
Che primavera era quella del 1942? Il verde antico del grano giovane della Foggia prospera era diventato grigio. Grigio di polvere di bomba. Forse ancora più grigio a causa dei bisbigli che accorciavano le solite voci allegre. Di chi vola sul grano per annunciare il pane della Capitanata e di Monte Sant’Angelo.
Il grigio, tendente al grigio-nero, si toccava con mano anche nelle poche fotografie di quella primavera strana. Che sono riuscito a sfilare fuori a fatica e con strana paura.
I colori vivaci della Capitanata erano altrove, in altri tempi. Girano solo nella testa della memoria.
Quale memoria se non ricordo nulla?
No, non è vero. Quando sento i botti della festa è come se ricordassi. I neonati sodomizzano i ricordi mancati.
Non si sapeva se quella primavera avrebbe dato fiori o fragori che dilaniano.
Quel giorno, 24 aprile del 1942, era semicoperto, forse anche di cielo.
E nascevano a Foggia, quasi di contrappunto, o per trepidazione traslata nel panico di bombe, due gemelli – non uno che era anche molto per allora – in una palazzina stile Novecento in via Orientale a Foggia.
I due figli, che Mariella e Pasqualino proprio non si aspettavano, erano uno strano doppio, in un momento in cui il doppio era più difficile del mille. E non solo per loro.
Carlo Gino Renato ed Eustacchio Franco Rocco.
Ero io quell’Eustacchio Franco Rocco che oggi si è complicato nel trendy Eustacchiofranco o Eustacchiofrancorocco. Scegliete Voi. No, scelgo io. Più complicato è il mio nome composto, più facile sarà riacchiappare ricordi semplici semplificati, anche se di cristallo fragile.
Un modo per vincere il grigio del grano e farlo ritornare giallo luce.
La palazzina dove sono nati i doppi fratelli non c’è più. Svampata come diceva il comico filippino.
Al suo posto un Palazzone nuovo e vanitoso senza motivo, con una cavallino rosso allo spigolo, con testa in su, sedere e coda in giù.
Che dice in merito la cabala? No, è solo Arte, dicono.
Si, ma numme fido, direbbe Mariella. Sotto nun ce vado. Non se sa cosa può piovere. Anche se dopo aver visto piovere bombe nulla è lo stesso.
Sfioro come per accarezzarle le due vecchie foto dei nati in casa, non in ospedale. Illusione o trepidazione ritardata per quella primavera grigia.
Che rischio per Mamma Mariella, parto doppio, ciascuno sopra i tre chili abbondanti! Senza assistenza soffice, come oggi usa.
Mariella, Nonna Lila, Teresa sembravano fantasmi spauriti. Fame chiusa negli echi delle bombe, o bombe-bombe senza echi? È il mercato nero, quello delle bombe.
E Pa’ Pasqualino nelle foto non si vede. Sta ansioso dietro la macchinetta d’altri tempi. Con mani forse tremule. Per noi o per un obiettivo orizzontale che, da un momento all’altro, può diventare verticale. O una prospettiva obliqua. Meglio.
Anche per questo le foto sono sfocate. Tutto giocava sghembo.
Gli occhi tristi spingevano a forza un lampo e un sorriso d’occasione al tempo stesso, che non si vedeva nemmeno nel fondo insipido dei pochi mobili del tempo gramo.
Nati con l’unico dottore trovato al momento. Il dottor Volpe che era bravo, dicevano. Meno male. C’avemo i piedi dorci.
Il mio nome multiplo rigorosamente da primogenito, diceva Pasqualino.
Una tradizione infinita di nomi alternati Pasquale Eustacchio Pasquale Eustacchio…
E mo’ so proprio io che ho interrotto per primo la catena. Continuando avrei forse prolungato la sirena della bombe? Basta bombe! Iniziava un’altra musica, anche se urlata. Un’altra vita senza catene. E se il grano, per dispetto non ci venisse appresso? Dicevano.
Carlo aveva altri nomi che ricordavano parenti lontani, che non so più chi erano e dove vivevano. Come adesso, che non so più chi sono io, perché non so più chi erano loro. Sono solo uno nato sotto le bombe. Rintronato senza saperlo? Parenti, amici del tempo. In questo caso spariscono.
Ho perso i fili e numme sta’ a snocciola’ di più.
Abruzzo, Firenze, Torino, Roma?
Mamma Mariella con il suo sorrisetto tra il furbetto e l’innocente diceva che primogenito era come mettere due pani dentro il sacco – un’altra volta la storia di pane! Prima l’uno poi l’altro. Io ero il pane messo per primo perché sono nato dopo.
Ascoltavo come se questa fosse una favola per addormentarmi e sognavo la spada di Artù che ancora oggi non riesco a sfilare dalla roccia. Primo o secondo la spada non si sfilava!
Ho rinunciato e vago con il pensiero sperduto. Anche oggi che il cervello non si è più raddrizzato. E come poteva? Sono un residuato bellico. Senza saperlo.
A maggio e settembre 1943 i bombardamenti più violenti a Foggia. Credo di non ricordare, ma, in fondo non è così. E invece sì che lo so di che si trattava. Ma non voglio sapere!
I rimbombi non spariscono. Si nascondono dentro le ossa profonde. Quelle che qualche volta ho rotto sulla bici. Qualcuno dice per scansare la mia bomba personale. Quella che mi perseguita e mi segue sempre ed ovunque.
Mariella Pasqualino e noi, non so come, siamo corsi – si dice sfollati – a Roma. Con quale mezzo non so.
Per ritrovare le braccia aperte e trepide di Nonna Anna e Zia Graziella, alla via Magna Grecia a Roma, palazzina liberty e mobili in stile.
Poi a Francavilla per vedere dalla collina saltare la nostra casa patriarcale accuratamente pre-minata. Anche questo credo di non ricordare. Allora perché spalanco gli occhi tutte le volte che vedo l’astronave che esplode in partenza, per saltare in su, sempre più su, sulla Luna e su Marte?
Era la Casa paterna antica dove Pa’ Pasqualino conservava gelosamente tanti ricordi preziosi di una antica famiglia.
Ha perso ogni memoria, e non ci ha raccontato mai nulla. Che senso raccontare cose che potrebbero sembrare solo favole?
Così non c’è più nemmeno la Casa dei ricordi. Quella degli Avi. I nostri Lari. Semo Romani, diceva Mariella.
Quella delle Fate magiche. Forse non avevo più, dentro di me, nessuna favola, ed anche se me le raccontavano, in effetti, già allora, non ci credevo più.
Ma una delle prime cose che ricordo consapevolmente, strano a dirsi, non sono le bombe di Foggia e nemmeno le mine di Francavilla, ma i mobili di legno massello noce o castagno di quella casa accogliente e severa di Roma, con i mobili che aprivo curioso e mi inebriavo di profumo e di legno. E che scricchiolavano. Legno vissuto dai tarli o qualche fantasma di bombe? Allora anche le bombe proseguono nel mondo dei fumi vaganti dell’aldilà! Le bombe, una volta cadute, sono eterne! Vanno in Paradiso, Purgatorio, o Inferno? Non è scontata, mi dicevo più grandicello, l’ultima destinazione. Soltanto parecchi anni dopo ho optato decisamente per le bombe dell’Inferno.
Dentro qualcuno di quei mobili c’erano caschi e fioretti veri, per duellare. Quando era giovane Pasqualino. Sfilavamo alcune piccole aste di legno dalle tende a pacchetto, e, con enormi caschi in testa, incrociavamo i legni. Quanti rimproveri! Poi abbiamo trovato i mobili chiusi.
E poi abbiamo preso i piccoli frammenti del piano di marmo della cucina che si era rotto in mille pezzi e li lanciavamo dal balconcino per strada dove passavano i tristi tram di allora – post bellici, verde chiaro, verde scuro. Pieni di gente triste. L’un tram dopo l’altro. La punizione questa volta è stata peggio delle bombe!
Forse tutte le cose e fatti di allora facevano parte di un mondo che stava morendo.
Soprattutto gli alberi di allora o i miei nonni di altra epoca mi sembravano diversi dalle persone che sono venute nel successivo mondo temporaneo. Tutto era diverso anche nelle fisionomie, i baffi, i capelli, le acconciature delle donne. Perché? Forse erano solo le lenti deformanti delle macchine fotografiche di allora.
La vita successiva, comunque, mi è sembrata anch’essa grigia. Ma un grigio diverso. Poi è arrivata la televisione a colori e qui non si è più ragionato. Tutto è saltato. I ricordi sono diventati ricordi a ragion veduta.
Mi chiedo ancora oggi perché mi ero convinto solo di alcune priorità e prepotenza di immagini di allora, forse meno significanti. Per esempio Alberi e Nonni. Cosa cercavo di nascondere? Tutto il resto sfocato.
Nonno Eustacchio con baffi dritti e Nonna Anna con il cinturino di velluto nero come sottogola per il collo pendente ed ingannare l’età. Più non so.
Eustacchio Franco Antonucci
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