Mumford and Sons. Sigh No More. Un quartetto da Londra per il nuovo folk americano

Mumford & Sons Sign no more
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Sono in quattro e vengono da Londra. Sign No More è la loro opera prima a due anni dalla loro nascita e dopo tre dieci pollici e numerose esibizioni. La band è composta da Marcus Mumford (voce, chitarra, batteria), Winston Marshall (voce, banjo, dobro), Ben Lovett (voce, tastiere, organo), Ted Dwane (voce, contrabbasso).

Mumford & Sons Sign no moreCastaldo in un recente articolo colloca i <<magnifici>> Mumford and Sons all’interno di un movimento folk che sta conquistando il mondo musicale e assorbe la voglia di autenticità naturalezza che attraversano i tempi. <<Il lessico folk sta dilagando, contagia il rock, entra nelle creazioni dei cantautori, si mescola col jazz e con la musica etnica, sembra tornato a far presa sull’immaginario della musica…>> [1].

I legami con l’ambiente sono stretti: Laura Marling, Johnny Flynn, Jay Jay Pistolet e Noah and the Whale i cui contatti risalgono ai tempi del King’s College. Non va dimenticato che il produttore è Markus Dravs presente in Neon Bible degli Arcade Fire.
La critica britannica e il pubblico hanno accolto favorevolmente il disco che si ritrovato all’esordi all’undicesimo posto nella classifica. Per quello che ho potuto leggere le posizioni in Italia sono molto meno univoche e si passa da una sorta di capolavoro a rifiuti quasi totali.

Una delle posizioni più critiche la esprime Palazzo in particolare per la loro linea, tipica anche di una parte non marginale di questo filone folk, fatta di <<principi familisti e orgoglio campagnolo>> e che, con le dovute differenze, fanno un po’ il paio alla <<ottusità populista e un po’ patetica di gruppi come i Glasvegas>>. L’unica concessione è verso la loro tecnica nel fingerpicking e nelle armonizzazioni vocali [2].

Nemmeno Righetto li tratta granché bene. Al procedere dell’ascolto è facile scoprire che le idee non sono tante e spesso per sopperire finiscono semplicemente per <<buttar lì l’impeto festaiolo>>. Provano a solleticare i nostri sensi come in Little Lion Man con rimandi ai Coldplay nei loro cori da stadio o in White Blank Page con prose d’amore. Forse se riuscissero ad evitare voli pindarici tenendosi ancorati al folk e pop alternativo dei nostri giorni potrebbero sorprendere l’ascoltatore [3].

Bertoncelli non sa quanto andranno lontano essendo impervia la strada delle previsioni di questi tempi. Comunque spunti interessanti se ne trovano tra le pieghe del suono <<viscerale>> dei Mumford and Sons ove si ode qualche tocco magico stile Crosby, Stills, Nash e Young unito alla potenza dei Kings Of Leon e qualche venatura Pogues o Levellers. I brani migliori: White Blank Page, Little Lion Man e soprattutto la title track [4].

Anche Bertone non esprime un giudizio definitivo. Saranno i prossimi lavori a dirci se potremo confrontarci con un nuovo folk che possa ricordare i fasti dei Fairport. Scrive che il lavoro è interessante ma senza nulla di eclatante. Il limite vero è nella <<uniformità nella costruzione dei brani, imperniati sull’intreccio di dobro, mandolino, banjo, acustiche e un kit minimo di batteria, con le voci che si sovrappongono>>. I momenti migliori sono quando si avvicinano alla tradizione britannica come in Winter Winds [5].

Non siamo ancora alle potenze espressive del folk britannico di quarant’anni orsono ma il fenomeno artistico va seguito come, secondo Bussolino, vanno seguiti con attenzione i Mumford & Sons. E’ vero che i punti di riferimento vanno più ricercati oltreoceano (vedi i Felice Brothers) che nella tradizione anglo-irlandese. Sono bravi nel deviare dalle sonorità riuscendo ad evitare semplici riproposizioni. Così ci fa notare i <<caldi accenni ispanici dei fiati>> in  Winter Winds o le <<violente smanie psichedeliche che si scatenano sulla coda>> di Dust Bowl Dance [6].

Anche Lo Mele nel suo giudizio positivo individua nel disco un suono americano: i Low Anthem in The Cave o i Coldplay in In Awake o i Fleet Foxes in Roll Away Your Stone e White Blank Page. Insomma variazioni giuste con i suoni del momento [7].

Panzeri lo considera uno dei suoi preferiti per l’anno che si sta chiudendo. La loro capacità di fondere suoni e che possono ricordare oltre i Coldplay e i Fleet Foxes citati in precedenza anche gli Okkervil River. Non sembrano esserci cali di tensione nell’album dove la canzone prediletta risulta essere  Dust Bowl dance per accenni al primissimo Bruce Springsteen.

Altre citazioni per The Cave, Winter Winds, Roll Away Your Stone, White Blank Page, I Gave You All o il singolo Little Lion Man che <<è una riuscita ballata da pub prima che entrino in scena i Pogues ad alzare la gradazione alcolica e mandare tutto in caciara>> [8].
Entusiasmo alle stelle per questo disco che lascerà il segno per Lambiase. Non ci sono mai momenti di pausa per le emozioni dell’ascoltatore:<<arrangiamenti eclettici e di estrema evocatività in cui non si negano assoli di tromba, fughe tastieristiche, cavalcate di banjo e l’immensa raffinatezza del contrabbasso accompagnano un cantato che attraverso l’alternanza tra individualismo e coralità dipinge chiaroscuri di una profondità estrema>>. Citazioni per la titletrack, Awake My Soul, Winter Winds, Thistle & Weeds e After The Storm <<la sigaretta dopo l’amplesso>> [9].
Non vi curate di noi e ascoltate.
Ciro Ardiglione

genere: neo-folk
Mumford & Sons
Sigh No More
etichetta: Island
data di pubblicazione: 5 ottobre 2009
brani: 12
durata: 48:42
cd: singolo

[1] Gino Castaldo, “Il Neofolk”, la Repubblica, 17 dicembre 2009
[2] Diego Palazzo, BLOW UP., novembre 2009, pag, 86
[3] Lorenzo Righetto, www.ondarock.it, 19 ottobre 2009
[4] Riccardo Bertoncelli, Linus, novembre 2009, pag. 83
[5] Carlo Bordone, Il Mucchio Selvaggio, novembre 2009, pag. 79
[6] Elio Bussolino, Rockerilla, 15 novembre/15 dicembre,pag. 49
[7] Rossano Lo Mele, Rumore, novembre 2009, pag. 90
[8] Paolo Panzeri, www.rockol.it, 15 dicembre 2009
[9] Gianluca Lambiase, www.storiadellamusica.it

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