
La riforma della Giustizia targata Cartabia procede spedita dato che, entro la fine di luglio, l’intero pacchetto dovrà essere approvato, o almeno prima che inizi il “semestre bianco”, cioè prima del 3 agosto, per poi passare al vaglio della Commissione Giustizia della Comunità Europea il che, se effettivamente saranno visti progressi sostanziali nelle procedure adottate per lo snellimento dei tempi processuali, l’Italia potrà incamerare una quota parte sostanziosa del Recovery Found.
Tengo a precisare che la celerità nei lavori non necessariamente è sinonimo di accuratezza, precisione, e questo assioma sembra trovare conferma nella levata di scudi di magistrati, avvocati, commentatori politici e, perché no, gente comune, contro le ultime proposte della ministra.
Nel serrato e spigoloso dibattito tutt’ora in corso, pochi giorni fa ha fatto la sua apparizione un istituto giuridico che, diciamolo francamente, non ha mai riscosso né un maggioritario gradimento degli operatori di giustizia né di un maggioritario consenso dell’opinione pubblica – destinataria ultima dei provvedimenti – semplicemente perché poco usato e mai spiegato nelle sue finalità.
Mi riferisco alle c.d. “Misure alternative alla detenzione” che vengono introdotte con la legge 26 luglio 1975 n. 354 e recepiscono, in sostanza, l’esperienza giurisprudenziale anglo sassone che ne ha sempre fatto largo uso, dato che il loro sistema giuridico il “Common Law”, nato nel 1066, non si è mai basato su leggi o atti normativi scritti a differenza degli altri Paesi che si sono ispirati al diritto romano.
Fatta questa doverosa digressione storico-giuridica, vediamo in cosa consistono queste misure alternative, e le sue finalità, anche alla luce di quanto stabilito dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa: ”Sono sanzioni e misure che mantengono il condannato nella comunità e implicano una certa restrizione della sua libertà attraverso l’imposizione di condizioni e/o obblighi che sono eseguite dagli organi previsti dalle norme in vigore” [1].
Il nostro ordinamento giuridico, ha individuato e regolamentato proprio con la legge n.354, queste misure alternative alla detenzione che sono:
– L’affidamento in prova ai servizi sociali (se la pena inflitta non supera i 3 anni)
– La semilibertà (se la pena inflitta non supera i 6 mesi)
– Liberazione anticipata (detrazione di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata)
– Detenzione domiciliare (concessa se compiuti 70 anni di età purché non dichiarato abituale
delinquente)
Presentate in questo modo, nessuno avrebbe il coraggio di gridare allo scandalo anche perché la Guardasigilli Cartabia già più di una volta aveva ripetuto che: ”Il carcere non può essere l’unica risposta al reato” [2] ma non è così come appare e così si è scatenato un putiferio di contestazioni sulle misure alternative al carcere.
Queste ultime sono allargate anche a coloro che sono condannati a 9 anni di reclusione rendendo di fatto l’ingresso in carcere non più una certezza ma una deprecabile eventualità.
In breve, non sembra azzardato parlare di provvedimento “svuota carceri” dato che, alcuni dei reati che possono prevedere fino a 9 anni di carcere, e per di più non sono proprio da prendere alla leggera. Eccone un esempio:
– Concussione art. 317 cp da 6 a 12 anni
– Corruzione in atti giudiziari art.319 cp da 6 a 12 anni
– Associazione con finalità di terrorismo art. 270bis cp da 7 a 15 anni
– Prostituzione minorile art. 600bis cp da 6 a 12 anni
– Violenza sessuale art. 609bis cp da 5 a 10 anni
– Associazione a delinquere art. 416 cp da 5 a 15 anni.
Insomma, non mi pare si possa essere tranquilli anche perché con un bravo avvocato si potranno depennare diversi anni. Interessante il calcolo fatto dalla giornalista Valeria Pacelli: ”Facciamo un esempio. Un uomo viene condannato a 9 anni. È incensurato e con le attenuanti generiche la condanna passa a 6. Ma ha anche scelto il rito abbreviato e ottiene un ulteriore sconto di pena di un terzo. Si arriva così a una condanna finale di 4 anni” [3].
E questa sarebbe parte della tanto attesa riforma che ci permetterà di abbreviare i tempi dei processi? No, quello che penso è che potremmo essere difronte ad un semplice quanto ben fatto rimescolamento di carte per favorire le “forze sane” della nazione che a breve, incassando i soldi del Recovery e che potrebbero trovarsi invischiati in qualche bega legale e quindi è bene tutelare in anticipo gli esponenti di quei poteri e quelle categorie che dovranno con le loro attività confermare la bontà delle scelte governative per far rinascere l’Italia.
Non è quindi una coincidenza il costante invito del presidente del Consiglio alle forze politiche, di dare in Parlamento un leale sostegno allo sforzo della ministra Cartabia finalizzato alla velocizzazione dei processi?
Ma questa esortazione non sembra aver fatto breccia almeno nei confronti degli operatori di giustizia, cioè i magistrati. Basta leggere quanto riferito da Matteo Frasca, Presidente della Corte d’Appello di Palermo in una lunga intervista che qui riporto in sintesi: ”La prescrizione non può essere utilizzata come strumento per assicurare la ragionevole durata del processo, che è un principio fondamentale che deve essere attuato dal legislatore. La ragionevole durata del processo deve essere funzionale alla loro celebrazione e non alla loro morte. Se in Italia il processo avesse una durata ragionevole, pensa che ci sarebbe il dibattito sulla prescrizione? Non avrebbe ragione d’essere”.
Anche qualche leader di partito sembra essere poco convinto sulla necessità di queste “misure alternative” e, guarda caso, il primo ad esternare il suo disappunto è l’onnipresente Salvini, fedelissimo di Draghi – almeno così lui si accredita – che in una recente intervista ha detto: ”Ragionare su alcune pene alternative ci sta, ragionare sulla formazione professionale ci sta, però svuotare le carceri con colpi di spugna no” [4] strizzando l’occhio al suo elettorato più fedele.
Insomma si accumulano molte obiezioni e questo anche sulla presenza ormai data per scontata della “regola della improcedibilità”, ritenuta dalla ministra Cartabia la vera arma vincente per accelerare l’iter processuale.
Proprio su questo versante della disputa, mi sembra interessante ricordare le riflessioni dell’ex magistrato Nicola Ferri – ex Sostituto procuratore a Napoli e membro del CSM, firma del “Corriere della Sera” e ora de’ “Il Fatto Quotidiano” – il quale punta il dito sul fatto che una corretta accelerazione delle fasi processuali non può avvenire stroncando con l’accetta i tempi fisiologici ma potrebbe essere aiutato dall’adozione, in via ricorrente, di strumenti come il “giudizio per direttissima” nei casi di prova evidente, oppure fornendo al giudice di primo grado strumenti idonei a bloccare gli appelli inammissibili o, addirittura, manifestamente infondati.
Siccome non vi è traccia della possibile adozione di questi procedimenti – ricordo velocemente che il “giudizio per direttissima” porta ad anticipare il processo, facendo risparmiare tempo ed energie – il vero problema, suggerisce Ferri, è verificare se nel complesso il nuovo sistema che si sta affacciando sia conforme alla Costituzione.
La risposta, dal suo punto di vista, è negativa perché collide con il principio della obbligatorietà dell’azione penale previsto dall’articolo 112 della Costituzione stessa, azione che non può trovare ostacoli procedurali terminando quindi il suo iter solo quando interviene una sentenza definitiva di condanna o assoluzione.
D’altronde questo sacrosanto principio era stato già stabilito dalla Corte Costituzionale in una sua sentenza nel lontano 1993, sentenza vale la pena ricordare richiesta dalle parti di un processo nel quale si lamentava il non rispetto da parte del Pubblico Ministero dei tempi di deposito della lista dei testimoni. In questa occasione ebbe modo la Corte, di ribadire che ”fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità e che ad un ordinamento improntato al principio di legalità – che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate – nonché al connesso principio di obbligatorietà dell’azione penale non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione” [5].
Mettendo insieme tutti questi elementi, sia ha quasi la sensazione che da parte del governo si voglia scientemente navigare contro corrente, incuranti delle pesanti onde che devono affrontare; onde che potrebbero anche far capovolgere l’imbarcazione dall’apparente solida stazza se l’equipaggio decidesse – in un sussulto di realismo – di impostare una nuova rotta.
Stefano Ferrarese
Note:
[1] Comitato Ministri del Consiglio d’Europa – Raccomandazione (92) 16 del 19/10/1992
482° riunione dei Delegati dei Ministri
[2] Liana Milella “la Repubblica” 15/7/2021
[3] Valeria Pacelli “I colpi di spugna della Cartabia” – “Il Fatto Quotidiano” 16/7/2021
[4] Valentina Stella “L’altolà di Salvini” – “Il Dubbio” 18/7/2021
[5] Sentenza Corte Costituzionale n.111 del 1993 – paragrafo 7
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