Primo maggio. Una storia anche contro il fascismo

un campo di papaveri rossi al tramonto
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Benito Mussolini, ben cosciente del significato che aveva assunto la Festa dei lavoratori per contadini e operai, da capo del governo la cancellò nel 1923 sostituendola con il “Natale di Roma”, Festa del lavoro (21 aprile). Attraverso questa celebrazione, il duce volle connettere forzatamente il fascismo con la tradizione dell’antica Roma proprio all’atto della fusione (più precisamente della confluenza) dell’Associazione Nazionalista Italiana con il Partito Nazionale Fascista. Quella decisione costituì una delle prime manifestazioni dei grotteschi sogni di grandezza di un dittatore che, nel tempo, avrebbe perso del tutto il contatto con la realtà, immaginando di guidare una grande potenza pronta per un conflitto che si rivelò devastante per il paese e che in brevissimo tempo fece crollare il consenso nella società, raggiunto in primis grazie alla martellante propaganda di regime.
Ma l’idea di connettersi all’antica Roma non fu l’unica ragione di quella scelta, dietro alla quale vi era un obiettivo politico immediato: disarticolare ulteriormente la classe lavoratrice e i suoi rappresentanti politico-sindacali, già vessati dalla violenza squadrista e sull’orlo della sconfitta. Il duce sapeva, provenendo dall’ala rivoluzionaria dei socialisti, quanto fosse importante il Primo maggio per contadini e operai. Non si trattava solo di un mero simbolo ma della chiara manifestazione di un’identità, come lo erano i luoghi nei quali i lavoratori si riunivano. Non a caso lo squadrismo, dopo l’accordo tra CGdL e Confindustria caldeggiato dal Governo Giolitti che aveva portato alla cessazione dell’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920, nel 1921 (quando secondo le dichiarazioni pubbliche del duce stesso il “pericolo rosso” non poteva più sussistere) si era scatenato provocando circa tremila morti e, con la complicità delle autorità di pubblica sicurezza e della magistratura, aveva distrutto Camere del Lavoro, circoli, leghe, cooperative. Luoghi che testimoniavano non soltanto la presenza diffusa sul territorio di contadini e operai, ma anche una cultura faticosamente affermatasi e alla quale aveva corrisposto un ampliamento dei diritti, non solo della visibilità.

Ma i lavoratori e i loro rappresentanti non dimenticarono e mai si sentirono rappresentati dal Natale di Roma. Negli anni 1943-1944, attraverso l’arma dello sciopero, essi contribuirono notevolmente a indebolire il fascismo anche nella sua versione repubblicana e si mostrarono più forti della repressione nazifascista. Quando il Primo maggio, che era stato introdotto in Italia nel 1891, venne ripristinato dopo la Liberazione con l’annullamento del decreto del 1923, quel clima di festa riapparve come d’incanto nel segno dell’unità. Lo capirono bene i mafiosi guidati da Salvatore Giuliano quando, a Portella delle Ginestre, il Primo maggio 1947 furono autori di una strage (11 morti e più di 30 feriti, di cui 6 morirono nelle successive settimane) che, secondo alcuni storici come Giuseppe Casarrubea e Nicola Tranfaglia, si configurò come una sorta di strategia della tensione ante litteram. Questo perché fu organizzata con la collaborazione di esponenti fascisti legati al principe nero Junio Valerio Borghese dopo la vittoria del Blocco del popolo nelle elezioni amministrative siciliane, che aveva dimostrato la forza dei contadini che reclamavano la terra ed evidenziato i rischi che vecchi equilibri di potere fossero alterati.

Anche pensando a quel Primo maggio, è di unità che oggi c’è bisogno: i morti sul lavoro crescono e i diritti diminuiscono. Non è certo il momento delle divisioni, anche tra chi si sente erede dei partigiani e ha il dovere di ricordare che la sconfitta del nazifascismo è venuta soltanto dall’antifascismo plurale, da rafforzare con l’impegno di tutti e tenendo ben presente l’ordine delle priorità.
Andrea Ricciardi

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