
Con l’attenuazione della condizione pandemica, le problematiche del mondo carcerario si sono ripresentate, resesi più gravi dalla dura prova rappresentata dalla emergenza sanitaria. Nel corso della pandemia non sono mancate le violenze subite dai detenuti ad opera di appartenenti alle forze dell’ordine, in relazione alle quali si stanno celebrando processi. Un sistema – quello carcerario – ancora decisamente malato ed incapace di garantire una pena in linea con il dettato costituzionale. La piaga del sovraffollamento, insieme alla inadeguatezza delle strutture, alla carenza di personale di sostegno e di sicurezza, di fatto genera una pena detentiva inumana. In tal modo, la reclusione diviene un inutile e passivo stato di limitazione della libertà che non risolve, anzi aggrava, la socializzazione del reo.
Per meglio comprendere le dinamiche carcerarie è utile tornare su un libricino chiaro e snello come quello di Patrizio Gonnella, Carceri. I confini della dignità (Jaca Book 2014 pp. 140, € 12,00). Il carcere come pena – spiega Gonnella – impone una riflessione intorno alla sua funzione e alle sue modalità di esecuzione. La pena carceraria «in una società democratica ha dei limiti insuperabili, imposti dall’ordinamento giuridico e dal senso etico. Limiti che sono riconducibili alla protezione della dignità umana intesa nel suo significato kantiano di umanità e di non riducibilità dell’uomo a mezzo». L’articolo 27 della Costituzione nel prevedere al suo terzo comma che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» suggerisce di non mettere in competizione funzione rieducativa e rispetto della dignità.
Come ha stabilito la sentenza 313/1990 della Corte Costituzionale, la rieducazione è infatti una delle qualità essenziali della sanzione penale, che «l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue». Il verbo “tendere”, presente nel dettato costituzionale, rappresenta solo «la presa d’atto della divaricazione che nella prassi può verificarsi tra quella finalità e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione». Questo implica necessariamente la centralità consenso del condannato nel percorso rieducativo. La rieducazione è un’opportunità che l’Amministrazione penitenziaria dovrebbe offrire al condannato operando in sinergia con le istituzioni territoriali: purtroppo – come sostengono alcuni studiosi – è proprio qui che la distanza tra il dettato costituzionale e la realtà del sistema penale si fa smisurata. Se ci riferiamo in particolare al carcere, infatti, è indispensabile prendere atto di una situazione, già compromessa da anni di riforme mancate, che la pandemia ha soltanto reso più drammatica.
La sfida è non relegare il carcere a un’isola separata dal mondo esterno, ma mettere sempre più in relazione con la città una comunità fatta di storie, relazioni, problemi. I giuristi hanno da tempo privilegiato quale ambito principale di interesse la funzione della pena, ovvero il secondo degli obiettivi costituzionali. Intorno ad esso – ha ricordato Gonnella – si sono costruite e cancellate riforme, sono state avallate tesi opposte. C’è chi ha eretto, «non solo metaforicamente, monumenti alla redenzione, chi ha inteso eliminare i non rieducabili e chi ha ancora elaborato un modello di carcere aperto al territorio e diretto al recupero sociale dei condannati. In tutti questi casi è stata evocata e usata la medesima espressione costituzionale. La retorica rieducativa, sganciata dalla dignità umana, ha per decenni ostacolato il nascere e il consolidarsi di una riflessione concettuale, normativa e giurisprudenziale intorno al primo degli obiettivi costituzionali, ovvero la pena secondo umanità».
La rieducazione è stata allora ridimensionata a mito e l’attenzione pubblica si è inevitabilmente spostata intorno all’umanità, ovvero alla dignità umana. Al centro dell’attenzione sono stati posti la dignità umana e l’insieme dei diritti su di essa fondati. Nel dibattito corrente – ricorda Gonnella – siamo abituati a opporre la funzione rieducativa della pena alle tesi retributive classiche, secondo le quali chi sbaglia paga, seppur in modo proporzionato. La funzione rieducativa della pena, «soprattutto in epoca recente, malata di securitarismo e intrisa di ideologia della vendetta, è spesso evocata anch’essa quale baluardo estremo contro gli arbitrii punitivi. […] la tensione rieducativa funziona peggio rispetto alla dignità umana quale limite da opporre a una pena illegale e violenta. E funziona peggio perché il correzionalismo – ovvero l’idea secondo la quale attraverso la pena carceraria il detenuto vada ‘corretto’ nella sua indole deviante – non è concettualmente e logicamente in antitesi ai trattamenti contrari al senso di umanità. Lo è nella sua versione democratica, lo è nelle intenzioni di molti studiosi e operatori sociali e del diritto, non lo è dovunque e comunque».
L’uomo detenuto da rieducare diventa mezzo in funzione di un suo cambiamento, della tranquillità sociale, del perseguimento di un clima meno teso in carcere. Un detenuto non recuperabile può anche essere condannato a una pena disumana senza che questo metta teoricamente in crisi il modello correzionale. La disumanità del regime penitenziario mette in crisi invece il modello carcerario umanocentrico fondato sulla dignità.
Anche se la nostra sicurezza personale non è così a rischio più di quanto non fosse in passato viviamo in un tempo che Zygmunt Bauman definì “tormentosa sfiducia esistenziale” che ci porta ad avere un’ansia di sicurezza personale, cui bisogna necessariamente rispondere con quella che Luigi Manconi definisce rassicurazione simbolica del diritto penale. Resta ancora difficile concepire una pena senza carcere, un processo a tappe di riduzione e di minimizzazione del carcere. Ritorna ad imperare il populismo penale, secondo il quale il sistema giudiziario continua ad essere la macchina delle soluzioni facili, a basso costo e a ad alto rendimento politico. Continuiamo ad accanirci – ricorda Manconi – con la componente esclusa della società, i principali destinatari della pena detentiva. Li esibiamo come una sorta di trofeo di una giustizia implacabile, senza risolvere nessun problema di sicurezza esistenziale e personale dei cittadini.
Per Gonnella occorre «sfumare i riflettori dall’utopia rieducativa e accenderli sulla dignità umana e sui diritti da essa fondati aiuta a leggere le aporie del carcere, contribuisce a rifondare il sistema penitenziario in modo cristallino, imponendogli limiti etici non valicabili e rendendolo compatibile con le regole dello stato sociale di diritto». Una volta effettuato questo cambiamento di paradigma, allora sì che la rieducazione diventa capace di acquisire un senso sociale alto, laicizzato e deideologizzato. Con lo sguardo fisso all’orizzonte della dignità umana, ogni intervento diretto a offrire opportunità di reintegrazione sociale esce dal gioco dell’ipocrisia e diventa un intervento di promozione dei diritti della persona. Evidentemente, non è sufficiente – aggiunge Gonnella – «la sola riviviscenza normativa, dottrinale e giurisprudenziale della dignità umana per riportare il sistema nella legalità effettiva. Esiste e persiste un gap tra le proclamazioni giuridiche e la pratica punitiva. Rimane il paradosso stridente di una pena illegale inferta nel nome della legalità infranta, il quale paradosso deve indurre a trovare meccanismi di soluzione non solo sul piano giuridico ma anche su quello culturale e su quello operativo».
Antonio Salvati
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