
I Pearl Jam sono tornati con un disco che è figlio anche della speranza ritrovata dopo la sconfitta di Bush e i cambiamenti del nuovo corso di Obama. Pur nella necessità di considerare l’arte come un mezzo di <<protesta non violenta>> Vedder prova a parlare d’altro forse perché la <<vita è preziosa>> [1].
L’impegno politico-sociale del gruppo resta alto come dimostra il supporto alla Water.org impegnata a promuovere l’accesso all’acqua potabile o a Conservation International che si occupa di istruire le popolazioni alla conservazione della natura. Il titolo dell’album Backspacer, oltre a richiamare il tasto della vecchia macchina da scrivere con cui scrive ancora Vedder, è il nome di una tartaruga sponsorizzata dai PJ alla Great Turtle Race che aiuta appunto alla raccolta di fondi per la citata Conservation International [2].
In America, il disco non è stato distribuito da una major ma dalla catena di supermercati Target con la possibilità di scaricare 11 concerti (è possibile farlo anche con l’edizione Universal che distribuisce fuori dagli USA) senza che questo escluda le catene di negozi di dischi più tradizionali.
Questo disco ha visto la nascita con i Pearl Jam riuniti (tranne Vedder) nel Montana a casa del batterista Ament e ciò non accadeva dal loro primo lavoro. Anche la scelta del produttore Brendan O’Brien viene da lontano: l’ultima volta era il 1998 con Yeld.
Vedder aveva dichiarato che diverse canzoni sarebbero state brevi e veloci e che l’ispirazione di queto nono disco da studio veniva dai Guided by Voices [3].
Vediamo quanto raccontato dalla critica in Italia considerando che quella anglosassone ha espresso pareri mediamente molto lusinghieri secondo l’elaborazione numerica fatta da Metacritic.
Come recita il titolo della sua recensione, per Cozzi il disco esprime una dirompente voglia di libertà. Non presenta grandi novità e non sarà il disco dell’anno, ma il suo ricordo potrebbe comunque rimanere a lungo.
Trasuda energia fin dall’inizio e i PJ sono in grado di farci <<muovere la testa>> come in The Fixer e in Force of Nature <<dove i Jam passano dagli amati Who ad afflati brit punk di fine 70s>> [4].
La sintesi del giudizio di Vignola sembra assimilabile alla precedente con qualche distinguo. Velocità continua e energia caratterizzano questo lavoro che pur solido e tra i migliori degli ultimi quindici anni non fa volare: <<nella loro intransigenza Vedder e soci raccontano storie direttamente al cuore di chi li segue: i riferimenti sono sempre più inestricabilmente interni e le rotte sonore rimangono, necessariamente, limitate >>.
Nonostante i ritmi imposti alto è il valore delle ballate che raggiungono l’apice in The End <<toccante senza retorica>> [5].
E con Brusati partiamo proprio dalla fine. All’interno di una recensione molto positiva The End <<si inserisce di diritto nella tradizione che va da Hank Williams a Bruce Springsteen, passando per Johnny Cash e Neil Young>>.
In questo album, immediato e conciso, si sente la mano di O’Brien sia in alcuni brani più rock sia nelle ballate. Un altro influsso che ammanta i pezzi più emozionanti è quello derivante dalla colonna sonora del film di Sean Penn Into The Wild: Just Breathe promana direttamente da un brano strumentale, mentre su Unthought Known, Speed Of Sound e The End i Pearl Jam sembra <<abbiano voluto soffiare la vita in brani immobili come il paesaggio innevato>> dell’Alaska.
Non mancano le annotazioni su altri brani come i due iniziali che danno il tono all’intero album o all’inatteso pop di The Fixer o al punk newyorchese anni Settanta di Supersonic [6].
Coacci salva poco di Backspacer: Just Breathe e la <<sofferta>> The End entrambe ispirate a Into The Wild. I motivi di questa recensione deludente risiedono in sonorità tutto sommato ferme nel tempo, un insieme di <<rock classico con qualche escrudescenza punk, qualche anabolizzazione hard, la solita innata predisposizione al pathos e alla melodia, qualche episodio cantautorale>> [7].
Per Solventi le ragioni della mediocrità di questo disco potrebbero essere assimilate a quelle della precedente. Ricorrono espressioni come << già sentito>>, <<stampo abbastanza tradizionale>>, <<prevedibilità>>, e via leggendo. Un disco che vorrebbe riprende il passato e rispetto agli ultimi più sciolto ed essenziale anche pulsante vitalità ma non senza spunti eccellenti e non a caso alla fine le solite Just Breathe e The End sono i pezzi migliori [8].
Anche per Orlando il lavoro si presenta <<snello>> e <<conciso>>, ma di fatto non manca nulla dall’energia dei primi brani in scaletta alle ballate che riportano alla sorgente: Into The Wild. Con lo stile di sempre ridanno linfa alla loro musica, si tratta di <<evoluzione circolare>>. Il lavoro ha come tema portante il riflettere su di sé e sulla storia degli ultimi anni condito da ottimismo e rivalutazione del vivere quotidiano come in Just breathe: “Sono un uomo fortunato a poter contare su entrambe le mani le persone che amo”. Da non dimenticare la voce di Vedder [9].
Di Carlo e Sibilla esprimono un giudizio positivo. Diversi elementi distintivi nella continuità della loro musica. Si ascolta una maggiore varietà insieme ad altrettanta compattezza e leggerezza. Anche nei testi la rabbia la denuncia sono state in parte sostituite da riferimenti alle relazioni personali, al <<grunge di tutti i giorni>> come la dipendenza dalla droga in Got Some.
Non è il solito rock. Si trovano <<aperture pop (The Fixer), accelerazioni irregolari (Got some), un tono epico alla U2 (Force Of Nature). Pur senza tradire le proprie origini, i Pearl Jam, a questo giro hanno pescato dal power pop, dalla new wave, insomma i suoni delle band che i membri della band hanno probabilmente ascoltato da ragazzini…>>. Bisogna aspettare comunque un po’ prima di capire se queste canzoni, con l’eccezione di The Fixer, Just Breathe e Amongst The Waves, resisteranno all’insidia del tempo [10].
Bertoncelli delinea i contorni di un ottimo disco dove nonostante l’ingombrante presenza di O’Brien le sonorità non sono omologate allo stile del produttore. Il gruppo sfugge <<alle facili sottolineature, alle delimitazioni, ai luoghi comuni, con una energia nervosa che scuote, avvince e sa proiettarsi nel passato rock anche prima, molto prima, del grunge, fino ai giorni di certa acidula new wave>>. Comunque nonostante l’esaltazione del dinamismo i gioielli sono Just Breathe e The End dove pochi suoni oltre il predominante connubio chitarra e voce risaltano un emoziannte Vedder [11]. Non vi curate di noi e ascoltate.
Ciro Ardiglione
genere: rock
Pearl Jam
Backspacer
etichetta: Universal
data di pubblicazione: 18 09 2009
brani: 11
durata: 36:33
cd: singolo
[1] E’ quanto dichiara Eddie Vedder in “Vedder c’era una volta Seattle”, di Giuseppe Videtti,La Repubblica,30 agosto 2009, pagg.42-43
[2] Roberto Croci, “Pearl Jam”, xL, settembre 2009, pp.68-69
[3] Brian Hiatt, “Tutto come allora”, Rolling Stone, marzo 2009, pag. 29
[5] John Vignola, Il Mucchio Selvaggio, settembre 2009, pag.76
[4] Emilio Cozzi, “Un’atroce voglia di libertà”, Rolling Stone, settembre 2009, pag. 165
[6] Giulio Brusati,xL, settembre 2009, pag. 233
[7] Simone Coacci, www.ondarock.it, 21 settembre 2009
[8] Stefano Solventi, www.sentireascoltare.com, 25 Settembre 2009
[9] Simona Orlando, “Backspacer, la rivincita dei Pearl Jam”, www.ilmessaggero.it, 18 settembre 2009
[10] Giampiero Di Carlo, Gianni Sibilla, www.rockol.it, 17 settembre 2009
[11] Riccardo Bertoncelli, www.delrock.it, 17 settembre 2009
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