
Negli ultimi mesi sto girando parecchio. Non cerco storie da raccontare. Sembra piuttosto che le storie cerchino me. È proprio quello che è capitato con Francesco Lorusso. Me l'ha presentato Annalisa, sensuale ballerina della banda danzante della Glamourga.
Recentemente quando mi propongono nuove storie ho un attimo di riluttanza. Dettata dal fatto che so bene che il lavoro che ho lasciato indietro per mancanza di tempo è tanto. Poi però ho chiacchierato con Francesco. Ho guardato il suo libro fotografico: Le terre di mezzo. Giambellino 20147 Milano. A quel punto ero già dentro la storia.

Chi è Francesco Lorusso?
Domandona. Francesco Lorusso è tante persone, tante storie.
Sono nato nel periodo delle grandi lotte politiche. Ho lavorato per tantissimi anni in fabbrica. Credevo e continuo a credere in una serie di valori, tra cui la fratellanza, che condividere è meglio che avere. Poi ma mano che sono cresciuto ho visto il mondo deteriorarsi, ho visto un riflusso dell'umano, un abbruttimento. Questo mi ha allontanato in parte dalle persone, non dagli amici stretti, e mi ha fatto diventare più distaccato, più freddo.
Un riflesso di questo processo lo si può vedere nella mia fotografia. È da circa vent'anni che ho ripreso e ho passato i primi sette, otto anni, a fotografare architettura. Era una fotografia statica, alla ricerca di equilibri. Solo successivamente ho iniziato a cercare il contatto umano, a inserire gli esseri umani nei miei scatti. È accaduto perché sono maturato, devo aver pensato che non potevo fare di tutto questo mondo un fascio d'erba.
Sicuramente ho utilizzato la fotografia anche come qualcosa di curativo, come autoanalisi. Ma questo secondo me succede in tutte le forme di arte. Poi non so se la fotografia sia un'arte. Ma il principio è lo stesso: Usare la fotografia per vedere come si sta ed eventualmente modificare, cercare di cambiare.
Come mai arrivi all'architettura?
Era un periodo abbastanza complicato della mia vita. Aveva una serie di problemi esistenziali. Era un periodo difficile, era morto mio padre, mio figlio piccolo aveva qualche problemino. Io stesso avevo un sacco di cose irrisolte. La mia vita sembrava dover implodere da un momento all'altro. Credo che l'architettura sia servita proprio per la ricerca dell'ordine, della rigorosità, per rimettere in piedi la mia vita. Avevo bisogno di nuove fondamenta e questo nella mia fotografia emerge in modo prepotente. La ricerca sull'architettura, sulle forme, la ricerca dell'equilibrio, dell'eleganza, della stessa inquadratura, mi permisero di esternare tutto un periodo complicato della mia vita. Così ho girato un sacco di posti al mondo. Quello sull'architettura è un lavoro di ricerca grosso.
Perché hai girato così tanti posti e in quali posti sei stato?
Da solo o con mia moglie io ho sempre viaggiato. Gli ultimi quindici, vent'anni di lavoro ho viaggiato molto per l'Europa e anche per un pezzo di mondo.
Che lavoro facevi?
Sono stato un tecnico delle telecomunicazioni per tanti anni. Negli ultimi quindici, vent'anni ho fatto assistenza tecnica per sistemi di telecomunicazioni per grandi aziende. Alle più famose che trovi in giro per l'Italia e per il mondo facevo assistenza in loco, riparazioni, collaudi, consulenza tecnica per la parte di fonia e poi da ultimo pezzo nel voip. Sempre per lavoro ho fatto il pendolare, ho lavorato prima un anno a Bruxelles e poi un anno a Parigi.
In quali altri paesi sei stato?
Sono stato diverse volte in India. Per quanto faccia fatica a capire quel mondo devo dire che lo trovo affascinante. Sono stato in Nepal, in Sri Lanka, un paio di volte in Thailandia. Ho lavorato a Dubai, sono stato in Oman, negli Emirati Arabi. Devo dire che a mia moglie piace il Medio Oriente. Però è una polveriera. Non so se si possa considerare Medio Oriente anche Israele. Però Israele è un paese che ho amato dal punto di vista culturale. È un paese affascinante. Trovo Tel Aviv una città incantevole. Anche se non puoi non pensare a ciò che c'è dietro.
Che cosa c'è dietro?
C'è la Palestina, l'occupazione. Sembra di vivere in due mondi completamente diversi. La sensazione è che quando gli israeliani vedono passare un aereo pensano subito che sta andando da qualche parte a bombardare. In Israele ti accorgi che ci sono dinamiche di vita completamente diverse da quelle a cui siamo abituati noi.
Tu ti chiami Francesco Lorusso però ho visto che sul web sei conosciuto come Francesco Fraliga. Come mai?
Io sono entrato su Facebook perché un amico aveva intenzione di creare gruppo fotografico, che ormai è attivo da nove anni. Per colmo delle combinazioni tra i fondatori c'era un Francesco Lorusso. Essendo entrato dopo ho preso le iniziali della mia famiglia, Francesco, mia moglie Lina, mio figlio Gabriele, e ho composto il cognome Fraliga, che tra l'altro suona bene. C'è un sacco di gente del web che mi chiama Fraliga, che mi conosce soltanto con quel nome. Tant'è vero che quando ho pubblicato sulla mia pagina Facebook che usciva il mio libro, chiaramente intestato a Francesco Lorusso, alcuni mi hanno chiesto ma chi è? È un tuo amico?
Che libro è?
È un libro di fotografia. Si intitola Le terre di mezzo. Giambellino 20147 Milano. È un libro amatoriale. È un mio progetto sul Giambellino. L'ho editato con Fabrizio Pizzolorusso, un amico carissimo che mi ha aiutato e senza il quale non avrei potuto addentrarmi in questo lavoro. L'ho impaginato studiando il programma di Adobe. Fabrizio ama fare i lavori in condivisione ed è una di quelle rare persone che non ha invidia dell'altro. Credo che in questo siamo molto simili. Abbiamo discusso molto su quello che succede anche dal punto di vista morale quando fai un tipo di lavoro fotografico su un quartiere periferico e sui suoi abitanti. Che cosa succede? Come cambi? Che cosa vorresti fare? Che cosa non riesci a fare? Diciamo che anche qua c'è una componente importante che è quella del mettersi in discussione, del cercare di modificare l'esistente. Per fare questo lavoro ti devi modificare. È stato una delle colonne di questo lavoro. Le fotografie le ho fatte io però Fabrizio è stato un grandissimo braccio destro in tutto il percorso.
In una precedente conversazione mi dicesti che Annalisa ha avuto un ruolo importante nella realizzazione del libro. Che cosa è successo?
Premetto, io ho un grandissimo problema. Non sono un grande venditore di me stesso. Ultimamente però mi sono esposto perché non vorrei che il libro su Giambellino rimanesse nel mio cassetto. La fotografia riflette per forza di cose la persona e quando presenti un lavoro come Le terre di mezzo c'è una grossissima esposizione del fotografo. Quando feci vedere il progetto in Pdf ad Annalisa lei mi disse di inviarglielo, che aveva degli amici stampatori. Dopo le prime due copie ne abbiamo stampate altre due. Adesso ho fatto le ultime correzioni e penso di far stamparne un centinaio.
Che cos'è il Giambellino e perché il Giambellino?
L'idea di questo progetto nasce circa cinque anni fa. Io nel 2017 finisco di lavorare e inizio a pensare a che cosa so fare, al mio tempo libero. So fare un po' di restauro mobili, una delle mie passioni più grandi è la fotografia, faccio un po' di sport, viaggio. Però il tempo che restava era tantissimo. Non volevo trasformarmi in un pensionato che guarda i cantieri, che va al bar, o che sta davanti alla televisione dieci ore al giorno. Decido così di mettere in cantiere questo lavoro sul Giambellino. Io sono nato nel quartiere di San Siro. Per intenderci via Ricciarelli angolo viale Aretusa, nella zona non dico più elegante perché così non è, ma di case “normali”, di fronte alle case popolari. Negli anni Settanta, gli anni della mia infanzia, i genitori lavoravano e i figli crescevano in strada. Io sono cresciuto in quei cortili, con quegli amici, con quei conoscenti, con i figli dei meridionali che arrivavano e avevano dieci, dodici figli. In quel periodo tantissime famiglie che venivano dal Sud per il boom economico, trovavano casa nelle case popolari della zona di San Siro oppure al Giambellino. Noi bambini stavamo nei cortili, dentro un cortile fuori in un altro. Avevo l'idea romantica, durata nel tempo, che fosse bellissimo vivere là. Questo mi ha spinto a fare un lavoro sulla periferia. Ho scelto il Giambellino e non San Siro per una questione di vicinanza. Mi ero trasferito e volevo lavorare a chilometro zero, a ottocento metri da casa mia. Un altro motivo che mi ha spinto a realizzare Terre di mezzo deriva dal fatto che, tutte le volte che ero in giro, vedevo bellissimi reportage che però raccontavano soltanto realtà straniere. Io ho cercato di fare un lavoro integralmente italiano, raccontando un pezzo di periferia di Milano. Credo di aver fatto un lavoro onesto.

Che cosa volevi raccontare di questa periferia
Io sono partito con un'idea abbastanza precisa, quella di raccontare questo quartiere dall'interno. Dall'interno vuol dire cercare venti, trenta persone, con le loro storie, entrare nelle loro case e scattare venti fotogrammi. Questo è stata l'idea iniziale. Tieni conto che questo lavoro parte nel 2017 ma fino a ottobre, novembre del 2018 ho fatto poco. Perché quello che mi tornava indietro era un grosso stereotipo: la periferia brutta, sporca, cattiva, frequentata solo da brutti ceffi, delinquenti, e cose del genere. Dopodiché è stato abbastanza illuminante l'incontro con Don Renzo della parrocchia del Curato d'Arse. Una comune amica, Rita Barbieri che si occupava delle politiche sociali del Municipio 6, che sapeva della mia difficoltà e della mia voglia di fare questo lavoro mi dice: Perché non parli con don Renzo? Anche lui vorrebbe fare un progetto fotografico sul Giambellino.
Parlo con Don Renzo e praticamente lui diventa la persona che mi inserisce nella vita del quartiere. Stiamo parlando del 2018-2019. Non ho mai avuto un grandissimo rapporto con la Chiesa in quanto tale, non ne sono un grandissimo amante e sono diffidente. Invece incontro questa persona che ha più o meno la mia età, bonaria, molto presente sul territorio. Si sviluppa un'amicizia. Tanto è vero che per circa due anni, fino ad appena poco prima della pandemia, sono passato da lui un giorno a settimana, e lui mi raccontava che cosa succedeva e che cosa non succedeva in quartiere. Tramite Don Renzo conosco un paio di persone, e inizio a entrare in contatto con gli abitanti. Il primo avvenimento grosso a cui vado incontro è la pulizia del condominio di via Lorenteggio 181.

Condominio che era stato liberato dall'Azienda Lombarda Edilizia Residenziale Milano (Aler), ed era pronto per essere abbattuto. Poi i tempi sono andati per le lunghe ed è stato occupato. Dentro era una discarica a cielo aperto. Una serie di associazioni si ritrovano e cercano di pulire. Cento, centocinquanta ragazzi un sabato mattina si presentano e puliscono il condominio. Una cosa che non mi è mai capitato di vedere. Il lavoro sul Giambellino inizia temporalmente lì, anche se tutto il lavoro mentale, il pensiero di che cosa fare e di che cosa non fare era iniziato un anno prima. Don Renzo è poi responsabile anche di un altro pezzo del progetto. Infatti lui mi propose un ulteriore sviluppo. Perché non fai anche gli esterni del Giambellino? Questo quartiere tra cinque, sette anni, non sarà più quello che tu vedi.
Quindi io finisco per lavorare praticamente a due progetti che sono strutturalmente diversi. Uno proiettato sull'interno, l'altro sull'esterno. Il grosso nodo di questo lavoro, oltre al grande lavorio mentale, è stato quello di riuscire a fondere insieme le due parti. Perché nascono in maniera completamente diversa. Uno nasce dall'idea di essere in queste case, mostrare che le persone che ci vivono hanno una dignità pari, se non superiore, a quelli che vivono da altre parti. Le persone che ho incontrato hanno una dignità elevata, sia che siano ricche sia che sia che siano povere. Questa era la mia idea principale: restituire a un quartiere ghetto un'immagine che fosse vicina alla realtà, non l'immaginario che vediamo sui giornali.
Quando si parla di questi quartieri periferici? Quando succede qualcosa. Mesi fa un uomo ha ucciso il padre davanti alla farmacia del Giambellino allora si parla del Giambellino. Ma non si parla della difficoltà delle persone, delle etnie diverse, del perdersi vivendo in periferia. Per farti un esempio: mia madre che è morta tre anni fa e ancora viveva a San siro, era persa nel suo quartiere. A un certo punto ha perso i riferimenti, tutti i negozi erano diventati arabi. Dopodiché mi diceva che il quartiere era molto più pericoloso adesso rispetto agli anni Settanta. Ma non era assolutamente vero. Io vivo a San Siro e posso dirti che non ho mai avuto problemi, neanche negli ultimi anni a girare per il quartiere.
Quindi questi due progetti poi hanno trovato una convergenza?
Diciamo che sono andati in parallelo. La mia idea era di fare un libro, verificare se questo lavoro poteva andare al Festival della fotografia di Lodi. Dopodiché l'assemblaggio è stato un problema. Fino a due mesi fa non sapevo se sarei riuscito a far stare insieme la mia idea e la proposta di Don Renzo.
Ho scoperto che le due cose potevano convivere perché a unire i vari elementi del progetto c'era la mia esperienza diretta da fotografo. C'era il fotografo accolto in maniera benevola nelle case e il fotografo circospetto quando scatta in giro. Questo si avvicina molto allo stato d'animo delle persone. Quando le persone escono da casa sono circospette, a casa loro ti accolgono, ti parlano, ti raccontano, sono felici di averti, anzi ti invitano a tornare.

Che cosa succede nel momento in cui alzi la macchina fotografica, oppure fai un cenno con gli occhi invitando allo scatto fotografico? In quel momento che rapporto si crea? C'è una frattura col soggetto?
Nel lavoro che faccio, diciamo nel 90% dei casi, non c'è fotografia rubata. La prima persona che incontro e da cui riesco ad andare a casa è Dario. L'ho incontrato alla grande pulizia del condominio di via Lorenteggio 181. Gli dico che sono un fotografo dilettante, che voglio fare questo lavoro, che cerco gente che mi ospiti. Lui mi dice: Vieni pure a casa.
Entro a casa sua con una grandissima emozione e faccio questo racconto fotografico. La difficoltà, la complessità, è quella di passare dalla situazione amicale in cui te la stai chiacchierando all'essere fotografo. Quello per me è stato un problema. Perché quando tu devi mettere una macchina fotografica in mezzo tra te e l'altro, la macchina diventa una sorta di ostacolo emozionale. La cosa cambia, le persone si mettono in posa. Diventa una cosa che io non so gestire. In queste conversazioni ho sempre cercato di ritagliare uno spazio in cui i miei interlocutori si sentano e siano all'interno di un rapporto.
Per quello che riguarda l'esterno ho cercato di essere molto discreto. Ci sono alcuni luoghi in cui girare con la macchina fotografica è problematico, dove ci sono i Rom, dove c'è gente che fa la vedetta. Io lì la macchina l'ho tirata fuori molto poco. Oppure ho fotografato durante il giorno. Mi piacevano questi spazi deserti, silenziosi, dove magari trovi solo anziani. Altre volte tante persone mi fermavano e mi chiedevano di fotografarle. Mentre in altre situazioni se non sono consenzienti non li ho fotografati. Diciamo che ho tentato di mantenere un comportamento rispettoso.

Chi è Dario? È il marito di quella donna nigeriana dall'espressione molto profonda?
Dario l'ho fotografato nel 2019. Era un personaggio noto in tutto il quartiere, una sorta di sognatore. Disegnava, voleva trasformare l'ultimo cinema a luci rosse che chiusero in piazza Tirana, voleva farne un centro culturale, uno spazio polifunzionale, dove far musica. Voleva farlo diventare un luogo dove le persone che avevano perso il lavoro, o i migranti arrivati a Milano, potessero riqualificarsi e potessero mettersi in gioco. Poi io e Dario ci siamo persi di vista. I due anni di Covid sono stati fetenti nella gestione dei rapporti. Per mesi non incontravi nessuno per il Giambellino. Quando incontravi le persone ti dicevano non se ne parla neanche di entrare nelle nostre case, c'era questa diffidenza comprensibilissima. Dario a distanza di un paio di anni da quando l'ho fotografato è morto. Degli amici gli hanno praticamente messo le gigantografie delle sue foto sui pannelli pubblicitari del cinema a luci rosse. Gli fecero anche un articolo. Sicuramente era una persona di grande cultura e inventiva, un visionario. Il suo progetto di riqualificazione non andò in porto. Passo spesso davanti a quel cinema. È chiuso.
Nel nostro primo incontro mi hai raccontato di un'amica che conosce l'anima nera del quartiere e di Nicolino due pistole.
Questo è un pezzo del lavoro che vorrei affrontare prossimamente. Federica ha circa trentacinque anni e ha contatti con i marocchini e con i rom. Dice sempre che sta molto meglio con i rom. Essendo madre single i marocchini cercano sempre di infilarsi nelle sue lenzuola. Lei aveva una vita molto particolare, complicata, con degli equilibri molto diversi da quelli che viviamo abitualmente. Le ho chiesto di raccontarmi delle storie del quartiere, ci siamo incontrati alcune volte. Non sono ancora riuscito a fotografarla. Però ho portato a casa tutta una serie di informazioni, tra cui il contatto con questo signore che si chiama Nicolino due pistole. Federica mi ha presentato come uno scrittore fotografo, perché questo mi dava uno status maggiore, o comunque mi dà uno status. Quindi, rincontro Nicolino tra pistole che mi dice: Ma tu scrivi? Potrei raccontarti un sacco di storie. Però non so se possiamo pubblicarle perché sono storie molto personali. Quindi, il soprannome di questo personaggio molto scenografico, con il panciotto di pelle, dall'accento siciliano, è Nicolino due pistole. Non so che cosa voglia dire questo soprannome e non ho indagato. Il nome è tutto un programma.
È corretta la definizione di fotografia sociale per la tua fotografia?
Mi piacerebbe che le persone pensassero alla fotografia sociale guardando i miei scatti. Credo che quando ti sporchi le mani debba esserci per forza una componente sociale. Quando entri in contatto, in empatia con le persone, quando senti i loro racconti, è molto difficile andar via come quando sei arrivato. Ascolti anche racconti drammatici. Ad esempio conosci chi a causa di improvvise amnesie si ritrova in un'altra città, senza sapere come ci è arrivato. Per questo a poco a poco sono emarginati dal lavoro, si ritrovano a fare fotocopie in uno sgabuzzino, mentre magari prima era dirigenti di alto livello.
Quali sono i problemi che hai incontrato con il mercato della fotografia?
Il mercato dell'arte così come il mercato della fotografia è veicolato da tutta una serie di conoscenze. Bisogna sapersi vendere e io non sono mai stato bravo, neanche lavorativamente, a farlo. Il saper vendere quello che si fa è qualcosa che uno ha dentro o non ce l'ha. Io ho iniziato a fare qualcosina. Fino a cinque mesi fa l'idea di fare un libro era una chimera. Ero convinto che il lavoro non fosse finito, non fosse sufficientemente esaustivo, a volte ero convinto che mancasse non di eleganza, ma che però non potesse stare al tavolo dei grandi, intesi come quelli che la fotografia la fanno per mestiere. Poi una mattina mi sono alzato e mi sono detto “Ok è arrivato il momento”. Probabilmente ho metabolizzato, accettato, che ci potessero anche essere delle debolezze in questo libro. Però nel complesso il lavoro mi sembrava interessante.
Fotograficamente parlando chi sono i tuoi maestri?
Nel periodo in cui ho fatto architettura ho amato molto lo stile di Gabriele Basilico, questo modo sobrio di raccontare le fabbriche, Milano, alcuni quartieri, questo modo di raccontare in cui non ci sono lustrini, ma un ordine, quando ritagli un fotogramma, lo componi, quando decidi che cosa vuoi mettere dentro, che cosa vuoi togliere. Perché poi è questo quello che facciamo. Un'amica del Giambellino dice: Io non mi arrabbio quando vedo le tue foto. Se guardo qualcosa fuori sono incazzata nera. Paradossalmente lei vede le mie immagini e trova una poesia, vede l'immagine reale ed è incazzata. C'è sicuramente qualcosa di diverso nel trasportare una situazione reale in fotografia.
Ho amato molti di quelli che facevano la street photography. Quindi Martin Parr, piuttosto che Eliott Erwitt e Alex Webb solo per citarne alcuni, Josef Kudelka, anche Sebastião Salgado sul finire anche se non lo amo completamente. Però fa una fotografia grandiosa.

Secondo te che cosa è necessario per fare della buona fotografia? Una buona attrezzatura? Una buona conoscenza tecnica?
Non credo. Secondo me per fare una buona fotografia credo sia importante che ci sia una buona persona. Nel gruppo fotografico che avevo abbiamo sempre detto che la fotografia è importante perché ci permette di conoscere. Però prima della fotografia c'è l'uomo. Con questo non voglio dire che le brutte persone non sappiano fare fotografie. Diciamo che l'animo della persona che fotografa è fondamentale. Io sono molto contento quando mi dicono che la mia fotografia esprime dignità e una buona sensibilità. In questo mi riconosco. È uno dei complimenti più grandi che possano farmi. Credo dopo tanto lavoro di essere riuscito a mostrare una grande parte di me stesso. Dopodiché è chiaro se tu hai un telefonino o una macchina fotografica da 10mila euro qualcosa cambia. Però secondo me è l'uomo che fa la differenza.
Che macchina fotografica usi?
Il lavoro sul Giambellino è stato fatto praticamente con una Leica Q full frame con obiettivo fisso da 28 mm. Alcune immagini le ho fatte con una Fuji x pro 2 con un obiettivo 17/55. Però fondamentalmente ogni scatto fatto alle persone non è più lontano di due o tre metri. Questo era proprio quello che desideravo, il contatto diretto con chi fotografi.
Quali progetti hai per il prossimo futuro?
Attualmente sono abbastanza stanco. Questo lavoro mi ha prosciugato mentalmente. L'idea è comunque quella di fare quello che non sono riuscito a fare, cioè descrivere l'anima del quartiere, però sicuramente con un'idea diversa. Se prima pensavo di raccontare le case adesso mi piacerebbe raccontare le persone che nel bene, e a volte nel male, hanno personalità di un certo rilievo. Mi piacerebbe raccontare la storia della suora laica della chiesa del Giambellino. Mi chiedo che cosa significhi laica per una suora. Mi chiedo perché abbia scelto di fare quello piuttosto che lavorare in un'associazione. Mi piace pensare al macellaio del supermercato del Giambellino che è un'istituzione. Fa lavorare persone che hanno bisogno. Dà il cibo alle persone che hanno problemi e fa tutto sotto traccia, senza pubblicità. Mi piacerebbe trovare un contatto per entrare in relazione con i rom. C'è Giulia che ha aperto una scuola di cucina. Lei è un'antropologa del cibo, ha dato lavoro a quaranta cuochi quasi tutti stranieri. C'è un gran fermento culturale nel quartiere. Ed è una cosa di cui assolutamente c'è bisogno. Mi piacerebbe ritrovare Antonio che è un ex componente della banda Vallanzasca. L'ho perso di vista nel post-Covid.
Dopodiché ci sono una decina di persone che stanno in una piazza e dormono lì. E questo è un po' più complicato. Con loro sono in confidenza, mi raccontano, facciamo e brighiamo. Però non mi sento prontissimo a passare dal rapporto intimo alla fotografia. In ultimźo mi piacerebbe riuscire a beccare bene Federica, farmi raccontare da lei l'anima nera, oscura, del Giambellino. Questo è quello che mi piacerebbe.
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