
Le istituzioni pubbliche hanno un dovere ben preciso: educare al gusto. Perché educando al gusto e accompagnando a separare il bello dal brutto aiutano a comprendere, a distinguere ciò che ha senso da ciò che non lo ha. È doveroso separare la paglia dalla pula e con la mostra Robert Capa nella storia questo avviene.
Peccato per l'accessibilità che ancora rimane un tasto dolente. Per non dilungarmi eccessivamente potrei dire che per le persone disabili la mostra merita un sei meno. Pesanti le porte di ingresso che non si possono aprire in autonomia, mancanza di audio guide per le persone cieche sono i principali difetti.
Ho avuto il piacere di visitare la mostra in compagnia del fotografo Pietro Masturzo. La sua è stata una presenza discreta e schiva, ma con una capacità di lettura degli scatti fotografici di gran lunga superiore alla mia. D'altronde la fotografia è il suo pane, lui nei teatri di guerra c'è stato. Sa che cosa significa fare fotografia in contesti pericolosi come Palestina e Iran, e là dove le guerre esplodono di continuo.
La mostra realizzata in collaborazione con l'agenzia Magnum Photos è ben allestita. Non c'è quel fastidioso riverbero che i fari creano sbattendo luci violente sugli oggetti in esposizione. Facendo sì che piuttosto che ammirare le opere si contempli sempre un'immagine deformata di sé stessi specchiata nei vetri.
Robert Capa ungherese di nascita e americano di adozione è il padre nobile del fotogiornalismo. È tra i fondatori dell'agenzia Magnum una delle più importanti agenzie fotografiche del mondo. È stato presente tra gli anni Trenta e Cinquanta nei principali teatri di guerra del mondo, anche se sono interessanti i suoi scatti glamour comparsi su Life e altre riviste internazionali, che però al Mudc non erano esposti.

La mostra inizia con un bel ritratto di Trotskij dove attraverso la mimica appare evidente la sua retorica esasperata. A fianco c'è un ritratto di Robert Capa, sembra Vlad il vampiro da giovane. Capa fotografa grandi e i piccoli, gli umili e gli importanti.
Tenero lo sguardo sull'infanzia. C'è l'immagine di una bambina appoggiata a un sacco. Quanti anni può avere? Probabilmente è ancora nell'infanzia o poco più. Ha un occhio vispo e vigile. La fotografia è tutta in quell'occhio, in quella lanterna di luce. Chissà chi era. Era la storia. Mi ha sempre impressionato la capacità della fotografia di congelare i momenti, di renderli eterni. Quei visi, quelle emozioni vivranno nello scorrere del tempo.
Accanto alla bambina altri ritratti, visi di chi fuggiva dalla Spagna in cui le truppe franchiste avevano preso il potere. Sono visi pieni di dolore, pieni di pianto. Hanno creduto nella possibilità di vittoria della Repubblica ormai sconfitta.
Con Morte di un miliziano lealista sono davanti alla storia della fotografia. Chi era? Ne conosciamo il nome, si chiamava Federico Borrel Garcìa. Ma non sappiamo chi aveva amato, chi lasciava, chi si sarebbe ricordato di lui. È vestito di bianco. È ripreso nell'atto della morte. Sì, anche la morte è un atto: l'atto del morire. Che cos'hai in testa? È il cervello che esplode sotto i colpi della mitragliatrice?
Con una vecchia signora in visita alla mostra abbiamo cercato il significato di Miliziano lealista, così viene descritto il soldato morente nel cartellino che illustra la foto. Speravamo tutti e due che fosse a favore della Repubblica. Volevamo a tutti i costi che il nostro mito di giustizia e di resistenza al fascismo non fosse corrotto da attribuzioni sbagliate. Sì, i lealisti erano contro Franco. Erano leali alla Repubblica.
C'è un ritratto di Leon Blum sorridente. In Francia come in Spagna aveva vinto il Fronte Popolare. A ben pensarci è straziante constatre che nonostante questo il fascismo, il nazismo, e alla fine il buio oscurarono l'Europa e il mondo.

Tra le foto scattate in Cina c'è ne è una che fissa bambini che giocano nella neve. Ricordo quando portavo i bambini in cortile a tirare le palle di neve, al ritorno in classe appendevamo calze, guanti e cappelli ai caloriferi. Cambiano i tipi umani, cambiano le latitudini, ma i sorrisi dei bambini, crudeli e innocenti, rimangono gli stessi. Ci sono i ritratti di Chiang Kai-shek e della moglie. Pietro mi fa osservare che sono ripresi dal basso verso l'alto. Probabilmente Capa ha usato una Rolleiflex. È una macchina fotografica che si deve tenere all'altezza del bacino. Per questo dà quel caratteristico senso della ripresa.
E poi quella di un gruppo di bambini che si accalca intorno a un soldato americano ad Agrigento. È proprio vero, i bambini nella loro curiosità si nutrono di ogni cosa, come le capre. Ci sono donne in Italia che piangono al funerale di venti giovanissimi partigiani. Quella foto ricorda alcuni scatti di Shobha e Letizia Battaglia, le donne che piangono i morti per mafia. Allo stesso modo ricorda gli scatti di Pietro Masturzo in Palestina, ai funerali dei giovani caduti per le pallottole delle forze di sicurezza israeliane. Il dolore e le lacrime delle donne sono sempre le stesse. Sono le lacrime delle supplici di Euripide davanti alle porte della città che implorano la sepoltura dei figli.
Pietro mi racconta di Tim Hetherington, un fotoreporter americano che ha vinto il World Wide Press nel 2008 per le foto di soldati americani in Afghanistan. È morto anche lui a quarantuno anni come Robert Capa.
Civili che tornano a casa. C'è un senso di desolazione straordinario in questa foto. So che la guerra puzza di merda. Quel giorno quali odori sentivano attorno a loro quelle due figure solitarie che si trascinano colte nella loro fatica. Il cielo è plumbeo così come lo sono i colori delle macerie polverizzate a bordo strada. Lui indossa un cappello. E lei?
Ho visto le foto dello sbarco a Omaha Beach in Normandia. Quelle foto sono la concreta rappresentazione di come si possa diventare famosi con un lavoro sbagliato. Quelle foto nel tempo sono diventate talmente iconiche da rappresentare da sole la guerra e tutte le guerre, come la bambina che fugge in Vietnam urlando per le ferite del napalm sulla pelle nuda. Le foto dello sbarco in Normandia per un errore dello sviluppatore sono illeggibili, su centinaia se ne salvano solo undici. E quelle undici sono leggermente fuori fuoco. Sarà poi quello il titolo della biografia di Robert Capa, Slightly out of focus. Libro dalla scrittura nervosa e avvincente.
La versatilità di Robert Capa si mostra evidente nello scatto probabilmente studiato a tavolino in cui ritrae Pablo Picasso che scende dalle scale. Ci sono dei tagli di luce e di ombre che disegnano geometrie perfette. Foto così mi fanno solo arrabbiare. Non si può essere così bravi. Lo sento come un insulto alla mediocrità.
Contadini tedeschi in fuga. Anche qui si respira il senso di desolazione. Ancora una volta è la povera gente che fa le spese di una politica cieca, dell'assenza di politica. Poi c'è la Berlino del quarantacinque, e ancora macerie, biciclette su strade pulite e macerie accatastate lungo le strade. Una chiesa è crivellata dalle esplosioni delle bombe, i palazzi sono dita scarnificate e contorte.
Le macerie a Berlino e quelle che si vedono nelle foto scattate da Capa a Kiev non sono differenti. Così come non è differente la sofferenza della povera gente.
Accanto al dolore Capa ha la capacità di ritrarre la vita che rinasce, momenti di piccola quotidianità, il lavoro, la festa, l'intimità di una famiglia. Una donna raccoglie la paglia. Si direbbe l'apoteosi del realismo socialista ma con uno sguardo introspettivo che annulla la retorica e restituisce uno sguardo intimo. Poi c'è Stalingrado. Una fontana è intatta, nel gesso delle statue si vede un girotondo di bambini. Le macerie sono le stesse dappertutto. Immigrati europei assiepati contro il parapetto. Nei loro occhi c'è la speranza di una nuova vita. L'Europa e l'Occidente cercano di salvarsi la coscienza dando una terra a un popolo e togliendola contemporaneamente a un altro, i palestinesi.
Pietro c'è stato in Palestina. I suoi scatti illustrano una situazione devastante. Parliamo delle stragi compiute dall'esercito israeliano a Gaza in occasione della Grande Marcia del ritorno. In un solo giorno, il 14 maggio del 2018, furono uccise cinquantaquattro persone. Parliamo di Shireen Abu Aklen giornalista di Al Jazeera uccisa a Jenin in Cisgiordania uccisa da colpi d'arma da fuoco sparati dalle forze di sicurezza israeliane come individuato da una commissione d'inchiesta dell'ONU, e secondo alcune voci autorevoli deliberatamente Assassinata.
Tra una foto e l'altra affrontiamo temi scottanti.
I tempi di Robert Capa erano tempi da pionieri, in cui la testimonianza della fotografia era essenziale. Oggi è un tempo in cui siamo invasi dalle immagini. Qual è il senso del fotogiornalismo se basta scrollare sui nostri cellulari per passare da un'immagine all'altra, guardando con occhi distratti le immagini in cui l'ultima delle starlet assume lo stesso rilievo dello strazio di un popolo? Oggi i fotoreporter e i giornalisti sono perlopiù embedded (al seguito di un esercito, accettando limitazioni di movimento e di espressione, ndr), per cui bisogna essere ancora più bravi per restituire senso e dignità all'orrore e a ciò che accade. Che cosa può fare la differenza se tutto diventa merce e consumo?
al Mudec-Museo delle Culture di Milano, fino al 19 marzo 2023
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