Paolo Borsellino, una verità ancora da scrivere. L’indignazione del fratello Salvatore

Palermo foto Costantino Spatafora
history 23 minuti di lettura

Beati i popoli che non hanno bisogno di eroidice Bertold Brecht a ragione. Perché quel Paese aggiungo io ha equilibri sani, che non richiedono il sacrificio dei loro cittadini migliori per guarire.

Sicuramente Giovanni Falcone e Paolo Borsellino lo furono degli eroi. Morirono per ognuno di noi, insieme agli uomini e alle donne delle loro scorte, sapendo bene dove li avrebbero portati i loro atti, i loro pensieri. Eppure a quella morte non si sottrassero.
Falcone e Borsellino nacquero e crebbero nel quartiere della Kalza a Palermo. Erano amici, da piccoli giocavano insieme a pallone, fecero carriera nella magistratura, diedero vita a una stagione di speranza per la Sicilia e per il Paese. Furono fermati. Il primo a Capaci, il secondo in via D’Amelio. Questa è l’intervista a Salvatore Borsellino il fratello di Paolo Borsellino. È una requisitoria dura, lucida, che non lascia spazio a malintesi o strumentalizzazioni.

Prima di lasciare la parola a Salvatore Borsellino ricordiamo.
Strage di Capaci 23 maggio 1992 ore 17:57
La strage di Capaci fu un attentato terroristico-mafioso compiuto nei pressi di Capaci. Cosa nostra fece esplodere un tratto dell’autostrada A29, mentre vi transitavano sopra le macchine della scorta con a bordo il giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti di Polizia. Insieme a Giovanni Falcone morirono: la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Di Cillo, e Antonio Montinaro.

La strage di via D’Amelio 19 luglio 1992
La strage di via D’Amelio fu un attentato terroristico-mafioso avvenuto a Palermo in via Mariano D’Amelio. Persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e gli agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Dopo il silenzio le parole.

Nei giorni scorsi c’è stata un’importante sentenza del Tribunale di Caltanisetta. Questa sentenza ha visto cadere in prescrizione i reati di calunnia di due ex poliziotti del pool stragi (Mario Bo, Michele Ribaudo), e assolto il terzo (Fabrizio Mattei). I tre ex agenti della squadra del prefetto Arnaldo La Barbera, erano accusati di aver costruito un falso pentito nella figura di Vincenzo Scarantino, e averlo indotto a mettere a verbale bugie e accusare degli innocenti. Per l’esclusione dell’aggravante, aver coperto alleanze e interessi mafiosi di alto livello, i reati di Bo e Mattei sono stati dichiarati prescritti. Ribaudo invece è stato assolto. Quindi sembra sia stata bocciata la tesi della procura che parlava di gigantesco depistaggio. Che cosa ne pensa?
Penso innanzitutto che questo fosse un processo bacato fin dall’inizio. Perché venivano processati gli ultimi anelli della catena, quelli che materialmente hanno istruito e costretto Vincenzo Scarantino ad affermare il falso. Questo processo invece a mio avviso avrebbe dovuto interessare tutta la catena di comando, altrimenti  non aveva senso.
Tra l’altro non ha senso per un altro motivo. Sono stati prescritti i reati. Ma la prescrizione è arrivata a causa del reato. Perché se non ci fosse stato questo depistaggio certe cose sarebbero venute alla luce prima. Invece il corso della giustizia è stato allungato di anni. Si è dovuti arrivare al Borsellino quater, dopo il Borsellino e Borsellino due dove dei magistrati come Giovanni Tinebra, oggi non più in vita, hanno avallato quello che era evidentemente un depistaggio. E questa la causa del fatto che questo processo è avvenuto dopo anni. A questo punto è scattata la prescrizione. È un cane che si mangia la coda. Vengono prescritti perché è passato troppo tempo ma è passato troppo tempo perché c’è stato il depistaggio.
Ovviamente è una sentenza che mi colpisce in modo negativo. Perché è un ulteriore colpo alla speranza di avere verità e giustizia su questi fatti avvenuti trent’anni fa. E su cui, a trent’anni di distanza, non si ha ancora una completa verità né una completa giustizia. Anzi, siamo ancora molto lontani.
Paolo prima di essere ucciso diceva a sua moglie: “Quando mi uccideranno – ne parlava come di una cosa reale – sarà stata la mafia ad uccidermi ma saranno stati altri ad aver voluto la mia morte”.

Chi sono questi altri?
Io sono convinto che mio fratello è morto perché si è opposto a una scellerata trattativa, che tra l’altro abbiamo appreso in un’altra sentenza recente non essere neanche un reato. Abbiamo appreso essere un reato per i mafiosi che l’hanno portata avanti, che sono stati contattati, ai quali è stato bussato alla porta. Non è invece un reato per i funzionari dello Stato che l’hanno portata avanti. È una sentenza per la quale a mesi di distanza aspettiamo ancora le motivazioni. Evidentemente sono delle motivazioni molto difficili da scrivere.

In questo quadro di depistaggi e mezze verità rientra anche il fatto che non fu rimossa la 126 che esplose in via D’Amelio, causando la strage, la morte di Paolo Borsellino e della sua scorta? Qual è la versione ufficiale ad oggi, di quella che sembrò presto una grande ingenuità?
Ci sono state molte cose che io non posso pensare siano state coincidenze o ingenuità. Quando c’è stato quell’attentato, quell’esplosione, il luogo dell’esplosione, tra l’altro una via chiusa, un budello, avrebbe dovuto essere transennato. Si sarebbe dovuto impedire alle centinaia di persone che si aggiravano in mezzo alle macchine di calpestare i pezzi dei ragazzi morti, di calpestare il sangue di quei ragazzi. Invece non fu neanche transennata. Questo forse per permettere a chi doveva di far sparire l’agenda rossa di Paolo. Quell’agenda rossa a mio avviso è la scatola nera di quella strage. A trent’anni di distanza non c’è mai stato un processo, un vero e proprio processo, che abbia riguardato proprio l’agenda rossa.
Il capitano Arcangioli che è stato fotografato e ripreso, mentre con la borsa di Paolo in mano si allontanava dalla macchina di Paolo, è stato sì processato, ma è stato assolto in fase di giudizio preliminare. Non c’è stato neanche un dibattito. E neanche dopo ci sono stati approfondimenti, nonostante i giudici del Borsellino quater avessero raccomandato di indagare più a fondo sulla sparizione dell’agenda rossa.
Il Borsellino quater aveva rappresentato una svolta. Io speravo che dopo quella svolta la giustizia avrebbe preso una strada più veloce, che le cose sarebbero andate avanti più in fretta. Invece, dopo la svolta la via della verità e della giustizia si è dimostrata ancora più impervia di quanto era stato fino a quel momento.

Torniamo all’agenda rossa. Nei due mesi che passarono da Capaci a via D’Amelio, Borsellino parlò non poco anche in situazioni pubbliche, ma apparve solo e sempre più preoccupato. Aveva quasi fretta. Perché non scrisse qualcosa di più preciso su ciò che pensava, magari sulla trattativa, sulle intuizioni inerenti all’omicidio di Falcone o su chi poteva servire altri e non lo Stato, anche tra le forze dell’ordine e i magistrati? Perché non condivise praticamente con nessuno le sue riflessioni più intime? Non si fidava abbastanza, voleva proteggere qualcuno non mettendolo a parte di verità scomode?
No. Assolutamente. Paolo era un magistrato serio. Non poteva parlare di una trattativa per cui ancora non c’erano delle prove. Paolo nel suo ultimo discorso pubblico disse che aspettava di essere chiamato dalla procura di Caltanissetta, per dire quello che sapeva. Si riferiva alla strage di Capaci. Si aspettava di essere chiamato perché disse “Io di quella strage sono un testimone e aspetto di essere chiamato dalla procura di Caltanissetta”. Paolo non venne mai chiamato. Ed erano passati ben cinquantasette giorni dall’assassinio di Giovanni Falcone. Era stato convocato per la settimana successiva alla sua morte. E questa io ritengo sia stata un’altra delle cause acceleranti la strage di via D’Amelio: impedirgli di andare a deporre a Caltanissetta su quello che sapeva della strage.
Paolo era l’unico ad avere letto in vita i diari di Giovanni Falcone. Anche quelli poi alterati, sottratti dal database nel quale li scriveva. Poi per il resto a me hanno chiesto spesso come mai Paolo non avesse fatto delle copie di quell’agenda rossa. Perché non aveva in qualche modo salvato quello che aveva scritto sull’agenda rossa. Io ritengo che lo abbia fatto. Ma ritengo che abbiano fatto sparire anche quelle. Dopo la morte di Paolo delle persone dei Servizi, gli stessi che io ritengo abbiano sottratto l’agenda di Paolo, sono andati a casa di Paolo, nel suo studio. Sono andati al palazzo di giustizia, e se Paolo aveva lasciato qualche copia di quell’agenda, sicuramente è stata fatta sparire.

Si può dire, tenendo presente la debita distinzione tra verità storica e verità giudiziaria (l’esempio di Piazza Fontana è clamoroso), che tra il 1992 e il 1993 ci fu una sorta di nuova strategia della tensione, decisiva nel determinare il quadro politico della cosiddetta Seconda Repubblica?
Sì. Ma non soltanto il quadro politico, ma anche un nuovo equilibrio tra la politica e la mafia. La politica nel nostro paese si è sempre servita dalla mafia per coprire certe azioni, da Portella della Ginestra in poi. Erano venuti meno dopo la sentenza di cassazione del maxi processo i referenti che c’erano stati fino a quel momento. E la mafia voleva cambiare questi referenti. In un primo momento avevano pensato addirittura di partecipare direttamente alle elezioni, sull’onda di quello che succedeva al Nord. Poi qualcuno portò avanti l’idea di un nuovo partito politico. Quindi questo progetto fu abbandonato. Però a mio avviso quella strage è stata fatta per avere un nuovo equilibrio. La politica, una parte della politica, dello Stato, ne ha approfittato per cambiare gli equilibri politici nel nostro paese, approfittando di questo bisogno della mafia di cambiare i referenti politici.

Proprio facendo riferimento a quanto lei sta dicendo posso dirle che ho appreso con estrema sofferenza che Cuffaro e Dell’Utri, condannati per i loro legami con la mafia, siano tornati alla ribalta della vita politica siciliana
Dell’Utri e Cuffaro hanno il diritto di parlare perché hanno scontato la loro pena. La cosa veramente vergognosa e  riprovevole, che sono stati sostenuti da questi personaggi, non abbiano rifiutato espressamente il loro appoggio. 

Partendo da queste considerazioni sembra estremamente difficile, se non impossibile, che si possa arrivare a una verità. Questa ci porterebbe a quelli che sono i “servitori” dello Stato e alle loro collusioni con la mafia? È lo Stato stesso che non vuole che si arrivi alla verità?
Purtroppo grandi passi avanti nella lotta alla mafia sono stati fatti grazie ai collaboratori di giustizia, quelli che chiamano pentiti anche se non sempre sono pentiti. Ci vorrebbe un pentito di Stato. Perché si possono fare gli stessi passi per quanto riguarda il coinvolgimento dello Stato in questi avvenimenti. Ma purtroppo un pentito di Stato non c’è e non ci sarà mai.

Negli ultimi tempi si è fatto un grande parlare della modifica del 41bis. È un atto dovuto per arrivare un criterio di giustizia più moderno, o è un tentativo per spuntare ulteriormente la lotta alla mafia?
Purtroppo in questi giorni, in cui si proclamano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come degli eroi, se ne sta distruggendo quel patrimonio di leggi che ci avevano lasciato, e che per trent’anni hanno permesso alla magistratura e alle forze dell’ordine di assestare dei grossi colpi, se non altro, alla mano armata della mafia. Oggi si finge di obbedire a una raccomandazione della Corte europea, che prima di venire a sindacare sulla nostra legislazione antimafia la dovrebbe studiare ed assumere a legislazione per tutta l’Europa. Perché fino a quando non ci sarà una legislazione comune in Europa per combattere la mafia, una mafia che oggi non ha più confini, allora la lotta sarà una lotta persa. A me sembra piuttosto che oggi si vogliano, a trent’anni di distanza, pagare le cambiali di quella scellerata trattativa. Perché ricordiamo che questi articoli di cui lei ha parlato: il 41bis, la legge sui collaboratori di giustizia, il carcere duro, erano tra i punti che Totò Riina aveva messo, in quel diktat, in quel papello, che aveva presentato ai funzionari dello Stato che erano andati a bussare alla sua porta.
In teoria erano andati per fermare le stragi. In pratica quella trattativa aveva portato ad altre stragi, alle stragi addirittura portate sul continente: la strage di via dei Georgofili alla Torre dei Pulci, agli Uffizi, al museo di Arte Moderna a Milano. Obiettivi che tra l’altro erano ignoti ai mafiosi. Delle menti raffinatissime devono aver suggerito a questi mafiosi che se si uccide un giudice ne viene fuori un altro. Se si uccide Giovanni Falcone viene fuori Paolo Borsellino, Se si uccide Paolo Borsellino c’è Roberto Scarpinato, c’è Di Matteo. Invece se si distrugge il patrimonio artistico dello Stato questo non può essere ricostruito.
Ecco a me sembra che oggi, a trent’anni di distanza, si stiano per pagare quelle cambiali che Riina aveva messo espressamente in quel papello. Voglio fare notare che questi articoli, che oggi si vogliono abolire, facevano parte di un decreto studiato da Giovanni Falcone quando era all’Ufficio degli affari penali a Roma. Allorché era stato costretto a lasciare il Palazzo di giustizia di Palermo. Quando venne presentato quel decreto? Soltanto dopo la morte di Giovanni Falcone, dopo la strage di Capaci. Roberto Scarpinato disse che era un decreto sporco di sangue. Disse: “Sono trent’anni che aspettiamo leggi come queste. Oggi soltanto dopo che è stato versato il sangue di Giovanni Falcone, questi decreti vengono presentati dal governo in Parlamento”. C’era però in Parlamento una maggioranza così detta garantista che non avrebbe fatto passare quel decreto. Quel decreto sarebbe stato bocciato. Ci volle la strage di via D’Amelio. Perché a un solo giorno dalla sua scadenza, il 7 agosto, quel decreto venisse approvato dal Parlamento e diventasse legge dello Stato. Con questo voglio dire anche che la strage di via D’Amelio non fu quindi funzionale alla mafia. Perché quella strage fece sì che quei punti, che erano stati dichiarati come irrinunciabili per quanto riguarda la trattativa, venissero invece approvati e diventassero legge dello Stato. Quindi la strage di via d’Amelio non fu funzionale alla mafia ma a quegli altri di cui parlava Paolo Borsellino, quando parlava della sua imminente morte con sua moglie.

Perché Paolo non si ritirò sapendo che l’avrebbero ucciso? Per un senso dello Stato o per amicizia nei confronti di Giovanni Falcone?
Io stesso telefonai a Paolo il venerdì prima che lo uccidessero. Gli dissi: “Paolo per carità vieni via da Palermo. Fatti trasferire a Milano, a Torino, a Firenze, dove vuoi”. Io vivevo già al Nord allora. Paolo si alterò nel rispondermi. Disse: “Io non fuggirò mai. Io presterò fede fino all’ultimo al giuramento che ho fatto allo Stato”. E aggiunse: “Da qualunque parte venga quella morte che so sta per arrivare”. Paolo era conscio di quello che sarebbe successo. Però Paolo era un servitore dello Stato. E anche quando si era reso conto che pezzi deviati dello stesso Stato stavano tramando per trattare con i mafiosi ha prestato fede fino all’ultimo al suo giuramento allo Stato. Sicuramente ha fatto questo anche per il fortissimo legame che lo univa a Giovanni Falcone.

Qual era Salvatore il rapporto con suo fratello Paolo?
Paolo aveva un senso dello Stato fortissimo. Io sono fondamentalmente anarchico di natura, libertario. Avevamo anche contrasti con Paolo quando eravamo ragazzi. Ma ho giurato a mia madre la quale, il giorno dopo la strage, disse a me e a mia sorella Rita: “Da questo momento voi dovete andare dappertutto, dovunque vi chiamino, per non fare morire il sogno di Paolo. Fino a quando qualcuno parlerà di vostro fratello, vostro fratello non sarà morto”. Io ho fatto questo giuramento a mia madre e lo manterrò fino all’ultimo giorno della mia vita.

Paolo Borsellino com’era con i familiari e con la mamma? Entrambi avevate un rapporto molto forte con vostra madre.
Sono cose private però questo glielo voglio dire. Mi diceva nostra mamma, ormai sono rimasto solo io di quattro fratelli quindi posso dire mia madre, mi diceva che Paolo a cinquant’anni andava da lei e le diceva: “È vero che vuoi più bene a me e non al milanese?”. Il milanese ero io perché mi ero trasferito a Milano. Paolo non mi aveva mai perdonato di aver lasciato la Sicilia, cercava in ogni maniera di spingermi a tornare.

Ho letto l’interessante intervista che sua nipote Fiammetta ha rilasciato il 26 giugno del 2022 a Piero Melati per L’Espresso. Ci sono alcuni punti che vorrei chiarire con lei. Mi sembra che Fiammetta sia più possibilista rispetto a lei a una revisione del 41 bis.
Questa è una cosa che ho letto anch’io. Comunque per quanto riguarda Fiammetta benché abbiamo tutte e due stessa voglia di verità e giustizia, seguiamo strade diverse. Tutti e due andiamo nelle scuole, parliamo soprattutto ai giovani, perché per noi come per Paolo la speranza è nei giovani. I motivi su cui siamo in disaccordo sono fondamentalmente l’avallo che Fiammetta dà al dossier mafia-appalti come causa scatenante della strage di via d’Amelio.

Ricordiamo quanto riportato da Piero Melati nell’intervista a sua nipote sull’Espresso in relazione a questo dossier. «Attorno a quel dossier lo stesso Falcone, in due convegni pubblici e in un intervento relativo ai “paradisi fiscali”, aveva fatto riferimento alla “mafia che si è quotata in Borsa”. Il pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro ha poi detto che Tangentopoli a Milano era partita perché Falcone e Borsellino gli avevano riferito quanto detto dal super pentito Tommaso Buscetta: i miliardi del traffico internazionale di droga dalla Sicilia erano stati riciclati e investiti al Nord. E aveva parlato a questo proposito della holding di Raul Gardini, l’imprenditore suicidatosi nel 1993».

Io ritengo che il dossier mafia appalti non sia altro che il primo dei depistaggi, che avvenne prima dell’assassinio di Paolo. Quando Paolo va alla caserma di Carini, da solo senza i suoi collaboratori, e richiede un incontro a De Donno, a Subranni, a Mori, io ritengo che Paolo sia andato lì per contestare quella trattativa che aveva scoperto. I Ros dicono che è andato lì per parlare del dossier mafia-appalti. Questo temo che sia un depistaggio per allontanare i riflettori dalla trattativa e spostarli sul sistema degli appalti. Sicuramente Paolo aveva in mano il dossier mafia-appalti. Sicuramente era una cosa che gli interessava, ma questo non avrebbe giustificato l’accelerazione della strage. Una strage che fu compiuta in fretta, una strage che fu compiuta evidentemente per impedire che Paolo potesse per esempio, come forse Paolo avrebbe potuto fare, rivelare all’opinione pubblica quella trattativa che aveva scoperto. Mentre oggi si parla di trattativa come se fosse qualcosa di normale, lei pensi a che cosa sarebbe successo se nel ’92, dopo la strage di Capaci, Paolo avesse rivelato che pezzi dello Stato stavano trattando con gli assassini di Giovanni Falcone.
Quindi, penso che queste siano state le cause immediate per l’accelerazione della strage di via D’Amelio. Uno la trattativa, due il fatto che Paolo non doveva andare a deporre a Caltanissetta. Infatti viene ucciso prima che potesse andare, come aveva richiesto lui stesso, il 25 aprile nel suo ultimo discorso pubblico nella biblioteca comunale di Palermo, per testimoniare su quello che sapeva e su quello che aveva scoperto di questa strage. Anche se Pietro Giammanco non gli aveva mai dato la delega per indagare su i delitti di mafia a Palermo. E gliela dà soltanto alle sette del mattino di quel 19 luglio, in cui gli fa una telefonata e gli dice che finalmente gli dà quella delega. Fino a quel momento Paolo è stato costretto ad andare a interrogare Gaspare Mutolo e Leonardo Messina, collaboratori di giustizia fondamentali per scoprire gli interessi comuni tra mafia e pezzi delle istituzioni, con altri giudici perché lui non aveva la delega per farlo. Giammanco gliela dà soltanto alle sette del mattino di quel 19 luglio. Quando la macchina che avrebbe compiuto quella strage era già posteggiata davanti alla casa di nostra madre.

La riforma Cartabia in quale direzione va?
Io sono un ingegnere ma secondo me la riforma Cartabia non è una riforma. Si tratta veramente della rinuncia dello Stato ad essere uno Stato di diritto. Fino a oggi c’era la prescrizione. Oggi si parla di improcedibilità. [improcedibilità dei processi in ragione dell’eccessiva durata delle fasi di impugnazione, nda.] Con l’improcedibilità lo Stato rinuncia a dare giustizia a chi è vittima di quel reato, e anche alla fine a dare giustizia a chi è accusato di quel reato. Perché alla fine non sarà né colpevole né innocente. Ora, anche in questo caso si finge di obbedire a una raccomandazione della Corte di giustizia. Però la Corte di giustizia ci aveva chiesto di accorciare la durata dei processi. Ma i processi si accorciano in un’altra maniera. I processi si accorciano aumentando gli organici della magistratura, digitalizzando le procedure che ancora in gran parte vengono fatte manualmente non troncando i processi. Da oggi in poi nelle aule di giustizia dovranno togliere quella scritta “La legge è uguale per tutti”. Dovranno scrivere “La legge non è uguale per tutti”. Cioè c’è una legge per i potenti che potranno procrastinare con stuoli di avvocati all’infinito la durata dei processi, ne abbiamo esempi di questi nel nostro Paese. E ci sarà una giustizia per tutti gli altri per i quali le sentenze dello Stato saranno inesorabili.

Sua nipote ha deciso di incontrare i fratelli Graviano e di guardarli negli occhi. lei li incontrerebbe? Se sì perché?
Assolutamente no. Non ho che cosa chiedere a questi assassini. Questi assassini devono essere sottoposti alle leggi dello Stato. E non ho bisogno di guardarli negli occhi. Io sono laico. Per me non esiste neanche il perdono. Non capisco quando i giornalisti vanno a chiedere alle vittime di reati: “Ma lei perdona”. Ma che cosa vuol dire? Loro devono pagare le loro colpe e deve essere lo Stato a fargli pagare le loro colpe. Se dovessero collaborare con la giustizia allora ritengo giusto ci sia una legislazione premiale. Per esempio io ho conosciuto Gaspare Mutolo. Gaspare Mutolo è un assassino che ha strangolato con le sue mani almeno quaranta persone. Io con Gaspare Mutolo parlo perché ha cambiato la sua vita, ha collaborato con la giustizia, ha fatto assicurare alla giustizia almeno trecento mafiosi. Oggi addirittura ha scelto di abbandonare il programma di protezione per tornare a Palermo, anche se per lui questo può significare rischiare la vita. Lui si è pentito. In questo caso lo possiamo dire, lui si è pentito, grazie alla spinta di sua moglie. Ora che sua moglie è morta vuole andare dalle donne di mafia a dire che è possibile un’altra vita, che stando all’interno della mafia c’è soltanto una possibilità, morire o finire in carcere. Ecco, con Gaspare Mutolo io non posso dire che l’ho perdonato. Perché non capisco il perdono, anche perché non è stato lui ad uccidere mio fratello o a partecipare all’uccisione di mio fratello. Però per me lui è una persona che si è riscattata, ha cambiato vita. E io lo guardo negli occhi, mi è capitato anche di abbracciarlo. Con i Graviano assolutamente no, fino a quando i Graviano continueranno a lanciare dei messaggi criptici dall’interno del carcere e a non collaborare con la giustizia. Con i Graviano non ho nulla da chiedere, nulla da dire.

Perché si pente un mafioso, che cosa lo spinge a pentirsi?
Io le posso dire per esempio che cosa ha spinto Gaspare Mutolo a pentirsi. Perché per ognuno c’è una via diversa. Per Spatuzza è stato l’incontro in carcere con un cappellano che gli ha veramente cambiato la vita. Anche Spatuzza può essere definito un pentito, diversamente da altri collaboratori di giustizia. Gaspare Mutolo ha iniziato il suo percorso di pentimento, spinto da sua moglie, dopo che era stato ucciso dalla mafia uno dei nipoti di Vito Badalamenti che lui aveva conosciuto da bambino, che la sua famiglia aveva conosciuto da bambino. Allora la moglie di Gaspare che fino a quel momento aveva assecondato quello che aveva fatto suo marito, disse a Gaspare Mutolo che quella strada non era più percorribile, che doveva lasciare quelli che erano soltanto degli assassini, anche se un assassino era stato anche a lui. Ripeto aveva strangolato con le sue mani quaranta persone. Quando una volta gli ho chiesto: “Ma tu come facevi dopo aver strangolato una persona a tornare a casa e accarezzare tuo figlio, con quelle stesse mani con cui avevi tolto la vita?”. Lui mi ha dato una risposta incredibile: “Perché io il lavoro lo lasciavo fuori da casa”. Per lui era diventato un lavoro, purtroppo, uccidere giovani. Questo succede all’interno di quella società criminale terribile che è la mafia.

Chi sono invece i collaboratori di giustizia, sono diversi dai pentiti?
Perché sono collaboratori di giustizia? Per cercare di avere degli sconti di pena, grazie alla legislazione voluta da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. È chiaro però che in quel caso è necessario da parte dei giudici inquirenti fare assolutamente tutte le verifiche, per capire se quel collaboratore di giustizia ha detto tutto, oppure ha detto soltanto quello che gli interessava per avere questi sconti. Quindi sicuramente la gestione dei collaboratori di giustizia non è una cosa semplice. Giudici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano sicuramente in grado di portarla avanti.

Secondo lei in questo momento chi può prendere il testimone di Paolo e Giovanni?
Io credo che Nino Di Matteo sia un magistrato in grado di continuare l’opera, non sicuramente allo stesso livello, però di continuare  il lavoro di Paolo e Giovanni; Roberto Scarpinato, ora purtroppo è andato in pensione; sicuramente Nicola Gratteri, sicuramente ce ne sono altri. Ce sono altri nella procura di Firenze, sono magistrati che sicuramente sono in grado di portare avanti il corso della giustizia se non vengono ostacolati.

Siamo ancora in una situazione in cui rischiano la vita?
Sicuramente sì. Gratteri la vita la rischia sicuramente. L’ha rischiata Di Matteo. Era stato scoperto un attentato che era stato preparato per lui. Dopo via dei Georgofili, dopo via Palestro, non ci sono stati altre stragi. Ma in un momento soprattutto di incertezza politica come quella di oggi purtroppo potrebbero ricominciare.

Gianfranco Falcone

 

 

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