Nâzım Hikmet Ran, una poetica tra intimità e storia universale

un campo di papaveri rossi al tramonto
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Nâzım Hikmet Ran moriva il 3 Giugno 1963 a Mosca, portando via con sé la densa biografia di poeta, drammaturgo e scrittore, “cittadino del mondo” sviluppata durante il “secolo breve”, come Eric Hobsbawm, pubblicando nel 1994 il noto omonimo saggio, ha definito quei settantasette anni che vanno, in particolare, dal 1914 nel quale s'avvia la tragedia della prima guerra mondiale, al 1991, periodo dell'estinzione dell'URSS e del conseguente affermarsi della “globalizzazione economica”, progressivamente realizzatasi dalla fine del XIX secolo.

L' “appartenere al mondo” di Hikmet è dato dall'essere nato nel 1902 a Salonicco, nella Grecia ottomana, dalla sua stessa formazione influenzata dall'attività diplomatica del padre e del nonno paterno, che è stato console ad Amburgo e dalla madre pittrice, Ayşe Celile Hanım, di origini circasse, polacche, serbe, tedesche e francesi ugonotte, fervente estimatrice della letteratura francese, che indusse il giovane Nâzım a studiare presso il Liceo di lingua francese di Galatasaray.
Durante la Guerra di indipendenza aderì al piano d'azione di Kemal Atatürk (Mustafa Kemal) in Anatolia, ma rimase presto deluso dagli ideali nazionalisti e durante l'occupazione alleata della Turchia lavorò come insegnante a Bolu, nella parte orientale del paese. Conquistato dal processo di edificazione dello Stato comunista in Russia (1917), nel 1922, fu condannato per marxismo (si iscrisse al Partito comunista turco all'inizio degli anni '20) e malvisto per la pubblica denuncia dei massacri armeni del 1915-1922, si trasferì convintamente in Unione sovietica in esilio volontario nel paese della recente Rivoluzione proletaria d'Ottobre dove visse in fra il 1921 e il 1928.
Tornato in patria, fu imprigionato per la sua attività politica (1938-50), per attività anti-naziste e anti-franchiste e con l'accusa di aver tentato di incitare, con le sue opere, la marina turca alla rivolta. La condanna fu molto dura: 28 anni di carcere. Soggiornò quindi ancora in URSS e girò anche il mondo quale rappresentante della cultura comunista internazionale.
In prigione, dove è rimasto per quattordici anni, scrisse le sue opere più belle, tra cui il capolavoro assoluto Paesaggi Umani (1941-1945). In questi anni il tono della sua si fa più diretto e serio, il verso si affina e si fa essenziale. Non avrebbe però mai più visto un suo libro pubblicato sul suolo turco e quel che poté circolare, stampato all'estero, lo fece sempre clandestinamente. Introdusse nella poesia turca il verso libero e forme ispirate al futurismo di .

Tra le più note delle sue numerosissime opere pubblicate in Turchia ricordiamo le raccolte poetiche: 835 Satir (835 Righe, 1929), 1+1=1 (1930), Sesini kaybeden şehir (La città che ha perduto la voce, 1931), Gece gelen telgraf (Telegramma notturno, 1932), Kurtuluş savaşı destanı (L'epopea della guerra di liberazione, 1965), Şu 1941 yılında (1965, già apparsa in Italia in edizione bilingue Şu 1941 yılındaIn quest'anno 1941, 1961); e postume: Dört Hapishaneden (Da quattro carceri, 1966), Rübayler (Quartine, 1966), Memleketinden insan manzaraları (Paesaggi umani dal mio paese, 5 voll., 1966-67). Da sottolineare inoltre l'opera teatrale Demokles´in kılıcı (La spada di Damocle, 1959).

In Italia, sono state pubblicate  varie raccolte antologiche. Ragguardevoli i libri di , Vita del poeta (Cattedrale Editore, 2008) e Il turco in Italia. Una biografia di Nazim Hikmet (L'asino d'oro Editore, 2013), nei quali la studiosa e traduttrice dichiara di non essere interessata ai poeti «della parola-senza-destinatario che ha la presunzione di essere atemporale, astorica, eterna. Bensì [a]i poeti «moltiplicatori di progresso», come dice Rimbaud, dalla parola discorsiva, quotidiana, concreta, proiettata nel futuro; poesia che non si limita a “ritmare l'azione, ma sarà più avanti”. Poeti, come dice Majakovskij, che “non rimangono al loro posto aspettando che l'avvenimento passi, per rispecchiarlo, ma si slanciano in avanti per trascinare con sé il tempo stesso”».

Per riuscire nell'impresa di comprendere il poeta, l'autrice dichiara che «deve esistere un'affinità, una capacità di partecipazione al mondo poetico dell'autore, con le sue fondamenta morali e spirituali del raziocinio e della sensibilità. Se c'è questa partecipazione, le differenti circostanze espressive e ambientali si assorbono facilmente, per ricrearsi in forme simili e fedeli nel diverso linguaggio in cui vengono trasposte […]”; pur non conoscendo una parola di turco e non sapendo quasi niente della letteratura turca, si può […] affermare, onestamente, di conoscere a fondo Hikmet, tutta la sua produzione poetica, il suo mondo ideologico, etico, estetico e psicologico, le esperienze che l'hanno formato, gli autori che lo interessavano, la
sua città, la sua famiglia, i suoi amici e i suoi nemici […]».

Da un rimatore come Nâzım Hikmet Ran che ha iniziato a scrivere versi in età preadolescenziale imitando il primo poeta umanista turco, Tefik Fikret, autore di versi contro la guerra e contro la religione, e che con la seconda poesia scritta a quattordici anni, nel mentre infuriava il primo conflitto mondiale con un suo zio caduto ai Dardanelli, non ci può aspettare che una autentica saldatura tra intimità e storia universale, tra lirismo ed impegno civile, infine, tra parole-con-destinatari e testimonianza morale.

Nâzım Hikmet Ran presidia bene molti lessici, non più solo quello ottomano, bensì una lingua turca liberata dai vocaboli arabi e persiani, che seppur, all'epoca giovanile ancora molto impacciata, alludeva già – innamorandosi spesso di donne e della vita stessa (infatti, intitolata “Alla vita” è la poesia scritta in carcere nel 1948, pubblicata nel 1963 in Poesie d'amore, invito intenso ad impiegare il tempo pienamente perché non si ha altro da fare che vivere senza riporre fiducia nell'al di là) – ad un linguaggio letterario contemporaneo, sempre più vicino al turco parlato, e, conseguentemente, evolvendo, libero dagli angusti limiti di qualsivoglia nazionalismo linguistico.

La ricchezza della poetica di  Hikmet, tradotto in cinquanta lingue ed inserito spesso nei corsi di Letteratura delle scuole, frutto di grandi passioni, di amicizie genuine, di un libero confronto con la realtà non contaminato da ideologie o distorsioni psicologiche, dovrebbe precipitare fragorosamente nel putrido dibattito pubblico avvezzo, come si sta dimostrando in questi ultimi tornati della storia, alla cancel culture (a questo proposito, ricordiamo l'ultimo caso del proposto ripudio di Susanna Tamaro del “verismo” di Giovanni Verga, esemplare esponente dell'indirizzo letterario italiano dell'Ottocento) consentendo alle menti lucidamente ispirate di esprimersi osando far coincidere il pensiero ed il sentimento individuale con i momenti di vita intensamente collettiva.

Giovanni Dursi

 

 

 

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