
Stefano Orlandi ha fatto di nuovo centro con il suo Roba minima, s’intend!
Ha tenuto banco insieme alla sua band in uno spettacolo raffinato, che è insieme recital e canzone. Ha tenuto per mano un pubblico attento, fatto di cultori del grande Enzo Jannacci e neofiti come me, che hanno scoperto grazie a Orlandi grandi canzoni, condite di impareggiabile ironia e da una vena di malinconia.
Stefano Orlandi non canta soltanto, dà vita con le sue interpretazioni ai personaggi evocati dalle note. Lo fa con un gusto e un senso del divertimento che trascina, con capacità da attore consumato. Perché come ha detto lui stesso.
In un attimo le canzoni di Jannacci prendono corpo. Per un attore è veramente un godimento.
Sono canzoni che hanno un corpo d’attore. Si sente che sono scritte da una persona che non era solo un cantante. Era un saltimbanco, un medico una persona con un’intelligenza, una curiosità, una follia, particolare. Quindi per un attore è proprio divertente.
Sono canzoni da interpretare, che hanno un corpo, un’anima, che hanno dietro un uomo, una persona. Sono tutte storie che hanno un personaggio dietro.
Fedele a questa affermazione vediamo che Orlandi porta in scena le canzoni dando loro corpo, dando vita, di volta in volta, agli stessi personaggi cantati.
Così vediamo comparire il vecchio che lasciata la casa di ringhiera si trova in un condominio spersonalizzato, e troverà la cara confusione e rapporti reali solo nelle baruffe delle riunioni condominiali. Lì viene fuori la grande capacità d’attore di Stefano Orlandi, che per un momento si trasforma in un più che credibile vecchio, dalle movenze lente e impacciate. Sono figure vere e reali quelle evocate, figure di una Milano che non c’è più.
Altrettanto credibile appare Orlandi nel dare vita all’uomo deciso, che non ha paura di niente, neanche di sé.
È un pezzo surreale.
L’uomo si sente spiato da se stesso, e punisce il se stesso con ferma determinazione, sfregiandosi. Grande attore, grande interpretazione, accompagnata dalle risate di un pubblico attento e partecipe.
Ma anche le canzoni più semplici non sono tali, come spiega l’attore cantante.
È incredibile come certi pezzi che sembrano poco più che dei giochi, delle cose quasi di intrattenimento, di cabaret, in realtà hanno una profondità, un doppio livello di interpretazione che è straordinario. La cosa bella di Jannacci è la coerenza, giocata con una profondità incredibile.

Così ascoltiamo in un percorso coerente canzoni come Faceva il palo, La ballata del pittore, e poi ancora Vincenzina e la fabbrica.
Orlandi non smette di sorprenderci. Gioca con noi. Cita, senza scoprire le carte, le collaborazioni di cui ha goduto Jannacci, da Walter Valdi grande cabarettista milanese degli Settanta, all’amico fraterno Beppe Viola.
Orlandi segnala ma non svela. Dedica a ogni autore citato una porzione diversa del palcoscenico. Da ogni postazione racconta, da cantastorie moderno, le sue storie. Racconta le storie di Franco Loi e Testori che hanno amato Milano.
E di Giovanni Testori sceglie un brano struggente che racconta la fortuna di una coppia con quattro figli, del loro tenero amore coniugale.
Dal raccontino mi allaccio a una canzone di Jannacci che è La Costruzione. Quella del morto sul lavoro, che è una canzone di Cicho Buarque, cantautore brasiliano. Il pubblico non se ne rende conto. Ma c’è un passaggio dal racconto alla canzone che inizia proprio dal parlato: E quella volta amò come se fosse l’ultima. Quello è già l’inizio della canzone, anche se sembra la fine del racconto.
Si tratta di un repentino cambiamento di piani narrativi, quello che ci scaraventa nella sofferta poetica di La Costruzione. Cambiamenti di direzione comunque sapientemente gestiti da Orlandi, che si è raccontato con grande entusiasmo.
La cosa che mi piace, e che comunque costituisce il mestiere dell’attore, è vivere e interpretare quelle canzoni e quei personaggi tutte le volte che mi ritrovo sul palco. Sono canzoni cariche d’emotività, per cui trasmettere quel sentimento è la cosa più affascinante più bella e difficile. Per quanto è difficile fare sinceramente e onestamente il mestiere dell’attore, cioè non bleffando.

Abbiamo apprezzato la grande maestria di Orlandi di costruire un percorso canoro, letterario e poetico, coerente. Prendendosi anche delle libertà, ma sempre però attento a restituire la dimensione più autentica di un grande autore come Jannacci.
Riconosciamo ad Orlandi l’enorme destrezza nel trasformare il suo spettacolo in una grande festa, in cui sul finale ha cantato, insieme al pubblico, le travolgenti Ho visto un re e Vengo anch’io. Ma questo Orlandi lo sentiva come un atto dovuto, un dovere.
E sì! Mi sembrava doveroso. Perché la gente viene a queste serate, non perché ha l’abbonamento. Viene a sentire Jannacci. Durante lo spettacolo mi prendo la libertà di dare anche degli sguardi un po’ inediti magari spiazzando con alcuni pezzi. Magari qualcuno si chiede ma è di Jannacci quel pezzo? Come nella straordinaria Si vede. Canzone in cui lui guarda dal balcone, e si accorge che lei non lo ama più, perché torna con un ombrello che non è quello che le ha regalato lui. in questa immagine c’è tutto Jannacci. È una canzone che sembra folle, con delle stonature. E poi sprofonda in una malinconia, in una tristezza, in una difficoltà del vivere che è tutto Jannacci.
Magari durante il percorso cerco di spiazzare un po’ il pubblico, anche con una parte centrale un po’ più intima con canzoni come El me indiriss, o Il telegrafista, che sono un po’ più lente.
Però mi sembra doveroso alla fine cantare insieme Ho visto un re, Vengo anch’io.
Robe minime, storie minime quelle di Jannacci portate in scena, delicate e lievi, tristi e malinconiche giocose e con uno sguardo pieno d’amore per un’umanità che l’artista sentiva come accomunata da una insopprimibile fratellanza. E di questo di dice convinto Stefano Orlandi. E lo dice senza reticenze, in modo reciso, con il tono di chi non ammette repliche.
Jannacci è senza alcun dubbio attuale. Parla dell’uomo al di là di ogni tempo. È veramente politico nel senso più alto. Quando parla della povera gente, parla della povera gente magari degli anni Sessanta. Adesso è altra povera gente, ma c’è ancora la povera gente.
Ci sono dei pezzi che sono…
Nel dire queste parole Stefano Orlandi sospira profondamente. Prima di fare gli ultimi regali.
Brutta gente che cammina…
È una canzone che non faccio. Ogni volta che la sento vorrei fare un’altra serata, completamente con altri pezzi. C’è spazio per farne dieci di serate, coerenti. Un mio sogno sarebbe quello di fare uno spettacolo in un bel teatro. Una volta concluso andare in un localino, e fare in forma jazz tutte quelle che non abbiamo potuto fare prima. Ecco se tu senti una canzone come Gli Zingari, e io l’ho risentita pochi giorni fa, ti vengono i brividi nel momento in cui canta Quando gli zingari guardavano il mare… E se tu metti quelle parole pensando ai migranti di oggi…
He… Madò… Mi viene un’emozione… È pazzesca, è pazzesca.
Poi aveva un uso del linguaggio mai retorico.
Mi hai colto in un momento in cui lo sto riscoprendo. Credo sia assolutamente da riscoprire.
Lo crediamo anche noi.
Abbiamo ascoltata Gli Zingari. Abbiamo pianto.
Grazie Orlandi.
Teatro Manzoni – Milano
28 gennaio 2020
Roba minima, S’intend!
Concerto malincomico
Stefano Orlandi
di Stefano Orlandi
Canzoni Enzo Jannacci
Contaminazioni letterarie di Beppe Viola, Franco Loi, Giovanni Testori, Walter Valdi
Chitarra Massimo Betti
Contrabbasso Stefano Fascioli
Fisarmonica Giulia Bertasi
Scene Maria Spazzi
Costumi Federica Ponissi
Luci Alessandro Verazzi
Immagini Pietro Paroletti
durata 120′ senza intervallo
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