Primarie di partito: finzioni democratiche

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Primarie, scelta dei leader e selezione dei candidati sono argomenti con cui l’elettore medio non ha sufficiente dimestichezza. Mass media e uomini politici non sempre aiutano a comprendere tali meccanismi, nonostante incidano profondamente sui livelli di rappresentatività. Il caos targato Cinquestelle è solo l’ultimo esempio di un processo che, a prescindere da partiti e colori politici, non è mai del tutto chiaro. La trasparenza richiesta non riguarda, però, solo la fase, più o meno democratica, di mero reclutamento interno dei candidati, ma anche le informazioni che vengono fornite agli elettori. Trasparenza in entrata e in uscita. Ed è su quest’ultimo piano che occorre far luce per scovare alcune finzioni che vengono tramandate ai cittadini come leggende popolari, seppur prive di sostanziale verità.

Finzione prima.
Parlare di candidato premier non ha alcun senso, quantomeno formale. Eppure quest’espressione viene costantemente abusata da più parti, come dimostrano la recente vicenda interna al Movimento 5 Stelle, l’eterna faida tra Salvini e Berlusconi per la leadership del centro-destra o le primarie del PD, che si traducono nell’investitura del futuro candidato premier nonostante siano in realtà finalizzate alla nomina del leader di partito. Peccato, però, che “candidato premier” sia una formula lessicale fuorviante che, viste le condizioni politiche attuali, dice poco o nulla. Usare questa terminologia significa sottintendere che siano gli elettori a scegliere il capo del governo, cosa che in Italia non accade: né a livello esplicito, poiché i cittadini sono chiamati a eleggere i loro rappresentanti; né a livello implicito, poiché al momento manca una legge elettorale di stampo maggioritario che possa assicurare, o almeno favorire, una diretta investitura popolare nei confronti del futuro capo dell’esecutivo.
Il candidato premier è un profilo esistente nelle democrazie maggioritarie, per esempio quelle anglosassoni, in cui un radicato sistema partitico ed elettorale, in larga parte, permettono al primo partito di governare da solo e dunque di poter esprimere come primo ministro il proprio leader. Del tutto diverse, invece, sono le logiche all’interno di una democrazia frammentata, pluripartitica e competitiva come la nostra, in cui vige al momento un sistema elettorale d’impianto proporzionale. In queste condizioni è praticamente impossibile che il risultato delle elezioni possa dare forma a una maggioranza in grado di governare. Di conseguenza, a meno che il Parlamento non decida di virare verso un sistema elettorale maggioritario, anche il futuro capo dell’esecutivo sarà frutto di consultazioni, negoziazioni e compensazioni partitiche del tutto estranee all’indicazione popolare.
È altrettanto vero, però, che negli ultimi anni si è consolidata la prassi (comunque più volte smentita) secondo cui l’incarico di presidente del Consiglio viene affidato al leader della formazione che ha ottenuto più voti. Ma si tratta dell’esito prevedibile di una competizione politica sempre più personalizzata, dove lo scontro tra partiti si riduce alla contrapposizione tra persone, e non tra programmi di governo. È ovvio allora che gli elettori, nell’esprimere il loro voto, guardino più al leader che alla natura ideologico-programmatica del partito. Ma questo comportamento, come detto, riflette il fenomeno di personalizzazione della politica, e nulla ha a che fare con l’investitura diretta tipica delle democrazie maggioritarie.

Finzione seconda.
Le primarie coincidono veramente con una democratica selezione dei candidati? Sono loro l’effettivo indice della trasparenza, più o meno nitida, che riguarda i partiti contemporanei? Negli ultimi anni, la classe dirigente di una certa estrazione partitica ha tentato di associare il comportamento democratico delle formazioni politiche con lo svolgimento delle primarie, dimenticandosi però che esse costituiscono solo l’ultimo tassello di un processo ben più complesso, dove incidono dinamiche politiche interne, fondi a disposizione, preferenze ideologiche. La selezione dei candidati è sempre restata, al di là dei proclami, appannaggio dei partiti. E le primarie, tra l’altro mai realmente competitive, si configurano spesso come il vanto da mostrare agli elettori per evidenziare un presunto andamento democratico interno.
Perché, allora, scandalizzarsi di fronte a quanto accaduto nel Movimento 5 Stelle? Le primarie sono state organizzate e gli iscritti possono scegliere il loro leader, esattamente come accaduto altrove. Pazienza se Di Maio non avrà avuto avversari: la regolarità formale è stata rispettata e tanti saluti ai buoni propositi originari. Non fa nemmeno differenza sapere se il passo indietro di Fico e Di Battista alla corsa per la carica di candidato premier sia stato dovuto a una decisione individuale, a un elaborato calcolo politico (che sia già pronta la squadra di governo?) o all’inconfutabile volontà del capo supremo, come sospettano i più maliziosi.

Del resto, non ci si può lamentare di tutto ciò in assenza di una legge che regolamenti – e uniformi – il funzionamento interno dei partiti. Esigenza da tempo avvertita e puntualmente rinviata a data da destinarsi. Finché tale vuoto legislativo non sarà colmato, ogni partito continuerà a scegliere la strada “democratica” e “trasparente” che più predilige, dando il via al valzer delle accuse reciproche. Inconvenienti inevitabili di una democrazia che fatica a trovare le sue regole.
Lorenzo Di Anselmo

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