
C'è una bellissima storia che racconta Dan Stuart dei Green on Red sul mito della frontiera americana: quando vieni dall'est e stai guidando attraverso lo Utah e vedi il segnale che dice prossima stazione di servizio fra 200 km, se sei della East Coast dici “Merda, come cazzo si fa a vivere in posti simili?” Se invece sei nato sulla West Coast ti rilassi e finalmente ti senti a casa.
Neil Young è nato in Canada, ma si porta dentro gli sconfinati paesaggi dell'ovest ed esattamente vent'anni dopo l'ultima visita, torna a bruciare Roma con i Crazy Horse. Un tour mondiale, l'Alchemy Tour, che segue un 2012 ricco di iniziative, due dischi bellissimi “Americana” e “Psychedelic Pills”, concerti americani, un'autobiografia, Memorie di un Hippy, in cui confessava di non essere ancora sicuro di poter nuovamente scrivere canzoni, avendo smesso di fumare marijuana. Ma nessun pericolo, è in stato di grazia, con gli amici di sempre Ralph Molina, Billy Talbot, Frank “Poncho” Sampedro, il Cavallo Pazzo. Che parte subito in quarta, roccioso e granitico, a macinare rock e ad assecondare gli sproloqui chitarristici di uno dei giganti della musica moderna. Young è vestito di nero, i lunghi capelli bianchi al vento, le rughe di chi ha molto vissuto…ma la voglia di fare casino di un ventenne. Poncho ha una maglietta di Jimi Hendrix. I pezzi iniziali sono una jam session continua, Powderfinger chilometrica, chiudi gli occhi e viaggia con me, Walk like a Giant sistema i conti con Sonic youth e My Bloody Valentine, cinque minuti di rumori e riverberi selvaggi. È passata un'ora ed hanno suonato sei pezzi. A questo punto, il canadese imbraccia l'acustica e l'armonica e rimane solo sul palco e il pubblico capisce subito cosa accadrà. Heart of Gold da Harvest e una struggente Blowin' in the wind, cantata come Dylan non la canta più, intento com'è nella scientifica demolizione del suo mito. Singer without a song al piano è stupenda ed è difficile uscire da questo sogno acustico una volta che ci sei caduto dentro…quella voce e quell'armonica sono sabbie mobili suadenti che spezzano il cuore. Ma ci pensa la sequenza devastante di Ramadha Inn, Sedan Delivery ed un'interminabile Rockin' in the Free World a far rialzare la temperatura ed il sogno di un mondo libero ed in pace con sé stesso. Perché il vecchio hippy è uno che ci crede ancora, ma non è rimasto a Woodstock come tanti altri. Brevetta sofisticati software per rendere il suono tecnologico più simile al caldo vinile, investe mucchi di quattrini in energie alternative per le sue amate automobili, rileva quote di società in difficoltà che lavorano ancora con la passione e la morale di una volta, organizza concerti per una scuola per bambini disabili. È uno vero, insomma, uno puro, a cui tutti guardano con rispetto vuoi che siano della sua generazione vuoi che siano i suoi nipoti scapestrati grunge e affini.
Quando le luci si spengono, tuttavia, la gente non ne ha abbastanza e lo richiama a gran voce. Un ragazzo accanto a me pensa ad alta voce “magari facesse Cortez the Killer” e come per incanto parte la saga del conquistador assassino ed il suo vortice elettrico, per chiudere con l'apoteosi di Cinnamon Girl. 68 anni a novembre e due ore e un quarto di musica immortale. Niente trucchi, niente fuochi d'artificio, solo la tecnologia preistorica del sangue, dei nervi e dei sentimenti. Lunghissimi minuti di applausi a scena aperta e io che mi danno sempre a chiedermi, perché con tutta questa meraviglia che si disperde nell'aria il mondo non sia un posto migliore.
Mario Barricella
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