Reddito di libertà: violenza contro le donne combattuta con gli spiccioli

CADMI campagna comunicazione
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Il reddito di libertà è un bonus economico destinato alle donne vittime di violenza previsto dal dpcm del 17 dicembre 2020, l’INPS ha pubblicato nel novembre 2021 una circolare con le istruzioni per la presentazione della domanda di accesso al contributo dove sono specificati i requisiti richiesti.

Si tratta di una misura a beneficio di donne con figli minori o senza figli seguite dai centri antiviolenza al fine di garantire una maggiore autonomia economica nei percorsi che queste donne decidono di intraprendere per uscire dai rapporti con i propri abusanti.
Il fine dichiarato dal provvedimento è quello di sostenere l’autonomia abitativa e la riappropriazione dell’autonomia personale delle donne nonché di sostenere il percorso scolastico dei figli minori. Tanto ambiziosi gli obiettivi che si pone il reddito di libertà quanto minimalista la cifra stanziata, €400 a donna su base mensile per un massimo di 12 mensilità, parliamo di soli 3 milioni di euro in totale messi a disposizione. Facendo un veloce calcolo scopriamo che poco più di 600 donne potranno beneficiare del provvedimento. Una goccia nell’oceano se pensiamo alle dimensioni reali del fenomeno: un terzo della popolazione femminile ha subito una qualche forma di violenza nel corso della vita (ISTAT 2020) di questa importante fetta della popolazione nazionale femminile quasi 50 mila donne sono accolte ogni anno nei centri antiviolenza.

L’associazione donne in rete contro la violenza raccoglie un centinaio di centri antiviolenza distribuiti sul territoriali nazionale e si occupa anche di

Marilena Arena
Marilena Arena

raccogliere ed elaborare i dati delle donne che si rivolgono ai centri, ci racconta quali sono le forme di violenza che queste donne riportano: la violenza psicologica è subita dal 77% delle donne , la violenza fisica riguarda il 60%, la violenza economica il 33%, mentre la violenza sessuale e lo stalking riguardano meno del 15% dei casi, ovviamente più forme di violenza possono coesistere sulla stessa “survivor“.

Al fine di valutare quanto sarebbe importante offrire un sostegno economico alle donne che intraprendono un percorso di uscita dal rapporto con l’abusante bisogna sottolineare che una donna su tre che si rivolge ai centri antiviolenza non può contare su alcuna forma di reddito. Secondo Marilena Arena, presidente del Centro aiuto donne maltrattate  di Monza (C.A.DO.M), bisogna conoscere bene il fenomeno per poter legiferare in maniera efficiente, al momento il reddito di libertà risulta un provvedimento di facciata mentre sarebbero indispensabili misure di intervento ben più importanti. La presidente Arena sottolinea quanto la violenza sia un fenomeno trasversale per classi sociali che vede un’asimmetria economica tra donna e abusante dove la donna è la parte debole.
Il
patriarcato ha generato la disparità economica sulla quale si innesca il detonatore della violenza domestica, il potere del patriarcato è potere economico. La violenza psicologica convive spesso con la violenza economica in forme subdole e poco note: «abbiamo avuto un caso di una donna che si è rivolta al centro C.A.DO.M che si garantiva un piccolo reddito facendo delle riparazioni e dei lavori di cucito in casa alla quale il marito faceva pagare la corrente elettrica per l’uso della luce e il funzionamento della macchina da cucire». Questo per rimarcare che esiste poca conoscenza di quella che è la violenza economica e i modi attraverso i quali può essere perpetrata, le donne stesse talvolta non ne sono pienamente consapevoli. La violenza economica si nasconde dietro comportamenti che sono ancora culturalmente giustificati e accettati dalla società. Tutte le donne anche quelle che hanno un lavoro o addirittura benestanti possono esserne vittime. È violenza economica escludere la donna dalla gestione del denaro, negare soldi per l’acquisto di beni e servizi essenziali, esercitare il controllo di tutti gli acquisti della famiglia, indurre la donna ad indebitarsi per acquisti di beni intestati all’ abusante, obbligare la donna a firmare documenti come ipoteche e mutui senza che le sia data alcuna spiegazione o farle firmare assegni scoperti, insomma parliamo di un fenomeno complesso. Possono rivolgersi al centro antiviolenza donne che formalmente sono intestatarie di beni immobili, della propria casa ma che sono state obbligate ad abbandonare quella stessa casa per salvarsi la vita. Una casa e dalla quale l’abusante non uscirà mai e che quindi non possono liberamente disporre dei propri beni e del proprio denaro.

campagna pubblicitaria CADMIL’iter necessario per l’accesso al reddito di libertà implica che i servizi sociali siano in grado di valutare situazioni di violenza economica molto complesse. Le donne che si rivolgono al centro antiviolenza, continua la presidente Marilena Arena, necessitano spesso di iniziare un percorso psicologico, ma non dispongono dei mezzi finanziari per sostenerlo, per sé e per i propri figli. Il centro offre alcuni incontri di psicoterapia ma l’utilizzo in maniera continua di questi servizi attraverso il sistema sanitario pubblico è impossibile a causa lunghe liste d’attesa che non rispondono alla condizione emergenziale nella quale si trova la donna per la quale il reddito di libertà dovrebbe essere una misura strutturale che consenta alla stessa di intraprendere un proficuo percorso di uscita dal rapporto violento.
Di fatto sia per l’importo che le modalità di ottenimento rischiano di scatenare una guerra tra poveri senza poter dare nessun beneficio duraturo. Sarebbe auspicabile – spiega la presidente – visto che la “survivor” è stata colpita da una violenza che nasce in un sistema socio-culturale patriarcale, che la perpetua e tollera e che ha impedito alle donne di difendersi, che la donna ottenesse invece un vero e proprio risarcimento.

Cristina Carelli
Cristina Carelli

Secondo Cristina Carelli coordinatrice del CADMI, il reddito di libertà per come è stato pensato denota ignoranza è superficialità rispetto alla realtà sulla quale vorrebbe intervenire: le procedure di accesso alla misura sono lunghe e farraginose; la donna deve essere presa in carica da un centro antiviolenza, è indispensabile coinvolgere anche i servizi sociali per certificare il suo stato di bisogno, i servizi sociali stessi non sono formati e culturalmente attrezzati per gestire questo specifico problema, per valutare la vulnerabilità, mentre bisognerebbe conoscere cos’è e come si esprime questa vulnerabilità.
Poca conoscenza esiste di quello che è realmente il fenomeno, le leggi di intervento in ambito penale attirano un’attenzione quasi morbosa su fatti di violenza da cronaca nera e non focalizzando l’attenzione sulla componente culturale del problema che riguarda il patriarcato, ci troviamo a confrontarci con stereotipi che vedono le donne coperte di lividi, ferite, ammazzate, immagini che canalizzano l’attenzione dell’opinione pubblica solo su questa piccola parte di vittime facendo dimenticare quella che è la “violenza invisibile“: psicologica, economica, stalking, sulla quale si potrebbe intervenire preventivamente, la genesi del femminicidio, risultato ultimo di una parabola ascendente di comportamenti abusanti parte dall’ isolamento della donna e dalla denigrazione.

La doppia certificazione, dal centro antiviolenza e dai servizi sociali, indispensabile per sperare di poter avere accesso al reddito di libertà implica che la donna si sia rivolta ad entrambi, cosa che spesso non accade, allo stesso modo una donna che si rivolge al centro antiviolenza non è detto che si rivolga anche alle forze dell’ordine per una formale denuncia. Il reddito di libertà pone l’autonomia economica al centro del percorso intrapreso dalla donna, ma per come è strutturato e per l’importo esiguo del quale potranno beneficiare pochissime donne risulta fortemente inadeguato rispetto alle reali necessità.
Adelaide Cacace

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