
Difficile scappare dagli appuntamenti della tavola, specie nel periodo natalizio.
Quello che vi narro, però, racconta di un evento sempre piuttosto “originale”, anche se ha compiuto proprio quest'anno quarant'anni dal suo primitivo esordio, nel 1982.
Fu il 25 dicembre di quell'anno che un gruppo di una cinquantina di commensali prese posto – per il pranzo di Natale – in una tavolata apparecchiata sul fondo della basilica di Santa Maria in Trastevere [1]. C'era ancora il muro a Berlino e Ronald Reagan era da due anni il nuovo presidente degli Stati Uniti, mentre Karol Wojtyła – papa dal 1978 – era sopravvissuto, un anno prima, all'attentato di Ali Agca in piazza san Pietro. Quella che si svolse allora a Trastevere fu una iniziativa audace: non tanto ospitare per pranzo degli ospiti fragili che non avrebbero avuto altro luogo di accoglienza, quanto farlo in chiesa. Non in un locale della parrocchia – una sala, un oratorio, un refettorio – ma proprio nella navata di una delle più belle basiliche romane [2].
La Comunità di sant'Egidio – e l'allora parroco della basilica, Vincenzo Paglia – misero mano a questo inedito banchetto: anziani soli del quartiere, qualche mendicante, gente senza dimora, alcuni disabili, assieme ai loro amici della Comunità, quelli di ogni giorno, veri compagni con cui dividere il pane della vita e quello dell'amicizia. Qualcuno, vedendo quelle immagini, borbottò e aggrottò lo sguardo (“un pranzo in chiesa? Da non crederci!”), altri rimasero incuriositi, molti invece provarono grande simpatia. Era come avere scoperto un linguaggio nuovo ed efficace per comunicare un fatto essenziale – l'amicizia cristiana con i poveri, che non sono una categoria sociale o persone da assistere, ma gente di famiglia – con una immagine eloquente. Non era stato lo stesso, secoli prima, per il presepe, “inventato” da Francesco d'Assisi nell'abitato di Greccio? Una rappresentazione inedita della Natività per comunicare a tutti la Buona Novella [3].
Da molti anni, partecipo volentieri e con fedeltà a questo pranzo, da cui traggo sempre antichi e nuovi motivi di riflessione; così, anche questo 25 dicembre sono tornato commensale, assieme ad alcuni amici ed amiche d'eccezione, vecchi e nuovi.
Si comincia di buon mattino, in giro per la città, raccogliendo gli invitati. In qualche caso, c'è bisogno di tempo per aiutare ciascuno a prepararsi e conviene cominciare con anticipo. Il mio itinerario quest'anno non è molto complicato: prevede una prima tappa a san Giovanni – dove abita Lino – e una seconda al Quarticciolo, per raccogliere Gigi.
Di Gigi qualcosa ho già raccontato, questa estate, quando perse in un colpo solo l'alloggio (dove stava scontando una breve condanna detentiva) e la libertà, costretto a “riparare” in carcere per non essere stato autorizzato in tempo dal tribunale a cambiare domicilio. Chiuse le questioni con la giustizia, sempre aperte quelle con l'ingiustizia, da settembre Gigi è nuovamente un uomo libero, anche se le difficoltà non sono finite con l'uscita dal carcere. L'alloggio è ancora piuttosto precario – un problema irrisolto per tanti, a Roma – e la salute malferma. Per Gigi, è la prima volta a santa Maria in Trastevere ed è piuttosto emozionato.
Lino invece è un “veterano” del pranzo di Natale: lo frequenta ormai da una ventina d'anni (lo dichiarerà anche ad una elegante intervistatrice della tv, che lo approccia senza cogliere quasi mai l'ironia del suo parlare romano). Lino ha accompagnato per anni a questo appuntamento una donna malata e disabile, conosciuta vagolando per le strade di Tor Pignattara, a cui lui faceva – gratis – da factotum. L'ha accompagnata fedelmente ovunque, per anni – senza obblighi di parentela o d'altro – fino al termine della sua vita. Lino è un po' invecchiato, dipinge sempre quadri d'un certo pregio, senza nessuna altra formazione artistica che quella di un talento naturale per la tela e i colori; convive da sempre con la malattia della mente, col fastidio attuale di non poter più guidare, lui che ha una così grande passione e competenza per i motori.

Arriviamo in anticipo e ne approfittiamo per parcheggiare con calma, non troppo lontano; nella piazza affollata, salutiamo amici vecchi e nuovi. È il momento poi di riunire gli invitati del tavolo che ci attende – il n. 13, senza scaramanzie – e fare le presentazioni tra chi ancora non si conosce. Infine, si entra in chiesa, tra emozione ed allegria. Il mosaico dell'abside, opera anonima, splendida e unica di un millennio fa, mostra sul trono il Cristo che abbraccia sua madre, a significare accoglienza e protezione: un gran bel benvenuto, non c'è che dire. C'è musica e gente sorridente che ci accoglie e riconosce, indicando a ciascuno cordialmente la propria collocazione. Le panche sono scomparse. Al loro posto, i tavoli del pranzo. Le lunghe tavolate, sempre apparecchiate con solennità, un tempo erano attestate alle colonne; dallo scorso anno, sono state rimpiazzate – anche per aiutare il distanziamento – da bei tavoli circolari, con otto posti a sedere, dove è più bello stare assieme e più facile fare conversazione. Prendiamo posto, io Lino e Gigi. Seguono tutti gli altri. Il lieve ritardo di Luciana – che arriva da sola con la sua carrozzina elettrica – ci mette un po' di ansia: qualcuno ci chiede se il posto rimarrà vuoto (c'è sempre infatti qualcuno che si presenta senza avvisare e occorre sapere se qualche posto è ancora disponibile per fargli spazio), ma anche l'ultima invitata infine si materializza, solcando rapida la navata su quattro ruote motorizzate dall'ausilio della tecnologia.
Poco distante dal nostro circolo, rapida nel servire le portate, oggi c'è Tonia, che saluta i tanti che conosce. La ricordo seduta a tavola poco più che fanciulla, con suo padre, rimasto vedovo e gravemente malato, scomparso diversi anni fa. Tonia – che ha una bellissima figlia ormai adolescente – quest'anno ha deciso di servire a tavola: lo fa sorridendo e con grande simpatia, rallegrando chi è un po' più pensieroso, come ha sempre fatto fin da quando ha cominciato a frequentare questa famiglia allargata, un po' bizzarra, che si affiancava alla sua che stava venendo a mancare.
Il cibo arriva rapido, fumante e prelibato, servito con garbo, mentre i sommelier si aggirano tra i tavoli versando vini di pregio, avendo cura di non mettere in difficoltà quelli che non ne bevono – come i musulmani – e di non eccedere con quanti hanno problemi con l'alcool: ho sempre pensato alla bravura di quelli che faticano per rendere impeccabile questo pranzo, dove – come osservò acutamente un papa – “chi serve e aiuta si confonde con chi è aiutato e servito” [4]. Si tratta di una gran bella confusione.
Mentre iniziano già a circolare tra i tavoli i vassoi con i dolci, don Marco Gnavi – parroco di santa Maria, seduto tra gli altri – si alza e sale le scale del presbiterio. Poi impugna brevemente il microfono per un saluto, al quale associa alcuni ospiti: il sindaco, il cardinale Parolin, due rifugiati dalla Siria – madre e figlia – giunti in Italia grazie ai corridoi umanitari. Nel frattempo, apparizioni attese, si fanno avanti discretamente alcuni mescitori, armati di bottiglie di spumante, e comincia un breve conto alla rovescia. Non è sempre facile controllare l'espulsione sincronica del tappo, ma più o meno così avviene.

I portatori di bollicine si dirigono verso i tavoli assegnati, mentre dalle colonne della basilica – dove erano stati seminascosti dietro piante di alloro per l'intera durata del pranzo, confabulando sommessamente con piccoli foglietti tra le mani – compaiono dei singolari portatori, con in testa il berretto di Babbo Natale e tra le mani dei sacchetti rossi tutti infiocchettati, con un cartellino che porta il nome di ciascun commensale. Tutti ci applichiamo a scartare curiosi il dono che ci è stato consegnato: si aiutano i meno abili a sciogliere i nodi e si estrae – più o meno discretamente – il contenuto del sacchetto. Non è difficile immaginare la vera gioia che è ricevere qualcosa pensato proprio per te. Ci si attarda nei saluti, tra commensali, ospiti, persone impegnate nei mille servizi che richiede un banchetto così numeroso in un luogo tanto particolare. Tutti vogliono farsi una foto ricordo, mentre qualcuno che ne è sprovvisto cerca un passaggio per tornare a casa, visto che i bus non torneranno in circolazione prima delle 17.00. Al mio equipaggio si aggiunge così Calogero, un siciliano trapiantato a Roma da decenni e che da pochi mesi, grazie al supporto operativo di alcuni amici della Comunità, ha ottenuto infine un insperato alloggio popolare, dopo tanti anni di attese e di vita precaria. Lo accompagniamo volentieri sulla Tiburtina, godendo per un buon tratto di strada della sua conversazione gentile e compassata.
È già quasi scuro quando termino di riaccompagnare l'ultimo degli ospiti. Certo, si è trattato di una giornata eccezionale, come in un certo senso d'eccezione erano i commensali che siamo stati. Eppure, consola sapere che per tutti, dietro questa giornata straordinaria, oltre Natale, c'è una rete forte di amicizia, aiuto e solidarietà che resta saldamente connessa durante tutto l'anno. Auguri!
Paolo Sassi
[1] Cfr. il racconto di quel giorno in Il pranzo di Natale. Una famiglia larga come il mondo, a cura della Comunità di sant'Egidio, Milano, Leonardo International, 2008, pp. 20-21.
[2] «Ad alcuni appariva un utilizzo improprio della basilica […], per altri era un gesto dissacrante. Eppure, quel segno di accoglienza inusuale ha una radice evangelica». Così Vincenzo Paglia nel volume celebrativo del quarantesimo anniversario Il pranzo di Natale. Una tavola per tutti, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2022, p. 24.
[3] «Una nuova Greccio che mostra a tutti l'eloquente scelta di Dio e il comporsi intorno a Lui della sua vera famiglia, quella dei suoi fratelli più piccoli»; così si esprime Matteo Zuppi nella prefazione al volume del 2022 Il pranzo di Natale, cit. p. 5-6.
[4] Così Benedetto XVI nel 2009; cfr. https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2009/december/documents/hf_ben-xvi_spe_20091227_pranzo-poveri.html
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