
La direzione del Partito Democratico ha decretato un ulteriore successo della linea Renzi, approvando anche la recente presa di posizione sulla necessità, per pervenire a un incremento di occupazione, di diminuire le tutele, in realtà già ridimensionate dalla legge Fornero solo un anno fa.
Le persone più accorte e più preparate in economia trasecolano, perché tutti sanno bene che l’occupazione è ciclica, in relazione non alle tutele, ma all’andamento dell’economia. E mai un imprenditore che ha la possibilità di incrementare il fatturato e gli ordinativi, si ferma davanti alla preoccupazione di non potere licenziare successivamente qualche piantagrane che non potrà licenziare, per le troppe tutele che la legge offre ai lavoratori. Senza contare che la miriade di contratti possibili ormai permettono qualsiasi inquadramento per quanto atipico e le massime garanzie di poter assumere in prova per anni.
È evidente che si tratta di una scelta ideologica neoconservatrice imposta a un paese che ormai non ha più la forza di opporsi a nulla, per il quale funziona alla grande la parabola della rana che si trova bollita perché non ha avuto la possibilità di accorgersi dei lievi e continui aumenti di temperatura dell’acqua nella quale è immersa, per cui si è abituata a tutto fino a ritrovarsi cotta a puntino!
Le tutele non incidono sull’occupazione come dimostrano con pochi dati di enti economisti dell’OCSE non proprio di sinistra e abituati ad analisi serie e documentate
Il primo indice preso in considerazione è l’Employment Protection Legislation Index (EPL) database che valuta e confronta il grado di protezione generale dell’occupazione previsto dalla legislazione di ciascun Paese, ottenuto stimando separatamente il grado di protezione dei contratti di lavoro “regolari” (a tempo indeterminato EPRC), di quelli a termine e la disciplina delle agenzie interinali (EPT). All’aumento della flessibilità del mercato del lavoro i due indicatori EPRC, EPT e conseguentemente l’indicatore generale EPL diminuiscono.
Figura 1 – EPL Eurozona (fonte OCSE)
Tutti i paesi dell’Eurozona negli ultimi 25 anni hanno ridotto sensibilmente la protezione del lavoro, e reso molto più flessibili i loro mercati; fanno eccezione la Francia, l’Austria e l’Irlanda, per motivi diversi. L’Italia è tra i paesi che hanno ridotto maggiormente la protezione dell’occupazione, riducendo le tutele dal valore 3,82 del 1990 al 2,26 del 2013 (il 40%) senza considerare ancora gli effetti del decreto Poletti, che comporterà una ulteriore riduzione dell’EPL che sarà registrata dall’OCSE il prossimo anno e quindi non è ancora incluso. Applicando il ragionamento dei vari neoliberisti che si sono esercitati negli ultimi anni sul tema, ci dovrebbe essere un vero e proprio boom. I dati OCSE chiariscono inequivocabilmente che le varie flessibilità non hanno aiutato ridurre la disoccupazione in Italia e nell’Eurozona. Per cui l’OCSE stesso arriva alle conclusioni già nell’Employment Outlook pubblicato nel 2004, di negare l’esistenza di una relazione tra flessibilità e occupazione e pensare che allora il ministro dell’Economia Padoan era “capoeconomista” dell’OCSE)!
C’è un’altra storia che viene propinata (alla rana quasi bollita! ) sarebbe la differenza di trattamento di 8 milioni di lavoratori a tempo indeterminato rispetto agli altri. Ma l’indice EPRC dell’Ocse dice con chiarezza che i lavoratori Italiani a tempo indeterminato hanno meno protezioni di Francesi e Tedeschi e sono nell’eurozona a centro classifica!
Figura 2 – EPRC eurozona (fonte OCSE)
E invece la disoccupazione non si può combattere con la diminuzione delle tutele ma con appropriate misura economiche che aumentano il credito e la competitività non della forza lavoro, ma del sistema paese. Nella Figura 3 appare in tutta evidenza che i provvedimenti di regolazione e tutela non possono essere correlati a incrementi o a una diminuzione dei livelli occupazionali.
Figura 3 – Andamento disoccupazione (elaborazione da dati ISTAT)
Anche dal punto di vista della sostenibilità economica i provvedimenti ipotizzati di estensione del diritto al reddito di cittadinanza per tutti i disoccupati e di superamento della cassa integrazione sembrano impraticabili; anche per gli imprenditori il pagamento di una indennità sostitutiva in questo momento può risultare troppo oneroso, confermando l’impressione di una classe dirigente poco preparata, autoreferenziale e arrogante, che persegue il cambiamento per il cambiamento, senza una strategia complessiva e senza approfondire i temi .
Mentre il Pil continua la discesa (-0,3% nel 3° trimestre 2014) e l’Italia continua a non poter utilizzare né la politica fiscale (patto di stabilità) né la politica monetaria (ne è titolare la Bce). E in questo contesto viene anche ipotizzato l’inserimento in busta paga del trattamento di fine rapporto (TFR), dimenticando che la cosa è complicata sia per la liquidità aziendale che per motivi fiscali (differenti aliquote!) senza tener conto che non sono previste per gli statali accantonamenti per il TFR, che oggi viene liquidato con due anni di ritardo previsti dalla legge.
Intanto il CNEL dichiara che la disoccupazione vera è intorno al 30% (gli indici sono calcolati sugli iscritti al collocamento) e che il recupero dei posti di lavoro (2 milioni) non potrà avvenire prima del 2020. L’acqua attorno alla rana comincia a bollire, la rana continua a non accorgersene, forse tocca ai gufi avvertirla? Si farà in tempo?
Francesco de Majo
Fonte OECD Employment Outlook 2014
banche dati Istat
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