
I fans dei Pink Floyd si dividono fondamentalmente in tre categorie: 1) gli psichedelici, quelli per cui i Pink Floyd hanno inciso svariati singoli ed un ellepì e mezzo, sotto la guida di Syd Barrett.
2) i progressisti, quelli per cui Syd Barrett era troppo fuori di testa (cito le parole di un grande amico «l'uomo è andato sulla Luna nel 1969, Syd ci era già stato nel 1967 e non è più tornato») e nelle mani ben salde di Roger Waters e David Gilmour hanno sfornato capolavori senza tempo che conosce anche mia nonna
3) gli entusiasti, a cui, pur con alti e bassi, va bene tutto.
Io sono tra questi. Se vi dicessi quante volte ho visto e rivisto Pink Floyd at Pompei non mi credereste. L'ultima volta che i quattro sono comparsi insieme dal vivo, nel 2005 a Londra, al Live8 – Feed the World, per venti minuti di musica celestiale, avevo le lacrime agli occhi.
Così, quando l'estate scorsa la moglie di Gilmour ha lanciato un tweet che annunciava per l'autunno l'uscita di un nuovo disco del gruppo ho avuto un tuffo al cuore. Cosa aspettarsi? Richard Wright era venuto a mancare nel 2008 e la speranza di rivederli nella formazione storica era sempre stata resa vana nel corso degli anni dal conflitto di personalità fra Waters e Gilmour, dai litigi e le carte bollate che avevano posto fine a quella mitica saga. Del resto il processo creativo della band era già noto da tempo immemore attraverso i concerti, i bootlegs, i filmati, i making off dei vari dischi. Man mano che i giorni scorrevano e l'attesa si faceva spasmodica, piano piano si delineavano i contorni dell'opera: non materiale nuovo, ma incisioni di musica d'ambiente risalenti al 1994, l'epoca in cui fu inciso l'ultimo disco a nome Pink Floyd, The Division Bell, e destinate ad un progetto chiamato “The Big Spleef” poi accantonato, ripreso e ampliato dopo la scomparsa del tastierista, sincero omaggio all'amico perso di tante avventure.
Quasi totalmente strumentale, tranne l'ultimo brano, Louder than Words, con una copertina, dai più cattivi criticata per l'analogia con le illustrazioni dei giornaletti dei Testimoni di Geova (come manca il genio visionario del grande Storm Thorgerson), The Endless River è un disco che non aggiunge ma nemmeno toglie nulla alla storia del gruppo inglese. I brani più corti sono acquerelli delicati di grande atmosfera, quelli più strutturati rimandano spesso a pezzi già conosciuti (si sentono echi di Shine on you crazy diamond, di Astronomy domine, di Run like hell, di Us and them), ma è sempre un grande piacere ascoltare la chitarra cristallina di Gilmour, le liquide tastiere di Wright, un sound talmente personale da essere imprinting indelebile anche dopo quasi cinquantanni.
E i Pink Floyd sono sempre stati sinonimo di futuro, pensate a quante immagini dello spazio sono accompagnate dai suoni di Dark Side of the Moon o di Wish you were here, quindi non ci si stupisce di ritrovare la voce campionata del grande scienziato-filosofo Stephen Hawking nel brano Talkin' hawkin', così come le manipolazioni di Youth dei Killing Joke e la coproduzione di Phil Manzanera dei Roxy Music. Roger Waters, ormai totalmente immerso nelle celebrazioni del suo capolavoro The Wall e nel viaggio a ritroso nel tempo alla ricerca delle tracce del padre scomparso durante lo sbarco di Anzio nel 1944 e mai conosciuto, ha sdegnosamente preso le distanze dal lavoro dei due ex compagni, eppure quell'abbraccio ad Hyde Park di nove anni fa e qualche comparsata in reciproci concerti solisti faceva sperare in una riappacificazione che in tanti aspettano. Il 2015, invece, ci riserva un nuovo disco di David Gilmour, registrato sempre all'Astoria, il mitico barcone ancorato sulle rive del Tamigi adibito ad avanzatissimo studio di registrazione e relativa tournee (con Nick Mason alla batteria) che toccherà anche l'Italia. Così, noi entusiasti, rileggendo le parole di Louder than Words: «Ci lamentiamo e litighiamo, ci insultiamo appena ci vediamo, ma queste cose che facciamo … è più forte delle parole, questa cosa che facciamo», non perdiamo la speranza di risentirli, un giorno, ancora insieme.
Mario Barricella
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