
Parlare e discutere di riforma della Costituzione presupporrebbe avere ben chiaro cos’è una costituzione e ancor più cos’è la Costituzione repubblicana che si intende riformare. E allora partiamo da qui, da quest’ultimo e spesso trascurato punto: la Costituzione del 1947, a differenza dello Statuto albertino, non è semplicemente un insieme di norme fondamentali sull’organizzazione e il funzionamento dello Stato; è molto più di questo e proprio per questo segna una rottura epocale nella storia italiana.
Le disposizioni sull’elezione delle Camere, sul rapporto fiduciario, sulla formazione del Governo, sulle competenze e sull’elezione del Capo dello Stato, sulla Corte costituzionale, sul Consiglio superiore della magistratura, sulle regioni e via elencando, hanno senso e rilievo, nel disegno costituzionale repubblicano, in quanto funzionali a definire un assetto dello Stato che renda questo in grado di concorrere, con i cittadini, le formazioni sociali e le diverse autonomie, alla realizzazione del programma costituzionale di liberazione e di emancipazione della persona umana.
È questo programma – strutturato intorno ai principi personalista, pluralista e lavorista – il nucleo essenziale della Costituzione, e il suo cuore battente è il secondo comma dell’art. 3, che stabilisce che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Come mostra l’art. 3, la Costituzione è un programma di emancipazione della persona, di realizzazione di condizioni di eguaglianza politica, sociale ed economica che consentano a ogni uomo e a ogni donna di liberarsi dal bisogno, dall’ignoranza, dalla sudditanza ad altri. Un programma che trova i suoi punti fondamentali nelle norme costituzionali sull’eguaglianza sostanziale, sulla pari dignità sociale, sui diritti al lavoro, alla salute e al salario, sull’assistenza e sulla previdenza sociale, sull’edilizia popolare, sulla scuola statale, sul prelievo fiscale progressivo, sull’utilità sociale come limite all’iniziativa economica privata, sull’espropriazione, sui vincoli alla proprietà terriera, sulla funzione sociale della proprietà privata.
Questo programma è un sistema di integrazione dei cittadini nello Stato, ovvero un sistema di rappresentanza politica, con il quale i costituenti intendevano rimediare alla tara storica dello Stato liberale italiano, l’esclusione delle masse popolari dalla vita dello Stato, che il totalitario progetto fascista di nazionalizzazione aveva confermato e aggravato.
A seguito della rottura della coalizione dei partiti politici che facevano parte del Comitato di Liberazione Nazionale e delle modalità con cui si realizza la ricostruzione del paese, quel programma di emancipazione e di liberazione nella libertà è congelato e messo in soffitta già subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione.
Quando si parla di inattuazione della Costituzione repubblicana si dovrebbe pertanto considerare che, se è vero che con l’operatività della Corte costituzionale nel 1956, del Csm nel 1959 e delle regioni nel 1970 si è registrato il progressivo scongelamento di organi ed enti di grande rilievo costituzionale, è altrettanto vero che la parte essenziale della Costituzione è rimasta congelata e inattuata. Lo dimostra, tra i tanti possibili esempi, il caso del principio lavorista: i costituenti avevano scritto gli artt. 1 e 4 perché convinti che la democrazia repubblicana avrebbe potuto vivere solo se gli organi statali avessero svolto una politica di massima occupazione e se i privati fossero stati obbligati a usare la loro autonomia nel campo dei rapporti produttivi in modo tale da offrire posti di lavoro e da non far venir meno l’occupazione già in atto, salvo ragioni oggettivamente apprezzabili.
La mancata attuazione della (parte fondamentale della) Costituzione ha reso questa inattiva come sistema di integrazione e di rappresentanza politica ‘a rime obbligate’, basato su quello che i giuristi chiamano indirizzo politico costituzionale, ossia sui principi e le norme della Costituzione. Con la conseguenza di scaricare sui partiti quel compito di integrare i cittadini nella vita delle istituzioni che, per Costituzione, sarebbe spettato allo Stato liberatore ed emancipatore e che lo Stato avrebbe dovuto attuare con il concorso democratico dei cittadini stessi anche attraverso i partiti (art. 49).
Da ciò è derivata una conseguenza che è un paradosso: ogni qual volta il sistema dei partiti si è trovato nell’incapacità di svolgere il suo ruolo di integrazione e di rappresentanza, è stato quasi automatico per il ceto politico parlare di inadeguatezza della Costituzione e additare nella riforma costituzionale la soluzione dei mali della democrazia italiana. Ogni qual volta un partito ha voluto rafforzare il proprio appeal elettorale senza saper proporre un’idea rappresentativa generale, capace di oltrepassare gli interessi di categorie, lobbies e potentati, è stato facile per questo o quel leader politico proporre una riforma costituzionale come specchietto per le allodole.
Questo è accaduto agli inizi degli anni ‘80 del secolo scorso, quando l’avvio della crisi del mondo fordista e delle sue identità collettive – insieme agli effetti di vincolo derivanti dal Sistema monetario europeo e all’attivarsi di significativi processi di finanziarizzazione dell’economia e di deindustrializzazione – indebolisce i canali rappresentativi a cui si erano fino ad allora affidati i partiti: agosto 1982, decalogo Spadolini per le riforme e creazione di due commissioni di studio; ottobre 1983, Commissione bicamerale Bozzi per le riforme costituzionali.
Si è ripetuto nel luglio 1992, quando la fine della contrapposizione atlantica al comunismo e la bufera giudiziaria di Mani pulite, rispettivamente, rendono inutili e spappolano i meccanismi di rappresentanza dei partiti della ‘Prima Repubblica’: istituzione della commissione parlamentare per le riforme istituzionali (presieduta prima da De Mita e poi da Iotti).
E ancora nel luglio 1994, quando Berlusconi e la Lega Nord si propongono come gli alfieri del superamento della ‘Costituzione bolscevica’ del 1947: nascita del Comitato di studio Speroni.
E poi nel gennaio 1997, quando di fronte agli effetti della globalizzazione, della finanziarizzazione dell’economia e della definitiva affermazione del modello produttivo e della logica organizzativa postfordista della rete e del just in time i partiti, incapaci di proporre soluzioni rappresentative all’altezza della crisi epocale della spazialità sovrana moderna e della fine della società salariale, si nascondono dietro il paravento dell’istituzione (sulla quale convergono Pds e Polo delle Libertà) della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali che sarà presieduta da D’Alema.
E poi ancora nell’ottobre 2001, quando quella stessa incapacità, unita alla volontà ‘identitaria’ ed elettoralistica di fare proprie, depotenziandole, le istanze del federalismo leghista, spinge i partiti del centro-sinistra all’approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione. Ed è la stessa combinazione di incapacità rappresentativa e di demagogia identitaria ‘decisionista’ a portare i partiti del centro-destra ad approvare nel novembre 2005 una riforma costituzionale che incide su oltre quaranta articoli della Costituzione (e in particolare sulla forma di governo, sul bicameralismo e sul sistema regionale) e che viene bocciata dal referendum popolare del giugno 2006.
E ancora nell’aprile 2016, quando per i partiti esistenti la sfida della rappresentanza politica è diventata un’asticella troppo alta da superare a causa del pieno dispiegarsi degli effetti della combinazione di globalizzazione neoliberista e digitalizzazione (finanziarizzazione compiuta dell’economia, messa al lavoro di ogni mondo e tempo di vita da parte del biocapitalismo, forbice tra aumento dei profitti e stagnazione degli investimenti, polverizzazione individualistica della società, peso crescente di assemblaggi sovranazionali di potere in funzione di logiche e razionalità che trascendono gli Stati) e il governo Renzi, in piena trance demagogica da populismo modernizzatore, riscrive la Costituzione con la riforma che sarà respinta dagli italiani con il referendum popolare del 4 dicembre di quell’anno.
E infine oggi, quando lo scenario ereditato dal 2016 è ancor più difficile da abitare per i partiti che governano – a causa dei vincoli derivanti dalla necessità di accedere alle risorse europee per il PNRR e dal riemergere, con la guerra in Ucraina, di logiche imperiali che non ammettono tentennamenti e autonomie nelle rispettive sfere di influenza – e il centrodestra rispolvera la riforma costituzionale come emblema identitario e come sostituto di un’azione rappresentativa all’altezza dei tempi.
Ancora una volta dunque i partiti si dedicano all’ingegneria istituzionale, invece che alla rappresentanza, sostenendo che solo una modifica delle norme sull’organizzazione e sul funzionamento dello Stato potrebbe consentire loro di rappresentare.
Ma giunti a questo punto, se guardiamo all’indietro, a questi quarant’anni di riformismo costituzionale, constatiamo che, a mano a mano che il neoliberismo e le innovazioni tecnologiche trasformavano in profondità gli assetti economici e sociali del paese, la classe politica riduceva il proprio ruolo di governo all’esecuzione di decisioni prese da altri e all’amministrazione di compatibilità e vincoli stabiliti altrove. E invocava con voce sempre più forte la necessità di riforme costituzionali per mascherare l’impotenza rappresentativa di cui è simbolo la legge costituzionale n. 1 del 2012, che ha introdotto in Costituzione l’obbligo del pareggio di bilancio. Legge su cui, non a caso, si è registrata la convergenza di una destra che affida la propria identità alla xenofobia e di una sinistra che riduce la propria alla difesa dei soli diritti civili.
Constatiamo cioè che la causa principale e decisiva dell’incapacità a rappresentare dei partiti – più ancora del progressivo peggioramento della qualità del ceto politico – è stato il considerare l’economia una sorta di ordine naturale in sé conchiuso, che non solo ha le sue proprie leggi e che non accetta leggi dall’esterno, ma che dà legge alla società e alla politica. Accettare la forza normativa del mercato significa rinunciare a rappresentare.
Difatti i costituenti, consapevoli che non ci può essere rappresentanza politica se è il mercato a dettar legge e a fare leggi, individuarono nell’economia il campo primario di intervento di una Repubblica intenzionata ad affermare, nella realtà materiale delle esistenze dei cittadini, l’eguale e libera dignità di ogni persona e a rendere effettiva la partecipazione di tutti gli italiani alla vita economica, politica e sociale del paese.
Giunti a questo punto, allora, non dovremmo pensare che la sola via d’uscita dalla crisi di rappresentanza politica che ci attanaglia da così tanto tempo sia tornare alla Costituzione ed attuarla come sistema di integrazione e di rappresentanza?
Percorrere quella via non è impossibile, basta riprendere finalmente a fare politica e riconoscere che la Costituzione repubblicana non è alle nostre spalle, ma davanti a noi, e che ci sta ancora aspettando.
Giuseppe Filippetta
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