
Un Primo Maggio ancora doloroso. Le occasioni per festeggiarlo si assottigliano sempre più, soprattutto dopo sette anni di crisi che si inseriscono in un processo epocale di asservimento del lavoro e del lavoratore alle logiche di mercato. Un anno fa Andrea Fumagalli scriveva che
«un tempo, il lavoro veniva festeggiato in quanto strumento di emancipazione, in grado di fornire i mezzi monetari (reddito) e i diritti di cittadinanza per poter godere del tempo del non-lavoro, ovvero dell'ozio, nel suo più nobile significato (otium).
Era un tempo in cui la separazione tra lavoro e non lavoro era ben chiara e netta. Tale distinzione derivava da un'altra distinzione, funzionale al processo di accumulazione e valorizzazione capitalista: quella tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, da cui discendevano i parametri che decidevano quali attività umane dovevano essere remunerate in moneta e quali no (come, ad esempio, il lavoro di riproduzione).
Oggi tutta la vita è messa a lavoro e a valore, ovvero è vita produttiva, sempre più inserita nel processo di mercificazione che accomuna tutte le attività umane, da quella artistica a quella manuale» [1].
Manifestazione CGIL-FIOM del 25 ottobre 2014
Da più parti si invocano e si presentano modelli diversi, ma non trovano quella coesione necessaria per diventare forza politica dirompente. Nell'altro campo la tracotanza delle proprie posizioni può arrivare a consentire ai rappresentanti delle istituzioni europee di definire il Ministro greco Varoufakis “un incompetente, un perditempo e un giocatore d'azzardo” per ostacolare una diversa, e nemmeno troppo rivoluzionaria, gestione della crisi in Grecia.
Un lavoro e un reddito continuano a non avercelo in tanti. Troppi. E la qualità è sempre più deficitaria di reddito, di modalità esplicative, dai tempi di produzione agli ambienti di lavoro, e di diritti per cui non ci si può più fermare ai numeri sull'occupazione, per quanto importanti siano. Così, come scrive Chiara Saraceno, «pensare che l'aumento dell'occupazione generi automaticamente una riduzione della povertà può, infatti, essere un'illusione, se non si considera attentamente di che tipo di occupazione si tratta e chi è più probabile che benefici dell'aumento della domanda di lavoro» [2]. Con buona pace di tutte le riforme che si sono messe in campo, non ultimo il Jobs Act italiano.
Non solo ma quando si deve intervenire sul tema del lavoro non ci si può fermare alle necessità di mercato, perché, come spiega Claudio Gnesutta, esso «delinea le prospettive di vita delle persone: non è solo questione di salario e reddito, ma di conoscenze, possibilità di scelta, relazioni con altri, inclusione e mobilità sociale, realizzazione personale» [3].
Comunque, propria alla vigilia del Primo Maggio, Matteo Renzi e i suoi Ministri hanno dovuto subire, nonostante i distinguo dei tecnici, le smentite che implicitamente provengono dai dati Istat anche rispetto alle semplici espressioni quantitative dei fenomeni. A marzo gli indicatori tornano a segnare brutto tempo: la disoccupazione giovanile risale al 43,1% tornado ai livelli dell'estate scorsa, i disoccupati tornano al 13% e abbiamo perso 59 mila unità (la diminuzione riguarda sia le lavoratrici che i lavoratori) rispetto a febbraio e rispetto a marzo del 2014 sono 70 mila in meno.
Sempre tenendo presente il tema della quantità del lavoro, i numeri in Europa tra il 2007 e il 2014, sono impressionanti se si eccettuano Germania, Malta e Polonia. Nell'Unione europea a 28 paesi nel 2007 la disoccupazione era mediamente al 7,2%, mentre nel 2014 è arrivata al 10,2% passando per un 10,9% nel 2013. L'Italia è uno dei paesi che ha subito le peggiori conseguenze: siamo passati dal 6,1% al 12,7% negli stessi anni. Oltre al raddoppio della disoccupazione abbiamo registrato anche il calo del 4,78% dell'occupazione passata dall' 62,8% al 55,7% del 2014, «il nostro tasso di occupazione, (…), è di quasi 15 punti sotto l'obiettivo europeo del 70% che viene indicato come punto di tenuta per un mercato del lavoro ‘sano' e per fornire equilibrio al sistema del welfare» [4].
La conseguenza di questo attacco al lavoro e del mancato attacco alla disoccupazione è la povertà. La precarizzazione, bassi salari d'ingresso, tirocini non pagati sono la causa. Secondo l'ultimo rapporto Benchmarking Working Europe sul mondo del lavoro in Europa il rischio povertà nell'Europa a 27 è cresciuto di quasi undici punti percentuali dal 2008 al 2013 interessando quasi il 25% delle famiglie. E poi l'incompetente è il Ministro Varoufakis.
Forse oltre alla festa, il Primo Maggio, deve tornare la protesta.
Pasquale Esposito
[1] Andrea Fumagalli, “Il lavoro non si festeggia”, www.alfabeta2.it, 1 maggio 2014
[2] Chiara Saraceno, “Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi”, Feltrinelli 2015
[3] Claudio Gnesutta, “La nostra proposta”, Sbilanciamo l'Europa ne il Manifesto, 30 aprile 2015
[4] Michela Scacchioli, “Il lavoro negli anni della crisi: l'Italia paga il conto, la disoccupazione è cresciuta del 108%”, www.repubblica.it, 29 aprile 2015
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