Riflessioni di un cittadino in riva al mare

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“La città degli uomini è andata altrove, sulle spiagge e sui monti, con i suoi usi, le sue ansie, il suo frastuono. Qui rimane soltanto lo spazio, il mondo arcano della memoria; il guscio immutevole delle cose; una conchiglia piena del frusciante suono del mare, sulla riva deserta. Qui, soli, restiamo”
Carlo Levi, Roma fuggitiva

Giunge un sms mentre cammino,solo, sul lungomare di Francavilla, in un giorno di fine Dicembre, con il vento forte e freddo che taglia il viso sciogliendolo in lacrime non di sofferenza; il cielo è terso, azzurro; l’acqua marina, quasi immobile, fa da specchio ai tiepidi raggi del sole rendendomi un’osservazione da coordinate altazimutali. Deciso a non distrarmi, mi libero dall’ansia da iPhone: lo spengo. Percorro a passo veloce l’intero camminamento francavillese, di recente concesso ai cittadini come risarcimento per una cementificazione della costa, invadente a tal punto da occupare chilometri di battigia, che non ha permesso, per lustri e lustri, di poter vedere il mare pur essendo vicini pochi metri dalle onde. Case private ed altri edifici, come una “innaturale” grande muraglia cinese, estirpata la macchia mediterranea, impediscono la vista della perennemente inquieta distesa d’acqua e sabbia ed hanno trovato e trovano ancora posto come testimonianza di vandalismo, incuria ed ignoranza antropologica.

Trabocco Abruzzo
Trabocco sulla costa abruzzese. Foto Emidio Maria Di Loreto

Cammino imperterrito; non ho più freddo. È annunciata da tempo la realizzazione, più a sud, d’una ciclovia lungo l’antica linea ferrata, abbandonata dal 2005, impedendo di raccontare ancora l’ansiogeno rito migratorio dell’andare a nord per lavoro e del ritornare al sud per riconciliarsi con le radici: le persone care ed il paesaggio. Ora il chilometrico tragitto potrà compiersi a piedi o in bicicletta; altri quarantadue chilometri di un percorso tra Adriatico e Appennino, con la magnificenza della Majella e del Gran Sasso a fare da scenografia, tra natura e vestigia del passato, tra le quali attira ancora l’attenzione di molti la presenza diffusa dei trabocchimacchine da pesca su palafitte, esistenti dal XVIII come ingegnoso meccanismo utile per sottrarsi alle condizioni meteomarine della zona e garante del pescato. Altri scempi sono presenti sull’arenile, blocchi di cemento di un improbabile porticciolo restano da anni ad interdire alla balneazione pubblica un ampio tratto di spiaggia, all’altezza del centro cittadino francavillese di recente privato anche, con demolizione non condivisa da tutti i residenti, del Palazzo della Sirena, assolutamente restaurabile e congruo con la vocazione turistico-culturale, inaugurato nel lontano 1888. Proseguendo verso sud, dal prossimo anno, forse, sarà possibile, ultimati i lavori di riconversione della linea dismessa dalle Ferrovie dello Stato, avventurarsi in un percorso dedicato a ciclisti e camminatori alla scoperta delle bellezze paesaggistiche della fascia costiera, come la Riserva naturale regionale di Punta Aderci, ma anche delle numerose testimonianze storiche disseminate lungo il suo itinerario come il Castello Aragonese di Ortona o l’Abbazia di San Giovanni in Venere a Fossacesia, idealmente congiungendo il Molise con, a nord, dopo Pescara, le Marche.

Per un istante mi sembra chiaro il significato di cittadinanza; come testimonia la radice etimologica del termine (civitas), la cittadinanza affonda le proprie radici nell’appartenenza a una città, non più la polis greca e la Roma repubblicana, bensì intesa come istituzione pubblica fondamentale alla quale culturalmente si appartiene. Per quanto il concetto di cittadinanza del mondo antico sia distante non solo da quello medievale, imperniato sulla solidarietà delle corporazioni, ma anche da quello moderno formatosi con la rivoluzione francese, esso ha avuto grande influenza nell’ambito della cultura politica occidentale. In particolare, sono state fondamentali la concezione del “cittadino” come colui che partecipa “alle funzioni di giudice e alle cariche”, secondo la definizione data da Aristotele nel libro terzo della Politica, destinata ad avere una forte influenza su tutta la cultura politica occidentale, e l’idea, propria della cittadinanza romana, che allo status di cittadinanza fossero inerenti dei diritti. Nel diritto romano, infatti, la cittadinanza si caratterizzava anzitutto come una forma di tutela giuridica, della quale lo straniero (peregrinus) era del tutto privo, che assicurava, di fronte ai magistrati e ai funzionari, il riconoscimento di una serie di diritti e di garanzie. Uno status, di tradizione repubblicana ma ereditato dall’impero, testimoniato dai celebri passi degli Atti degli Apostoli nei quali Paolo di Tarso rivendica di fronte al magistrato la propria dignità di “civis romanus” (rif. a Giovanni Damele, recensione a “Cittadinanza”, Pietro Costa, Laterza, 2005).

Cammino e penso alle occasioni perdute della “cittadinanza”. Una cartina da tornasole è proprio il paesaggio. Attraverso l’incrocio di una serie complessa di fattori – costituzione geologica, elementi geomorfologici, quota, microclima ed altri caratteri fisico-geografici, vegetazione espressioni materiali della presenza umana ed altri – è possibile “leggere” la vicenda umana sul pianeta, il radicamento territoriale delle comunità, l’utilizzo delle risorse ed anche, insolentemente, la deturpazione e lo scempio commesso nel corso secolare alla morfologia paesistica, a quelle unità di paesaggio che, su tutti i territori regionali, forniscono peculiari caratterizzazioni di contesto alle biodiversità. Sono le unità di paesaggio a rappresentare gli ambiti territoriali con specifiche, distintive e omogenee caratteristiche di formazione e di evoluzione, dalle coste alle colline, dalle pianure attraversate da fiumi (Valle del Sangro) alla bonifiche (il lago del Fucino, d’origine carsica, era il terzo lago per estensione in Italia e misurava circa 145 kmq), alla dorsale ed ai picchi appenninici. Esse permettono di individuare l’originalità del paesaggio abruzzese rispetto alle altre regioni, di precisarne gli elementi caratterizzanti e dovrebbero consentire in futuro di migliorare la gestione della pianificazione territoriale di settore. Il condizionale è d’obbligo. È comunque con la Rivoluzione francese che “nasce” la cittadinanza moderna, nel senso in cui la intendiamo ancora oggi, ridefinita alla luce di altri concetti come quelli di Stato, libertà, diritti, eguaglianza e nazione. La parola stessa cittadino (citoyen) divenne il simbolo dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Il nuovo rapporto di cittadinanza che si creò non era più, come in epoca medievale, quello tra il cittadino e la città, ma quello tra il cittadino e lo Stato nazionale, completando una traiettoria che aveva avuto inizio con l’affermazione dell’assolutismo. Jean Bodin aveva infatti già ricondotto, nei Six livres de la république (1576), la cittadinanza al rapporto di sudditanza diretta nei confronti del sovrano, pur senza abolire del tutto il ruolo delle “appartenenze” alle piccole patrie cittadine. La “nazione”, composta dall’insieme dei sudditi sottoposti al monarca, con la rivoluzione si trasformò così nel corpo sovrano formato dai cittadini, delineato da Emmanuel-Joseph Sieyès nel suo pamphlet rivoluzionario Che cos’è il Terzo Stato?, nel quale ai “privilegiati” che, pretendendo di sottrarsi all’eguale sottomissione alla legge, costituivano un “corpo estraneo”, era contrapposta la “nazione”, identificata con il Terzo stato. Il Terzo stato è tutto, diceva Sieyès, perché “comprende in sé tutto quel che occorre per formare una nazione completa”, per questo, agli Stati generali, sono contrapposti “venti milioni di cittadini” contro “duecentomila individui” privilegiati. I “cittadini” erano, perciò, sia il soggetto collettivo che muoveva il processo rivoluzionario sia l’oggetto della “dichiarazione dei diritti” che di quel processo era l’evento centrale (rif. op. cit. G. Damele).

Guardando ecologicamente alla cittadinanza sovviene l’insofferenza per quanto accaduto: una civiltà industriale che non ha concepito tutele per l’ambiente, non ha avuto/voluto avere lungimiranza, non ha concepito/voluto concepire alternative ad uno ed un solo sistema di produzione e riproduzione, privilegiando il possesso dei beni materiali e del denaro, imponendo una correlata gerarchia sociale. Già nella sezione seconda della Costituzione del 1791, dedicata alle “assemblee primarie” e alla “nomina degli elettori” dell’ “Assemblea nazionale legislativa”, sorgeva una delle questioni centrali della cittadinanza: la questione del censo. Contro le esclusioni in base al censo e allo “stato di domesticità, cioè di lavoratore salariato” dallo status di “cittadino attivo”, Robespierre pronunciò il celebre discorso del 20 aprile 1791, passato alla storia come il discorso del decreto “sul marco d’argento”, riprendendo la concezione rousseauiana della volontà generale per affermare il diritto di piena cittadinanza di tutti gli uomini “nati e domiciliati” in Francia. Già nel giugno 1790, del resto, Marat aveva redatto e pubblicato su «L’ami du peuple», una supplica in nome di “18 milioni di sfortunati”, nella quale alla contrapposizione tra poveri, esclusi dalla cittadinanza attiva, e ricchi si sovrapponeva la contrapposizione fra il popolo e un governo considerato troppo moderato, fra gli “amici” e i “nemici” della Rivoluzione. D’altra parte, la Rivoluzione non riuscì a dare adeguata risposta neanche al problema dell’estensione dei diritti di cittadinanza alle donne, benché le prime voci favorevoli ad essa si levassero dalle file rivoluzionarie. A Parigi, Olympe de Gouges, collegando, come in seguito faranno anche le suffragiste americane, le rivendicazioni per l’emancipazione giuridica femminile a quelle per l’emancipazione dei neri (condotte da circoli rivoluzionari come la “Société des amis des noirs”), presentò alla Convenzione una Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, contenente la richiesta di estendere alle cittadine il diritto di voto. Negli stessi decenni in Inghilterra, Mary Wollstonecraft pubblicò la Rivendicazione dei diritti della donna, nella quale prendeva posizione a favore dell’equiparazione giuridica tra i due sessi e contro i modelli educativi in epoca illuminista, che riservavano ai soli maschi l’educazione “razionale”, relegando le donne in una condizione di dipendenza non solo giuridica. Com’è noto, queste voci rimasero sostanzialmente inascoltate, tanto che le donne non raggiunsero una reale parità giuridica, rimanendo in una situazione di sostanziale dipendenza in seguito legittimata dal codice civile napoleonico, che sancì l’incapacità politica delle donne. Nonostante non siano mancate già nei primi decenni dell’Ottocento critiche nei confronti di un sistema giuridico penalizzante per le donne, si pensi alle presa di posizione di Charles Fourier, fu soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo che la lotta per i diritti e contro la discriminazione politica, giuridica e sociale delle donne acquistò vigore, soprattutto in ambito anglosassone, richiamandosi al fondamentale principio di eguaglianza del cittadino di fronte alla legge. Condotta da gruppi di donne raccolti intorno a redazioni di giornali femministi, come l’ «Englishwoman’s Journal», fondato a Londra, nel 1859, la rivendicazione per una piena cittadinanza venne condivisa da John Stuart Mill, che presentò nel 1866 una prima petizione per il diritto di voto alle donne e scrisse nel 1869 il saggio The Subjection of Women (La servitù della donna). Nonostante ciò, e nonostante qualche parziale successo soprattutto nell’ambito dell’emancipazione giuridica, le donne ottennero il diritto di voto nei principali paesi occidentali soltanto a partire dai primi decenni del XX secolo. In Italia solo dopo la seconda guerra mondiale (rif. op. cit. G. Damele).
Il bene “universale”, la “madre” di tutti i “beni comuni”, la terra, non ha sostenitori. La prima rivoluzione industriale incombe ed ha il suo “modello” unico di riferimento: il capitalismo. D’altro canto, nel corso dell’Ottocento, due sono state le principali “questioni”, accomunate nell’opposizione all’”individualismo” della tradizione illuministica e rivoluzionaria, alla luce delle quali è stato rimodellato il discorso sulla cittadinanza: la “questione sociale” e la “questione nazionale”. La prima, originata dalla rivoluzione industriale, ha avuto il suo fulcro nella ricerca della risoluzione dei problemi della disuguaglianza e del conflitto sociale e nell’estensione dei diritti di cittadinanza attiva alle classi subalterne. La seconda, che faceva essenzialmente riferimento ai tentativi, soprattutto tedeschi e italiani, di raggiungere l’unità politica della nazione, ha dato origine a nuove concezioni della cittadinanza anch’esse alternative al “modello francese” e focalizzate sull’appartenenza, su basi naturali e culturali (come quelle di unità etnica, linguistica o religiosa) all’entità collettiva della nazione. Soprattutto a causa della centralità assunta nel XIX secolo dalla “questione nazionale”, si è così giunti a una graduale identificazione tra nazionalità e cittadinanza, che ha spostato il perno del discorso sulla cittadinanza dai diritti soggettivi all’appartenenza collettiva. A quest’ultima è stata attribuita infatti un’importanza sempre maggiore, testimoniata dall’enfatizzazione dell’”impegno patriottico” come compito essenziale del cittadino. E proprio in polemica con l’identificazione della nazione con una comunità etnica, Ernest Renan, nella celebre conferenza pronunciata alla Sorbona l’11 marzo 1882, riprendeva la concezione volontaristica, di ascendenza rivoluzionaria, della cittadinanza, con l’intento di togliere importanza ai dati oggettivi della lingua, della religione e della razza, che “dividono” e contrappongono una nazione alle altre, per attribuirne alla scelta volontaria e consensuale di una collettività “costruita da sentimento dei sacrifici compiuti” e confermata attraverso un “plebiscito quotidiano”. Ma sarà proprio il problema dell’identificazione tra razza e cittadinanza una delle questioni fondamentali, e più tragiche, del XX secolo, durante il quale il concetto verrà declinato in chiave totalitaria, privandolo gradualmente dello status di garanzia posta a salvaguardia dei diritti individuali. Nel frattempo (1883), Friedrich Engels scriveva: “(…) l’animale si limita a usufruire della natura esterna, e apporta ad essa modificazioni solo con la sua presenza; l’uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi modificandola: la domina. Questa è l’ultima, essenziale differenza tra l’uomo e gli altri animali, ed è ancora una volta il lavoro che opera questa differenza. Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria” (cit. brano tratto dal manoscritto di Engels “Dialettica della natura”, Capitolo “Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia“, Giugno 1876).

Dietro il discorso sui diritti umani sembra nascondersi l’assassinio della natura, la trascuratezza estrema. Eppure è vero che con la rigorosa correlazione fra i parametri naturali del territorio, cioè roccia-suolo-acqua-clima-vegetazione, si contribuisce alla corretta comprensione dei processi evolutivi o degenerativi dell’ambiente, al fine di poter impostare azioni preventive o, all’occorrenza, razionali interventi di risanamento. Il paesaggio non è solo la sintesi degli elementi, naturali e umani, che compongono un territorio ma è l’istantanea di un insieme dinamico in cui questi elementi si rapportano l’uno all’altro secondo uno schema frutto della storia del luogo. Il paesaggio racchiude in sé sia la storia naturale del territorio sia le vicende e la cultura delle genti che lo popolano. Capire le forme del paesaggio, la distribuzione delle sue componenti e il rapporto che vige tra di esse equivale a dare un significato alle forme naturali e a vedere in che modo l’azione dell’uomo abbia modificato l’ambiente naturale e quindi, in sostanza, porta a comprendere perché il territorio ha l’aspetto che noi oggi osserviamo. Al di là del fattore estetico, dunque, il paesaggio ha un suo preciso significato la cui comprensione è imprescindibile per valutare correttamente qualsiasi intervento sul territorio, conservativo o di sviluppo che sia (rif. a Giuseppe Gisotti, “Le unità di paesaggio – Analisi geomorfologica per la pianificazione territoriale e urbanistica”, 2011).

Mi siedo, non esausto, sul muretto prospiciente il mare, ancora placido, rimuginando sul rapporto tra “natura” e “cultura”, tra ciò che ancora è possibile fare e realizzazioni storiche, tra i diritti universali e le indebite appropriazioni private; guardando il mare, prigioniero dell’uomo, penso a quanto c’è da fare nel transitare dalla cittadinanza costituzionale, passando per la cittadinanza digitale, alla cittadinanza tout court.
Giovanni Dursi

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