
Giacomo Petrarca, dottore di ricerca in Filosofia presso l'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, allievo di Vincenzo Vitiello, affronta, nel suo testo Nel vuoto del tempo. Rosenzweig, Hegel e lo shabbàt, alcuni passaggi nodali della riflessione filosofica contemporanea.
All'autore abbiamo rivolto alcune domande sul suo lavoro e sulle prospettive della filosofia contemporanea.
Il cammino filosofico di Hegel può essere avvicinato secondo prospettive assai diverse. Se il riassunto non appare troppo azzardato, si direbbe che lei, con il suo interesse prima per Kierkegaard e poi per Rosenzweig, voglia indicare una sorta di necessaria inquietudine (critica) che il pensiero hegeliano genera anche in chi ne “progetta” il superamento o anche l'opposizione. Se questa linea interpretativa le appare rispettosa del suo lavoro, può aiutarci a comprenderne la genesi?
Non credo che ci sia formula migliore per descrivere il senso dell'opposizione filosofica a Hegel da parte sia di Kierkegaard che di Rosenzweig, da quella che lei ha impiegato parlando di una “necessaria inquietudine critica”. Dove per inquietudine dobbiamo considerare anzitutto l'operazione – per così dire – ‘decostruttiva' (e qui lascio da parte Kierkegaard) operata da Rosenzweig nei confronti del concetto hegeliano di totalità. Inquietudine è ciò che fa vibrare il saldo basamento di un pensiero, è ciò che mostra come l'elemento che ‘inquieta' un pensiero, rappresenti propriamente ciò rispetto a cui quello stesso pensiero si costituisce. Come argine, come neutralizzazione e rimozione di quella stessa inquietudine. Se pensiamo al principio di non contraddizione aristotelico, la forza del principio non sta nella sua capacità di confutare il proprio negatore, ma di dimostrane propriamente l'insussistenza. Non si dà mai negatore del principio. Magari avremo modo di parlarne più avanti, ma nei primi scritti teologici giovanili – in una forma e con delle modalità diversissime – Hegel opera qualcosa di molto simile nei confronti dell'ebraismo.
Per ritornare però alla sua espressione, mi pare estremamente efficace poiché indica anche la difficoltà che ogni gesto filosofico di opposizione ad Hegel si porta dietro. Lei dice, necessaria inquietudine. E lei coglie perfettamente il punto. Ma anche la difficoltà estrema. Un'opposizione ad Hegel, cioè a quel pensiero che – mi conceda di dirlo in breve – rappresenta propriamente il paradigma della necessità sotto la quale l'Occidente ha pensato tutte le sue categorie, anzitutto quella di totalità – dicevo, un'opposizione ad Hegel non può essere un'opposizione necessaria. Se si presenta con necessità ha già perso, è già stata ricompresa all'interno del sistema. E tuttavia, deve pur essere qualcosa, deve pur essere un che.
Quell'inquietudine allora è un muoversi in un crinale, è un tentare di togliersi il terreno dai propri piedi. Kierkegaard lo fa recidendo il nesso tra finito e infinito. Il salto nella fede è, in fondo, l'impossibilità di determinare non solo l'altro termine della relazione, ma il luogo stesso a partire da cui finito e infinito vengono posti. Rosenzweig opera in altra maniera. Procede per sottrazione.
Il problema, per Rosenzweig, non sta nell'assoluta alterità dell'altro (per usare un termine più barthiano che kierkegaardiano), ma sta nell'incapacità da parte della totalità di includere se stessa. Detto altrimenti: tutto include la totalità, tranne il proprio includere che le resta sempre altro, sempre – direbbe Rosenzweig – ‘escluso'. Ovviamente, questo è solo il problema che la critica solleva, non l'esito della propria operazione. Qui siamo in una fase del tutto preliminare. Ma è essenziale, prima di tutto, capire l'istanza e la portata problematica innanzi alla quale ci troviamo.
Nella prefazione che Vincenzo Vitiello ha scritto per il suo testo, l'attenzione è rivolta alla relazione fra ebraismo e cristianesimo, presentata come “una problematica congiunzione”.
Può chiarire i termini della questione e la rilevanza filosofica che questa relazione ha assunto dopo le parole di Hegel e di Nietzsche?
“Dio è morto” è il grido che si alza tanto dalle pagine hegeliane quanto da quelle di Nietzsche. Con due significati, però, profondamente diversi. Detto nella maniera più rapida, forse il grido nietzschiano segna anzitutto la morte della hegeliana “morte di Dio”. Perché quella di Hegel è una morte che affida Dio completamente alla storia, al mondo, alla comunità. È una morte che è anche massima vittoria. Qui subentrano innumerevoli elementi, ma anzitutto il significato paolino del cristianesimo hegeliano e la dura critica nietzschiana nell'Anticristo che, come Vincenzo Vitiello ha più volte ricordato, è prima di tutto un Anti-Paolo. Non dico che quella hegeliana sia la sola lettura possibile del messaggio Paolo, né che sia la più fedele al testo e alle intenzioni dell'Apostolo. Di certo, è la lettura che si è imposta storicamente. E qui, non solo come storia degli effetti, ma come origine stessa del concetto e dell'orizzonte storico. Quel cristianesimo è il cristianesimo che si è imposto nei secoli, il cristianesimo dell'agostiniano compelle intrare, il cristianesimo dell'espansione ‘mondana' e della conversione come più autentica realizzazione del messaggio evangelico. In questo scenario, lo spazio per l'ebraismo è sempre stato marginale, segregato, al massimo, in una sfera periferica della storia del mondo e della salvezza (che, nella fattispecie di quel cristianesimo, vanno a coincidere). L'ebraismo resta pur sempre origine del cristianesimo (il pericolo marcionita è sempre dietro l'angolo), ma al tempo stesso resta escluso dalla salvezza a causa della propria volontà di non accogliere l'evangelo del Cristo. Rosenzweig rompe questo nesso di doppia dipendenza dell'ebraismo dal cristianesimo, anzi: lo ribalta. Alla fine del suo capolavoro filosofico la Stella della Redenzione (1921), il rapporto tra ebraismo e cristianesimo viene rappresentato come una grande Stella di David nella quale l'ebraismo occupa il cuore della Stella (il fuoco o la vita eterna) e il cristianesimo i raggi, ossia la via con cui il messaggio dell'ebraismo viene portato ai popoli del mondo. Si tratta di una metafora estremamente affascinante, ma anche molto problematica. La und infatti con la quale Rosenzweig relaziona ebraismo e cristianesimo, sospende anche il nesso di qualsiasi causalità tra i due. L'ebraismo vive e perdura nella completa indifferenza dalla storia e dal tempo. E' una chiusa, lo ripeto, molto problematica e, in qualche modo, profondamente tragica: siamo nel 1921 e Rosenzweig viene a dirci che i destini di ebraismo e cristianesimo s'implicano reciprocamente, al pari di due servitori fedeli dediti alla stessa opera. Credo che la portata problematica di quelle pagine, ci costringa a ripensare dal profondo il senso di quel rapporto lasciando da parte anche una certa retorica conciliatoria e un po' melensa, nonché i facili entusiasmi che troppo spesso caratterizzano l'attuale dialogo interreligioso. Mi pare un'esigenza prioritaria se si vogliono ripensare quelle questioni. Oggi più di ieri.
Cercando di non tradire in maniera troppo riduttiva la profondità della sua riflessione, mi sembra possa essere utile chiarire alcuni termini da lei approfonditi. Tempo, comunità e politica appaiono, nelle sue pagine, come momenti necessariamente connessi; la connessione fra questi elementi si propone come il contributo più rilevante che la radice ebraica può garantire alla filosofia.
Le possiamo chiedere di aiutarci ad affrontare i termini e le relazioni fra essi?
Dico anzitutto che qui politica è da intendersi nell'accezione più ampia del termine, ovvero come forma, come modalità di abitare il mondo. Allora la connessione tra tempo e comunità diventa essenziale. In Hegel, la comunità costituisce il luogo in cui il tempo guadagna la propria concretezza, la propria – chiedo scusa per la brutalità del termine – realtà. L'operare della comunità diventa ‘presentificazione‘ del tempo, diventa attestazione e conferma continua della presenza del Dio che muore e risorge in essa. All'interno del fare comunitario, non solo il tempo trova la propria sussistenza, ma guadagna anche il proprio senso. Anche per Rosenzweig lo spazio comunitario gioca un ruolo decisivo nel suo rapporto con il tempo. Ma ciò avviene in una maniera radicalmente differente. Anzitutto – e qui l'ebraismo di Rosenzweig – perché Israele è ‘popolo' e non ‘comunità'. E poi perché l'esperienza che il popolo fa del tempo all'interno della liturgia (tema fondamentale in Rosenzweig) è sempre esperienza di un'incompiutezza. Il popolo deve generare il ‘proprio' tempo (Rosenzweig direbbe che deve forzare la venuta del regno), ma questa stessa necessità mostra ogni volta l'incompiutezza di quel tempo che essa genera. Mostra – ed è qui il punto – che l'origine del tempo è sempre altra dal tempo. A tal proposito si comprende forse meglio il titolo del libro. Il tempo vuoto (l'espressione è presa – non a caso – proprio da Hegel), il tempo della festa, il tempo del riposo sabbatico, è considerato da Hegel un tempo privo di essenza, una pura vuotezza insignificante che solo un popolo di schiavi avrebbe potuto consacrare alla propria divinità. Rosenzweig riconsidera il significato di tale vuotezza e lo libera dalla morsa hegeliana. Non riempiendola, ma mostrando come in quella vuotezza – in quel tempo del riposo sabbatico in cui ogni fare è interrotto, ogni tempo è sospeso – sia anzitutto origine ‘del' tempo. La cifra di quell'origine è anzitutto l'inadeguatezza di ogni ‘riposo', di ogni sospensione che quell'origine vorrebbe rievocare. Non c'è nessun residuo romantico in Rosenzweig.
Lo shabbàt – conclude in una pagina stupenda della Stella della Redenzione – è solo il sogno del compimento, non il compimento. Così il ritorno del tempo feriale non è nuova rigenerazione del tempo, ma è attestazione che il compimento sia sempre altro, sempre al di là dal proprio essere evocato. Se ciò è vero, allora con Rosenzweig siamo costretti a ripensare tutta quella serie di assunti con i quali vengono troppo spesso sdoganati concetti come quello di ‘messianismo' o di ‘tempo ebraico'. Perché in questo ‘messianismo' rosenzweighiano, da venire non è solo il futuro, ma anzitutto il presente. O forse – ma detto così è nulla di più di una semplice asserzione – da venire è propriamente il tempo qua talis…
Risulta, le confesso, difficile resistere alla tentazione di incrociare le sue parole con alcune delle grandi trasformazioni della nostra epoca.
Mi riferisco alla necessità di rivedere idee come quella di cittadinanza, appartenenza e così via.
Se non ci allontaniamo troppo dal percorso che lei propone, può aiutarci a capire il compito che la filosofia deve darsi avendo rinunciato all'idea di una hegeliana totalità? Può darsi un compito proprio in funzione di quella rinuncia
La sua domanda non ci allontana dall'itinerario fin qui tracciato, al contrario, ci pone innanzi alla cruda attualità del problema. Problema sul quale, le confesso, mi sento ben lungi dal poterle indicare una direzione, men che meno soluzioni. Credo che ci si debba però intendere adeguatamente sul significato di quella rinuncia. Perché è una rinuncia che la filosofia non opera, ma patisce.
In quella rinuncia non vedo un senso trionfalistico, come avviene in alcuni pensatori contemporanei. Non perché voglia piangere l'assenza della totalità o senta il bisogno di riproporne un recupero. Lo si è fatto e si sono prodotti enormi disastri, non solo filosofici. Ma penso che la massima hegeliana che la filosofia non debba edificare, resti pur sempre una regola imprescindibile. Se il tramonto della totalità indica il tramonto di ciò rispetto a cui la filosofia – come dice Rosenzweig – dalla Jonia a Jena ha individuato la modalità con la quale abitare il mondo, non è che l'accertamento del suo venir meno consenta di voltare semplicemente pagina. Noi siamo in quel venir meno, stiamo in quel tramonto. Le vittorie apparenti, in filosofia, pesano più delle peggiori sconfitte. Che i concetti di cittadinanza o di appartenenza siano messi in discussone, non significa che se ne producano per ciò stesso di nuovi o di diversi. Erranza, a rigore, potrebbe significare anche questo. In tal senso abbiamo forse a che fare con una forma di nichilismo che non ci consente nessun oltrepassamento, perché ciò che viene meno è proprio questo rapporto di antecedenza-superamento. La filosofia rosenzweighiana ci lascia in eredità termini come quelli di estraneità, sradicatezza, resto e residualità la cui urgenza, ben prima della loro attualità, mi pare innegabile.
Antonio Fresa
Giacomo Petrarca
Nel vuoto del tempo. Rosenzweig, Hegel e lo shabbàt
Jaca Book, 2015
Pagine 204, € 16,00
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