Perché aprire i teatri. Il senso del respiro.

sharon arese mascherina
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Non è una questione dotta. È una questione di sopravvivenza.
Io viaggio in carrozzina. Per andare a teatro devo prepararmi circa tre ore prima dell’inizio dello spettacolo per riuscire ad arrivare in orario, e fare le cose con un certo agio. Calcolo i tempi di viaggio in modo da essere pronto per ogni contrattempo, e di contrattempi ne accadono ogni volta. Ma ne vale la pena. Perché quando entro teatro è un po’ come sentirsi a casa, ritrovare degli amici, sentirsi accolti.

Quando il buio della sala mi avvolge sento di respirare meglio. Potrei cercare di spiegarlo meglio, usando termini filosofici, facendo ricorso alla psicanalisi, ma in fin dei conti tutti noi sappiamo quanto sia importante il respiro. Sappiamo quanto certe circostanze aiutino a respirare e quanto altre circostanze ci neghino questo respiro, che sempre è un soffio vitale.

Teatro Bellini Napoli
Teatro Bellini, Napoli

Inizia lo spettacolo. Non importa di quale genere sia, ma sempre lì davanti a me si presentano altri esseri umani in carne ossa, che si offrono sulla scena agli sguardi impietosi del pubblico. Si offrono per rappresentare come animali sacrificali, per offrire all’umano ciò che all’umano appartiene, con i suoi mostri e la sua bellezza, con i suoi estremi e con i suoi labirinti oscuri.

Una delle prime cose che ho capito andando a teatro è stata la fatica degli artisti. Che siano ballerini, che siano musicisti, che siano attori, li vedi sudare. Vedi che c’è uno sforzo fisico nelle loro interpretazioni.
Avete mai notato i ballerini quando in certi slanci, in certi passaggi lancino attorno stille di sudore? Quanto certi attori lasciano pozze di sudore nei punti che prima calcavano sul palcoscenico?
Avete notato quanto il corpo parli di sé sulle tavole del palcoscenico?
Quando torno a vedere uno spettacolo a distanza di un giorno dall’altro, perché c’è stato uno spettacolo che mi ha particolarmente impressionato, mi accorgo ancora di più della macchina scenica. Mi accorgo di quanto ogni replica sia diversa dalla precedente, di quanto il lavoro degli artisti sia un lavoro senza rete, in cui sera dopo sera devi mostrare il meglio di te e devi inventarti una sempre nuova motivazione.

Andare a teatro per me essenziale. È la mia socializzazione. Andando a teatro mi trovo uomo tra gli altri uomini, cittadino tra altri cittadini, nella possibilità di costruire una coscienza collettiva.
Senza questo spiraglio, senza questa coscienza collettiva, senza questi luoghi di cura che sono i teatri, un po’ si muore.

Il teatro non è lo streaming. Lo streaming è un po’ come il caffè di cicoria durante la guerra. Non è caffè. Lo streaming è come dice Massimo Popolizio, Guardare un documentario sulla natura pensando che quella sia la natura. No. Non è natura. È televisione.
Quando guardo la televisione capita che a volte Coco, la cagnetta di mia madre, si arrampichi sulle mie gambe perché vuole essere coccolata, a volte il telefono squilla, in altri mi gingillo nel leggere i messaggini sul cellulare. Ma questo non concentrarsi, non è quel muto dialogo con se stessi che porta a cogliere strati profondi della coscienza, ad essere a tu per tu con se stessi.
Questo non è amare il teatro.

Il teatro vive di riti, di carne, sangue. Vive degli odori che si respirano nel foyer, nella sala. Il teatro vive della possibilità di incontrare gli attori appena finito dello spettacolo, scambiare con loro qualche battuta. Vive anche della rabbia che mi prende per coloro che a spettacolo iniziato tirano fuori i cellulari e lasciano lampeggiare le lucette blu degli schermi, per cercare messaggi, o tutto ciò che il diavolo li porti e che esplode come un faro nella sala buia.
Dovrebbero applicare un Daspo agli spettatori che si permettono, tali gesti così come avviene per i tifosi intemperanti.

Io abito vicino allo stadio San Siro, a Milano. Durante il derby Milan-Inter sentivo le folle di tifosi vocianti e festanti, che si avviavano verso lo stadio. Le cronache ci hanno poi mostrato folle senza mascherine, petardi, assembramenti, lacrimogeni. Allora perché tenere chiusi i teatri? Perché quello spettacolo mortificante delle sale vuote che assomigliano a occhiaie vuote prive di vita?
Perché chiudere luoghi che effettuano controlli severi all’ingresso? Perché chiudere luoghi che nei tempi più bui della pandemia su centinaia di migliaia di spettatori non hanno registrato contagi?

Me lo sono chiesto anche quando sono stato ad Arese, dove c’è il centro commerciale più grande d’Europa. Lì ho visto folle allo stato brado, senza nessun controllo, che si accalcavano, e io ero in mezzo a loro uguale a loro.
Ma è mai possibile che gli stadi, che i tifosi si, che i centri commerciali sì, nella logica di mantenere in piedi le abitudini e meccanismi di una società che ci ha fatti ammalare, mentre i teatri devono stare chiusi? Certo poi anche i centri commerciali possono offrire degli occhi dolci e miti come quelli di Sharon, che si è prestata con delicatezza e simpatia agli scatti fotografici. Anche questo è Teatro. Ma vi prego, ridatemi il teatro vero.

Gianfranco Falcone

 

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