ai rapporti con la norma legale e alle forme legali di trattamento. In Sorvegliare e punire si parla di comportamenti non redditizi o economicamente inutili che saranno qualificati come delinquenza e isolati attraverso il diritto penale. Foucault non sostiene che ci sarebbe un ipercontrollo degli illegalismi popolari e una protezione degli illegalismi borghesi, ma che esista una gestione differenziale di questi. Evidentemente una differenza di trattamento che si appoggia sull’apparato legale e su un sistema normativo. Pertanto, abbiamo illegalismi tipici e privilegiati. Vale a dire tipi di illegalismi che possono essere trattati solo in un unico regime normativo – come un semplice furto in un supermercato che sarà trattato penalmente – mentre esistono illegalismi che possono essere trattati in diversi sistemi normativi, come l’evasione fiscale potrà che essere sanzionata con una pena detentiva, ma anche con una sanzione amministrativa. Le grandi compagnie o multinazionali, che praticano illegalismi fiscali o fanno commercio illecito dei dati personali, fanno il possibile per evitare di essere scoperte. Nel caso in cui lo siano, cercano di evitare di essere trattate dal sistema normativo più punitivo. Una sanzione civile, una misura amministrativa, una multa, l’obbligo di portare a termine una transazione particolare (come il pagamento di una tassa), benché significativa, non ha le stesse implicazioni di una sanzione penale.
Il volume non è solo un’opportunità per ragionare sul rapporto tra progressismo penale e imposizione sempre maggiore di misure restrittive extra moenia, ma anche quella di continuare a riflettere sulla domanda cruciale di Foucault: «Quella cosa che chiamiamo punizione e che per secoli, forse millenni, è parsa più o meno ovvia alla civiltà occidentale, la nozione stessa di punizione, vi sembra altrettanto scontata oggi? Cosa significa essere puniti? È davvero necessario essere puniti?».
Antonio Salvati
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