Negli archivi della Securitate, la polizia segreta rumena

Romania, Bucarest. Archivio della Securitate
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Riallacciare i fili del passato, scioglierne i nodi, comprendere la storia della propria famiglia. Capire chi ti ha tradito, per colpa di chi tu o qualcuno che amavi ha trascorso anni in carcere, ha perso la vita o è dovuto fuggire. Vedere per la prima volta la grafia di un padre o di una madre che non hai mai conosciuto, osservare le foto della sua quotidianità, di una sua passeggiata mattutina, di un incontro in città, leggere la trascrizione di una sua conversazione. Ritrovare una vecchia casa di famiglia e magari sperare di recuperarla dimostrando che, sì, apparteneva proprio ai tuoi genitori, ai tuoi nonni, e poi ti è stata portata via.

Mentre osservo gli scaffali pieni di cartelle e documenti, di microfilm, cassette e anche dischi in vinile, mi spiegano che queste sono le cose che vengono tutt'ora a fare in questo archivio moltissimi cittadini rumeni. Non si tratta cioè solo dello studio della Storia ma anche della scoperta delle proprie radici, della propria piccola storia personale che a un certo punto si è inceppata nei meccanismi di quella generale di un paese, la , che sembra non aver fatto ancora davvero i conti con il proprio passato.

Romania, Bucarest. Archivio della Securitate
Romania, Bucarest. Archivio della Securitate. Foto Giuliana Arena

Di archivi ne ho visti, ma gli archivi della Securitate, la polizia segreta rumena degli anni del comunismo, hanno un sapore speciale. Ci arrivo accompagnata da Ursula Fait, una guida italiana di Bucarest, che è riuscita ad ottenere i permessi per una visita non con lo scopo di consultare documenti, ma semplicemente di farsi un'idea di una delle più grandi e brutali polizie segrete del blocco orientale. Lì ci aspetta George Visan, un archivista che, dopo averci mostrato i cimeli conservati all'ingresso in alcune bacheche di vetro, tra cui radio, microspie, fotocamere con grandi teleobiettivi, registratori e tutto quanto veniva usato per controllare nei più piccoli particolari la società, ci fa strada verso lo scantinato dove sono conservati i documenti. I locali sono stati da poco imbiancati e il leggero sentore di vernice fresca è l'unico elemento che mi riporta in qualche modo al presente in cui mi trovo e m'impedisce di sentirmi totalmente traportata nel passato lì custodito, gli anni della Guerra Fredda.

Girando per gli scaffali non è difficile credere di essere in uno dei più grandi archivi della polizia segreta dell'Europa dell'Est, secondo solo, ci dice l'archivista, a quello della Stasi nella DDR. La Securitate fu istituita il 30 agosto 1948 con lo scopo di «difendere le conquiste democratiche e garantire la sicurezza della Repubblica del Popolo Rumeno contro i nemici interni e esterni». In pratica, come tutte le istituzioni di questo tipo, scovare, interrogare, arrestare e spesso torturare gli oppositori, tenere sotto stretto controllo i membri dei partiti storici, coloro che erano stati espropriati e chiunque potesse rappresentate un pericolo per il regime. Negli

Romania, Bucarest. Archivio della Securitate cassette
Romania, Bucarest. Archivio della Securitate. Foto Giuliana Arena

anni venne creato una rete di informatori in tutte le istituzioni dello Stato e in tutti gli spazi sociali. Con l'avvento di Ceaucescu alla presidenza della Repubblica socialista di Romania nel 1967, la Securitate divenne ancora più capillare. Il “conducator” riuscì a mettere in ogni bloc (cioè condominio), in ogni ufficio, in ogni scuola, in ogni luogo possibile insomma, una persona che controllasse tutto e tutti. In quegli anni lavoravano per la Securitate poco meno di 11.000 agenti e circa mezzo milione di informatori. Tanto per avere un'idea, basti pensare che oggi la Romania conta 19 milioni di abitanti! Nella sola Bucarest, per monitorare tutta la corrispondenza in entrata e in uscita di coloro che erano sotto investigazione, erano incaricate ben 26 persone che lavoravano in turni ininterrottamente e controllavano circa 120.000 lettere al giorno. Naturalmente anche le conversazioni telefoniche erano ascoltate e registrate, le pubblicazioni controllate e censurate meticolosamente e in tutte le case e gli uffici dei sospetti venivano messe microspie.

Ma chi erano gli agenti della Securitate? In molti casi venivano reclutati tra i prigionieri, politici o anche comuni, in cambio di un trattamento di favore, tra i membri dei vecchi partiti e tra i legionari. C'era chi si prestava volontariamente, per sentimenti patriottici, ma spesso venivano usate minacce e coercizione. Tra i membri della polizia segreta si contavano molti studenti, anche minori, sotto minaccia di non poter accedere a livelli d'istruzione più alti, e insegnanti. C'erano poi intellettuali e persone di cultura, che in cambio del loro servizio si vedevano pubblicare un loro lavoro o avevano la possibilità di andare all'estero. Gli agenti ricevevano premi di vario tipo, talvolta somme di denaro, favori oppure regali come cibo, vestiti e medicine, in quei tempi tutte cose preziose. In questo clima, non è difficile immaginare perché il confine tra Romania e Jugoslavia divenne il più sanguinoso d'Europa: solo nel 1988, per esempio, almeno 400 rumeni morirono cercando di attraversare il Danubio, uccisi dalle guardie o affogati. Si stima che in Romania ci siano stati, durante la Guerra fredda, 2.000.000 di perseguitati politici, 600.000 arrestati e condannati, 200.000 deportati.

Il Consiglio nazionale per lo studio degli archivi dell'ex Securitate (Consiliul Național pentru Studierea Arhivelor Securității) è stato fondato nel 1999, ma in realtà l'accesso a questi dossier è stato per i primi anni molto limitato e solo alla fine del 2006, a ridosso dell'ingresso della Romania nell'Unione Europea, sono stati lì traferiti ben 1.600.000 dossier dal Ministero dell'Interno, al quale il Departamentul Securității Statului (comunemente detta Securitate) afferiva. Non è certo un segreto il fatto che molte persone implicate con il regime, negli anni Novanta, abbiano partecipato attivamente al processo di transizione alla democrazia, ricoprendo spesso incarichi pubblici. Questo ha fatto sì che, in Romania come altrove guardando al complesso del blocco orientale, il tempo del confronto del paese e dei suoi cittadini con il passato comunista sia arrivato tardi e parzialmente.

Dopo un giro tra gli scaffali, per renderci conto della quantità di documenti conservati, arriviamo a un tavolo sul quale ne sono posati alcuni preparati per noi. La nostra guida pensa possano interessarci in quanto relativi a italiani che per vari motivi avevano relazioni con la Romania. Si tratta di carte per la verità non particolarmente significative, ma consentono di capire quanto fossero strette le maglie della polizia segreta: chiunque abbia messo un piede qui, ha sicuramente un suo fascicolo, mi dice l'archivista.

Romania, Bucarest. Archivio della Securitate strumentazione di spionaggio
Romania, Bucarest. Archivio della Securitate.Foto Giuliana Arena

Tra i fascicoli preparati sul tavolo c'è quello di Rosa del Conte, professoressa, critica letteraria e traduttrice, che ha ampiamente contribuito a portare la letteratura rumena in occidente; quello di Sergio Cattani, Ambasciatore italiano in Romania tra il 1985 e il 1988. C'è poi la trascrizione di una conversazione di un certo signor L.A. con altre persone «della Montedison». La conversazione verte inizialmente sulle differenti modalità di fare la grappa in Sardegna e in Romania, poi si parla del fatto che Alitalia non colleghi bene e in modo diretto Roma con Bucarest. Infine il signor L.A. racconta che qualche tempo prima «è venuta in URSS una delegazione italiana condotta da MORO [Aldo?] con un'illustre sconosciuta – ORIANA FALLACCI [sic.] (autrice mediocre)».

Oltre alle innumerevoli trascrizioni di conversazioni, ci vengono mostrate infinite fotografie scattate durante i pedinamenti, di scene di vita quotidiana che sembrano totalmente insignificanti: una persona esce, cammina, si ferma a salutare qualcuno. Si tratta di documenti banali che rendono però l'idea del controllo capillare, della delazione come metodo sistematico in grado di diffondere diffidenza e minare le basi di una società che ancora oggi ne risente.

Di grande interesse storico mi sembrano invece due grossi libroni scritti e illustrati a mano. Appena vedo le illustrazioni, peraltro pregevoli, mi viene in mente di averle già viste in un documentario realizzato dal mio amico fotografo e attivista Mugur Varzariu sugli ebrei rumeni sopravvissuti all'Olocausto. Si tratta di una storia illustrata dei legionari, i fascisti rumeni, ai quali è stato chiesto a scopo “rieducativo”, mentre erano chiusi nella prigione di Aiud, di documentare la storia del loro movimento in tutti i suoi più brutali dettagli. Lì per lì ho tempo solo di scattare velocemente qualche foto alle immagini, ma Varzariu mi racconta poi che vi sono raccontati tutti i terribili crimini commessi dai legionari. Di fronte al mio stupore rispetto al fatto che di documenti tanto interessanti non ci sia traccia online e non siano mai stati resi pubblici, lui, che li ha letti interamente, mi dice che a tratti emergono particolari che gettano ombre sulla Chiesa e sulla casa reale. Forse anche per questo sono stati bollati come ricostruzioni false, redatte sotto minaccia. Ma ci chiediamo: se è possibile costringere qualcuno a confessare crimini che non ha commesso o a confermare storie non vere sotto tortura, è mai possibile allo stesso modo costringerlo ad essere creativo? A redigere un'opera così bella, così ben confezionata? Tanto più che alcuni dei sopravvissuti, intervistati per il documentario, hanno raccontato a Mugur nel dettaglio alcuni dei crimini descritti dai legionari, senza ovviamente aver mai neanche saputo dell'esistenza di quei libri. Penso che gli storici rumeni dovrebbero studiarli a fondo.

Dopo qualche giorno dalla prima visita, ritorno agli archivi per dare un'occhiata all'inventario. Non mi sembra di trovare granché, l'inventario che mi viene mostrato non indica il tipo di documenti che mi aspetterei di trovare, e cioè fascicoli di personalità italiane della politica e della cultura o di comuni cittadini che abbiano avuto a che fare con la Romania negli anni del regime comunista. Mi viene spiegato che per quei fascicoli devo fare una richiesta specifica, indicando su un modulo il nome, la data e il luogo di nascita della persona che cerco e lo scopo della mia ricerca, dopodiché mi verrà fatto sapere se i documenti ci sono e se possono essere consultati. Nel caso invece si tratti di un membro della propria famiglia, l'accesso al fascicolo dovrebbe essere certa.

Mi guardo intorno nella sala studio, insieme a me ci sono solo altre tre persone che sfogliano i documenti. Mi chiedo se si tratti di studiosi o di privati cittadini alla ricerca di indizi che spieghino qualche passaggio della loro storia familiare. Mi sembra di capire che, al momento, il senso di questi archivi sia principalmente questo, per i cittadini rumeni. E mi stupisco del fatto che in tanti abbiano aspettato a lungo prima di avventurarsi in questa ricerca sul proprio passato.

Ripenso ai racconti degli amici rumeni che negli anni Settanta erano bambini e negli anni Ottanta adolescenti: non si fidavano a parlare neppure in casa, neppure con i parenti, mentre i genitori raccomandavano loro mille volte di stare attenti ad ogni parola che dicevano in qualunque contesto, dalla scuola ai luoghi in cui si praticava sport, anche con gli amici apparentemente più fidati, mentre magari i loro nonni pregavano di nascosto, in silenzio, terrorizzati che qualcuno potesse accorgersene.

Quando chiedo all'archivista che tipo di ricerche fanno di solito le persone che si recano lì, mi racconta di aver visto tante volte persone piangere o tremare violentemente nello scoprire una verità dolorosa, per esempio di essere state tradite dal loro migliore amico, dal fratello, dalla moglie o magari da un figlio. Decidersi a scoprire una verità che può essere tanto dolorosa, custodita per anni così bene, non deve essere facile. Forse è per questo che alcune persone hanno aspettato a lungo: la verità a volte fa troppo male e qualcuno è rimasto così, per anni sospeso tra il desiderio e la paura di conoscerla.

E mentre esco e mi avvio sotto la pioggia verso casa, mi vengono in mente le famose parole sulla verità di Leonardo Sciascia: «La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c'è più né sole né luna, c'è la verità». E mi chiedo quante volte da quegli archivi qualcuno sia finito in un pozzo, nel pozzo della verità più buia, nel pozzo dal quale è difficile uscire. Oppure quanti, in fondo a quel pozzo, abbiano trovato una verità comunque preziosa, per quanto amara.

Giuliana Arena

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