
Finalmente ho finito di leggere il libro di Paolo Milone, L’arte di legare le persone edito da Einaudi. Pensavo di averci messo tanto tempo ad arrivare alla fine perché travolto dagli impegni lavorativi. Solo dopo mi sono reso conto che l’ho portato dietro per così tanto tempo perché è un libro irritante, con cui ho ben presto iniziato a litigare, pur non sapendo il perché di questo litigio. Soprattutto non capendo che stavo litigando. Troppo spesso nelle parole di Milone compare un tocco lieve che cozza con i ritratti dei pazienti immersi nella loro follia. La follia non è lieve, sbrana la carne e l’anima.
Paolo Milone è uno psichiatra, ha lavorato a Genova prima in un Centro Salute Mentale, poi in un reparto ospedaliero di Psichiatria d’urgenza.
Nonostante questo sia il suo primo libro si muove con sicurezza, e con una vena poetica chiara, all’interno del mondo della scrittura. Riuscendo in alcuni momenti a rallegrarci con la sua ironia.
Forse è proprio quest’ironia che mi raggela, mi confonde, mi indispone, anche pensando alla terribilità di alcuni versi di Alda Merini, che dei manicomi è stata ospite per troppi lunghi anni, in una notte interminabile a cui non doveva neanche affacciarsi. La sua non era malattia mentale, era disagio del vivere.
Paolo Milione scrive per quadri separati, quasi aforistici, con i quali ricostruisce una lunga carriera, in cui ha cercato di districarsi in quelli che sono gli infiniti tranelli della malattia mentale. A volte trovando, ma più spesso cercando risposte, che sono le risposte che tutti noi vorremmo avere. Forse alla fine del libro, soprattutto nel capitolo che dà il titolo al volume L’arte di legare, c’è un eccessivo indulgere in quello che è un conflitto tra psicologia e psicoanalisi da una parte e psichiatria dall’altra.
Si respira grande amarezza, e un conflitto con la psicologia. Ma la questione non è a nostro parere un conflitto tra psichiatria e fisica nucleare, tra psichiatria e entomologia. Il problema non è il conflitto tra diverse discipline, ma trovare il terreno comune in cui le discipline possono dialogare.
Nella sua scrittura Milone si espone. È lì con tutte le sue domande, i suoi dubbi inevasi.
A volte riduce tutto a macchietta, a volte è partecipe. In ogni caso si affaccia al mistero della morte, della malattia, della follia. A un mistero che forse è il mistero della vita.
L’arte di legare è un libro imperfetto, un libro incompleto, irritante. Ma questo è forse uno dei suoi pregi maggiori. Diventa difficile catalogarlo. Milone l’ha scritto perché voleva perdonarsi? L’ha scritto perché voleva risposte? L’ha scritto perché pervaso da un eccesso di dolore accumulato in una vita trascorsa con i pazienti psichiatrici? A un certo punto questo troppo, questo dolore, voleva uscire, premeva, chiedeva, reclamava di uscire? Milone ha fatto uscire il suo troppo attraverso la scrittura perché non poteva opporsi?
Milone ci trascina nelle sue domande inevase, negli interrogativi sul suicidio. È un estremo atto di liberà o negazione della libertà. Ci lascia senza risposte.
Milone risponda. È libertà o negazione della stessa?
Ci provoca con le sue riflessioni e le sue domande sul suicidio.
Pensare che il suicidio sia un atto volontario serve solo essere a rassicurarci: se non voglio, non lo faccio. Ma è così?
E poi ancora
Si dice spesso: in un momento di lucidità si uccise. Non sarebbe meglio: in un momento di lucidità
si curò? Strana lucidità quella che ti uccide.
Sì. È vero è proprio una strana lucidità, oseremmo dire. Ma è quella strana lucidità che ti prende quando ti rendi conto dell’insensatezza del vivere, e che il dolore è parte della vita. Scrive Ungaretti nei suoi versi
Volti al travaglio
come una qualsiasi
fibra creata
perché ci lamentiamo noi?
Si avverte ad ogni modo che quello del suicidio è un tema che lo appassiona, anche se è un certo punto dovrà abbandonarlo. Per paura? Per igiene mentale? Perché sono troppo incombenti le domande? O semplicemente perché sono troppo difficili e complicate, irraggiungibili le risposte?
A tratti nel testo di Milone traspare un grande smarrimento. Non ha soluzioni prêt-à-porter. È presente piuttosto il tentativo di gettare uno sguardo sulla malattia mentale.
Nelle pagine di questo psichiatra scrittore c’è pietas e c’è amore, amore per Genova, amore per i pazienti.
C’è una città con i suoi vicoli, con i suoi palazzi, con le scale a chiocciola e i gradini sfalsati. C’è la ricerca di Sergio schizofrenico, la fatica di riuscire a raggiungerlo per un TSO, e riuscire poi a portarlo al reparto 77, il reparto di Psichiatria d’urgenza dove lavora Milone. Ci sono i visi ce i tic dei pazienti che come in un a moderna malebolge attraversano la vita dell’uomo e psichiatra Milone.
Una traccia di chi sia Paolo Milone, di che cosa sia fatta la sua psichiatria, la troviamo nella nota finale dell’autore. Io non sono nostalgico della vecchia psichiatria: la questione non è contenere o non contenere, ma fare un fare una buona psichiatria. Il vero discrimina è non abbandonare il paziente.
Ma questa affermazione porta con sé una domanda che non mi lascia, mi scortica. Si affaccia e rimane. Come si fa a non abbandonare il paziente? Che cosa è una buona psichiatria?
Forse Milione e sarebbe felice per l’ulteriore domanda.
Che cos’è una buona psicologia? Che cos’è una buona psicanalisi? E che cos’è una buona medicina? Forse le risposte a queste domande stanno veramente nella poesia di Alda Merini.
Forse il capitolo con cui sono entrato più in conflitto rispetto alle mie idee di ciò che è cura, di ciò che è psichiatria e psicologia sono proprio le pagine del capitolo Legare le persone. in cui Paolo Milone fa affermazioni importanti, che pur non potendo condividere, sollevano problemi non indifferenti e che richiedono al lettore di prendere posizione.
Mi dici che è un paziente agitato e confuso si può calmare con la parola e il gesto. Luca, il paziente agitato e confuso non comprende né Parola né gesto, per definizione. Tu insisti che l’hai fatto più volte. Non erano pazienti agitati, confusi. (Pagina 143)
È veramente la cosa più semplice legare le persone?
Questo di Milone è un libro che ho potuto prendere soltanto a piccole dosi, perché implica un’immersione, un viaggio, nella follia.
Verso la fine del libro l’autore descrive la pausa che gli infermieri prendono dopo aver legato un paziente.
L’ultima fase è quella delle rimembranze davanti al fuoco. Il paziente dorme e gli infermieri si raccolgono in cucina […] E piano piano ci si lava della violenza e della follia.
Ma è veramente così facile lavarsi dalla follia. Non è qualcosa che si appiccica alla pelle, che non si può più scrostare, perché diventa una seconda anima?
Questo medico psichiatra ci sembra che a tratti sia autoassolutorio come quando scrive che Legare o non legare non lo decide il singolo psichiatra, ma l’organizzazione del reparto, sono i reparti che legano o non legano, non il singolo medico […] Non è cattivo chi lega, legare faticoso. È cattivo chi abbandona il paziente.
L’arte di legare le persone è un libro irrisolto. È un libro che pone domande importanti. Ci pone davanti a pratiche che richiedono un dibattito, che non può certo esaurirsi nello spazio di un commento o di un’opera autobiografica.
Io, legando il paziente a letto in cinque minuti metto tutto in sicurezza e posso usare dosaggi bassi di farmaci con assai meno rischi. Il paziente resta vigile posso parlarli, rassicurarlo e chiedere informazioni. Ma ogni psichiatra fa quello che sa e può. Di fronte un paziente agitato e confuso, ogni strada e sassosa.
Quello della contenzione in psichiatria è sicuramente un grave problema. Milone lo affronta di petto quando critica i reparti a contenzione zero in cui non crede. Ritiene che rappresentino un modo di far propagare la follia, farla dilatare, ingigantire, farla diventare pervasiva.
Sarei felice di avere le adamantine certezze che ha Milione in alcuni punti. Mi viene spontaneo chiedermi se Basaglia ci sia stato per niente.
La tentazione è quella di credere alla semplificazione della contenzione, a questa semplicità. perché è pacificante. Ma è così?
Contenere? Legittimare il contenere non significa tornare a prima della legge Basaglia in cui gli infermieri venivano selezionati tra i più robusti e forti, in grado di competere fisicamente con i pazienti? Se si accetta la logica del legare è ancora possibile una psichiatria fenomenologica, in cui si ascolta ogni paziente per quello che è nella sua umanità? O legare fa parte di un altro tipo di ascolto?
Sul legare Milone è reciso. Dialoga su questo con uno dei colleghi. Ma il fatto che sia una giovane dottoressa non ne squalifica di per se stesso la posizione? Data la giovane età la posizione della collega sembra dettata da inesperienza, più che da un’attenta decisione.
Torno dal pronto con una ragazza legata alla barella, Giulia la vede, le vengono gli occhi lucidi e protesta: la contenzione è un atto violento, toglie la libertà, va abolita e basta.
Giulia, hai ragione. Ma la violenza e la libertà sono tematiche psicologiche, non psichiatriche. Il paziente psichiatrico in acuto non concepisce il significato di violenza e libertà. Per lui è più rilevante la tematica esistere o non esistere. Talvolta bisogno di essere contenuto per ricomporsi nella sua unità, percepirsi, vivere. Se tu gli dai gentilezza e libertà, lo uccidi. Mi guardi dubbiosa. Provi a capire ma resti non convinta. Gli psicologi, è incredibile, vivono in un mondo psicologico.
Sarebbe bello se tutto fosse così semplice, lineare. Ma se si accetta la logica del legare che ne è di Basaglia? Che ne è della legge 180? Che è delle sperimentazioni negli ospedali psichiatrici di Trieste Gorizia?
Milone tenta poi la strada della poetica del legare. Ma il legare può avere una poetica? O è e rimane un atto brutale e violento di coercizione? Alla poetica del legare preferisco contrapporre la poetica dello slegare, dello sciogliere. Non nasciamo quando il genitore ci indica la strada, ci invita ad andare, perché il mondo ci attende.
E sul legare Milone conclude
Voglio dir la verità: io in passato ho legato molte persone, di ciò mi sono emendato, ma non mi sono ancora pentito.
Nella sua difesa dell’arte del legare Milone verso il finale diventa sarcastico. Il titolo del capitolo La parola è paglia la dice lunga, e la dice anche sulla sua rabbia.
Io ho passato la vita a convincere migliaia di persone del fatto che erano malate ed era meglio che si curassero. Altri colleghi hanno passato la vita a convincere incliti pubblici teatrali del fatto che le malattie mentali non esistono. Facciamo lo stesso mestiere?
La demolizione dell’arte della parola diventa ancora più radicale proseguendo la lettura del libro.
Marcello, la parola è impotente in psichiatria.
Per i dementi e i confusi la parola è solo suono,
è un’eco, di un’eco, di un’eco,
un riflesso, di un riflesso, di un riflesso,
un sogno, di un sogno, di un sogno.
Per gli schizofrenici la parola significa tutto e niente,
significa una cosa e il suo contrario.
Per i depressi la parola condanna.
Per gli euforici solo gioco.
Per i caratteriali, una minaccia.
Per i nevrotici è una lama tagliente.
La parola non è luce che scaccia i fantasmi della notte,
non è legna da conservare per il freddo in inverno,
non è cibo da tenere in dispensa,
non è ninnananna che rincuora.
La parola è paglia.
Per arrivare, quasi in conclusione ad affermare la sua netta opposizione alla psicoanalisi. Dimenticando con questo gli studi che indicano l’importanza dell’intervento farmacologico, psichiatrico, psicoanalitico, combinati nelle giuste proporzioni. Combinati insieme si rivelano strumenti adatti e incisivi nella lotta alla malattia mentale, al disagio psichico, anche nelle forme più gravi. Ma l’opposizione di Milone è totale.
Un altro salotto dove si parla di psicoanalisi. Avvocati, ingegneri, insegnanti: io non capisco quello che dicono. Quando mi invitano dire la mia, faccio la figura dello scemo. Io odio la psicoanalisi. Signori, lo dico chiaro: io non so nulla di interpretazione dei sogni. Non è il mio mestiere. I miei pazienti non parlano dei loro sogni notturni ci vivono dentro. Io non cerco interpretazioni: ho bisogno di una corda per tirarli fuori.
Rispetto a una conclusione simile ci sentiamo di affermare, che l’operazione essenziale da fare è continuare a interrogarsi quale e quali possano essere la corda o le corde necessarie, per tirare fuori il paziente dal suo incubo. Consapevoli che la verità non sta negli assoluti. Non sta nella psichiatria, non sta nella psicanalisi, non sta nella psicologia. Sta nella capacità di far dialogare discipline e saperi, restituendo ad ognuno di essi il giusto ambito di intervento, il corretto spazio concettuale.
Gianfranco Falcone
-----------------------------
-----------------------------
Se sei giunto fin qui vuol dire che l'articolo potrebbe esserti piaciuto.
Usiamo i social in maniera costruttiva.
Condividi l'articolo.
Condividi la cultura.
Grazie