Al cinema con Roberto Chiesi. Pasolini, Fellini e la passione per il grande schermo.

Roberto Chiesi
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Roberto Chiesi, bolognese, classe 1966, è un acuto conoscitore del cinema italiano e non solo. Scrittore accurato, conferenziere brillante e conversatore intrigante ed informato, è studioso di molti autori, che analizza con uno sguardo esteso e curioso. Oltre ad aver curato molte edizioni DVD – dalla Bergman Collection della BIM a quelle restaurate dalla Cineteca di Bologna – ha scritto diverse importanti monografie, da quella su Jean-Luc Godard a quella sul cinema noir francese, da quella su Bergman all'altra su 8 ½ di [1]. Soprattutto, però, è impegnato da anni come responsabile del “Centro Studi – Archivio ” della Cineteca di Bologna, nonché membro del comitato direttivo (e di quello scientifico) della rivista Studi pasoliniani. Insomma, è – mi sia perdonato il termine – un “pasolinista” autorevole.

Nell'anno del centenario, ha contribuito – tra l'altro – alla originale mostra bolognese Pier Paolo Pasolini. Folgorazioni figurative, che ho visitato a giugno 2022 [2]. L'ho poi incontrato in Germania in occasione di un convegno internazionale – del quale ho già detto qualcosa – nel quale ha tenuto una bella relazione su Corpo sacro, corpo vile. La corporalità “politica” nell'ultimo cinema di Pasolini. Ha pubblicato infine – a novembre dello scorso anno – un denso saggio con l'editrice Vallecchi di Firenze, dal titolo Pasolini. Il fantasma del presente (1970-1975), arricchito da una partecipata introduzione di Dacia Maraini.

Dalla visita della mostra, dall'ascolto della sua relazione e dalla lettura del suo saggio ho personalmente tratto molti motivi di interesse e curiosità ed ho pensato che non ci fosse strada migliore da percorrere che approfondirli, interrogando l'autore. Anche se non solamente di Pasolini abbiamo parlato.

Sei diventato uno studioso noto ed autorevole anche per i tuoi ricchi ed intriganti interventi su Pasolini, del quale ti occupi professionalmente da molto tempo, ma – così a me sembra – la tua passione personale per il cinema è più estesa e senza restrizioni di genere o di ambito. Come nasce?
Hai colto perfettamente. Nasce nella notte dei tempi; per quanto mi riguarda, è una passione che credo sia nata appena ho aperto gli occhi e ho scoperto che esistevano dei luoghi di culto che si chiamano sale cinematografiche. Da quel momento – quindi è veramente da tantissimo tempo – il cinema è stato una dimensione per me ideale. Una passione veramente da sempre. Faccio fatica perfino a ricordare il primo momento, potrebbe coincidere col primo vagito. Pensa che la prima casa dove ho abitato aveva proprio a brevissima distanza una sala cinematografica: una sala grande che si trovava in realtà in una strana zona al confine esatto tra Bologna e Casalecchio di Reno. C'era un vialetto verde con le colline; non mi voglio dilungare, perché potrebbe diventare come una Recherche (o un Amarcord). Ma il fatto è che la sala fosse proprio quasi attaccata a una collina, in un bosco… Il cinema e questo paesaggio favoloso per me sono diventati tutt'uno. Dove finiva la collina, iniziava il cinema.

So che invece il tuo incontro con Pasolini origina – un po' fortunosamente – dall'amore per i film di Totò e dalla visione di Uccellacci e uccellini, un film che ha folgorato anche me. Che tipo di “epifania” è stata?
Quando ho visto il film integralmente all'epoca, non avevo neanche dodici anni; era nel 1978. Mi sono ricordato, allora, che ne avevo già visto alcune scene, vari anni prima, quando il film venne trasmesso nel '71 dalla tv ed io non sapevo ancora chi fosse Pasolini. È stata una delle rare trasmissioni televisive con Pasolini ancora in vita, contro la quale – fra l'altro – lui aveva tuonato e si era lamentato di questa diffusione alla tv, non l'aveva apprezzata per niente. A me in particolare aveva colpito la sequenza dei contadini poveri, umiliati da Totò e da Ninetto – poveracci a loro volta – che si recavano nel casale pretendendo i soldi dell'affitto. Ecco, quell'episodio mi aveva mi aveva profondamente impressionato, anche se in realtà è probabile che all'epoca in cui vidi questa sequenza, nemmeno sapessi chi era Totò. Forse ne avevo una vaga idea, ero veramente molto piccolo, avrò avuto quattro o cinque anni. Così, rimasi folgorato da Pasolini ancor prima di sapere chi fosse. Poi l'ho riconosciuto quando ho visto il film integralmente e lì mi sono proprio innamorato di questo immaginario. Come hai detto tu, ci sono arrivato attraverso la passione per Totò, perché Totò era uno degli attori che amavo di più. Non avrei probabilmente guardato il film, se non fosse stato per Totò. Pasolini in realtà allora non mi ispirava. Una volta saputo – molto vagamente e approssimativamente – chi fosse in realtà, devo confessare che non mi attirò particolarmente, anzi mi respinse. Ricordo queste immagini di lui che giocava a calcio, per esempio, sport verso il quale allora provavo antipatia. E poi mi aveva colpito questa espressione dura del volto.

Ti ho raccontato che da ragazzo – quando la tv trasmise Accattone – i miei genitori, qualche minuto dopo l'inizio del film, decisero che non fosse il caso di proseguire nella visione, ritenendola inadatta? Cosa che da un lato mi spingeva alla curiosità verso l'oggetto della censura, dall'altro mi trasmetteva una certa dose di imbarazzo sociale verso quell'autore che ho capito solo qualche tempo dopo…
Ho condiviso personalmente una cosa analoga a quello che hai appena detto. Quando Pasolini venne assassinato – e ricordo molto bene tutto il clamore, anche se ero piccolo – la mia famiglia frequentava dei parenti che erano un po' ai nostri antipodi, piuttosto reazionari e moralisti. Rimasi assai influenzato dal loro moralismo. Alla base dell'”avversione” o comunque delle riserve che avevo verso Pasolini ci fu questa influenza, che ora carico su di loro. In famiglia si viveva un atteggiamento diverso, di non particolare attenzione verso questo episodio, così rimasi colpito dalla reazione negativa di questi altri parenti. Apprezzare Pasolini è stato per me anche un modo per affrancarmi da una visione e dal moralismo con cui la società italiana lo giudicava.

Roberto Chiesi
Roberto Chiesi

Su Pasolini dovremo ritornare tra poco. Volevo però chiederti ancora qualcosa sul tuo rapporto col cinema in generale, perché so che hai visto recentemente, tra gli altri – e che hai apprezzato – Avatar. La via dell'acqua. Come pure Pinocchio di Guillermo Del Toro. Sono piaciuti anche a me e mi hanno fatto riflettere sull'utilizzo della tecnologia nel cinema. Del Toro riprende la tecnica (antica) della stop-motion, mentre James Cameron ci proietta ancora una volta su questa frontiera affascinante (e sempre più di alto livello) del cinema realizzato con la motion capture. Possiamo fare qualche ragionamento o previsione sul futuro del cinema a partire dalla tecnica? Qualcuno sostiene che il cinema sia diventato una cosa diversa da come dovrebbe essere, anche se a me sembra che la tecnica, nel cinema, ci sia sempre stata, fin dal cinema muto.
Mi trovo molto d'accordo con te: i titoli che citavi sono entrambi cinema, anche se in modo diverso: sono film che esaltano il meraviglioso, il cinema proprio come una Wunderkammer, però con la particolarità che è un meraviglioso e che è radicato nella realtà. In Avatar, al di là delle creature fantastiche, c'è questo grande deuteragonista, il paesaggio naturale: il mare, le profondità marine, la fauna, la flora subacquea e poi i paesaggi anche all'esterno, ma soprattutto quelli subacquei. Io l'ho trovato di una bellezza figurativa, di un fascino, di un respiro epico non banale, originale, avvincente, drammatico, con una grande tensione. L'ho trovato veramente un bellissimo film. In Pinocchio, d'altra parte, il meraviglioso è invece radicato nell'opera in un modo concreto, in un mondo di luoghi, di paesaggi, nel tempo dell'Italia fascista. C'è questa idea molto interessante di Del Toro di ambientarlo durante il fascismo in Italia, nel mondo provinciale dell'Italia dei borghi. Io credo assolutamente che sia cinema: il cinema – come hai detto tu – fin dall'inizio, fin dalle origini, può essere anche questa arte del meraviglioso. Come può essere anche il cinema documentario, il cinema di denuncia, ecc.: sono diverse declinazioni che possono tutte essere ugualmente cinema. Mi ha colpito un certo snobismo da parte di alcuni soprattutto nei confronti di Avatar, come se questo grande successo fosse una specie di colpa. Poi fra l'altro è un film anche molto personale, nel quale si ritrovano perfettamente tutte le caratteristiche del cinema di Cameron: è un'opera nella quale lui è riuscito a fare un film di grandissimo spettacolo ma al tempo stesso assolutamente personale.

È quasi un tic culturale, per cui quando una cosa è troppo di successo dobbiamo scoprire cosa c'è che non va. Sempre ragionando del presente e del futuro, grazie a Netflix (purtroppo o per fortuna) ho potuto scoprire (con un certo infantile entusiasmo) la magia di Rajamouli e il mondo di Tollywood, questa costola per nulla trascurabile della cinematografia indiana. E a questo proposito, ti chiederei due cose: la prima riguarda la permeabilità tra culture, ora che ci è consentito facilmente di accedere a prodotti anche molto distanti geograficamente o dalla cultura mainstream. La seconda invece è sul rapporto di questo cinema – e del cinema in generale – con le piattaforme dove esso è accessibile (talvolta solo lì) e viene largamente distribuito. A parte motivi di natura filologica – il film si deve vedere in sala, altrimenti è tv – ci sarebbe molto da ragionare in proposito.
Ti devo confessare che questa è una mia angustia personale e anche una mania; nel senso che ogni giorno vado a consultare ossessivamente i dati di Cinetel e sono contento come un bambino quando vedo – vengono fornite le percentuali rispetto non solo a ieri e all'anno scorso, ma anche al 2019, cioè all'era pre-Covid – che finalmente i dati sugli spettatori risalgono sopra il -50% di quell'anno. In questo caso, sono infantilmente contento perché dico: beh, allora c'è speranza, c'è un miglioramento. Quando vedo invece il contrario, mi intristisco e dico: qui va veramente male. È una cosa abbastanza grave, vuol dire che metà del pubblico non c'è più. Si tratta di un valore oscillante e si vede che la gente fa molta fatica a tornare nelle sale, soprattutto il pubblico italiano. Mi fa tristezza e anche rabbia, perché penso che il cinema in sala sia una delle esperienze più affascinanti, come hai detto giustamente. Il film va visto anzitutto sul grande schermo, in una sala cinematografica.  Poi può essere rivisto coi vari supporti anche a casa. Io personalmente cerco di andare al cinema appena posso e ci vado sempre meno di quello che vorrei. Questi ultimi due anni per me sono stati pieni di impegni, però cerco di andarci comunque. Sono arrivato al punto che rimando volontariamente l'acquisto di uno schermo televisivo, che non possiedo più da parecchio tempo. Uso ovviamente lo schermo del PC, per studiare e guardare quello di cui ho bisogno. Uso il computer per il mio lavoro, per sezionare e fermare le immagini. Però la visione cerco sempre di viverla al cinema. È vero che c'è stato un calo in tutto il mondo, però questo calo di spettatori riguarda soprattutto l'Italia e mi sembra proprio un fatto triste. A volte ci sono segnali positivi: per esempio oggi mi pare che il dato indichi -37%, quindi un netto miglioramento rispetto a qualche giorno fa. Anche se spesso questo dato è legato soprattutto ai film della Marvel, ai film americani, agli effetti speciali, poi però ci sono questi film italiani che riescono comunque ad entrare tra i primi dieci in classifica; pensa a La stranezza e Le otto montagne. Oppure ad Aldo Giovanni e Giacomo: chi avrebbe mai pensato che potessero attirare un milione di spettatori? C'è una resistenza positiva del cinema italiano, mentre mi pare che il cinema d'autore faccia più fatica. Forse la gente ha bisogno, in questo periodo, di evadere o attraverso la comicità o attraverso il grande spettacolo. Meno male che ci sono le eccezioni tipo quella del film di Andò, un film d'autore che mi ha molto colpito.

Anche a me è sembrata una felice sorpresa, con questa regia onirica e di grande qualità, una storia così suggestiva e la grande performance sia di Servillo che della coppia Ficarra e Picone, sottotitolati dal siciliano…
Eh sì, questa è anche la conferma delle grandi risorse del dialetto e della forza espressiva delle particolarità culturali dell'Italia e delle diverse Italie dentro l'Italia. In fondo questo è sempre un elemento di vitalità quando viene valorizzato così intelligentemente, come ha fatto Andò, e non viene usato in una chiave invece di banale folklore.

Col dialetto torniamo ad un tema pasoliniano, anche se non esclusivamente tale. Così posso finalmente chiederti come e quando nasce il tuo impegno con il Centro studi – Archivio Pasolini. Che cos'è oggi esattamente questa realtà?
Come sai, è nato tutto dall'intenzione di . Io ora cerco di mandare avanti il lavoro, ma quello che ha fatto la Betti è stato fondamentale: buona parte del merito di avere diffuso diffuso l'opera di Pasolini nel mondo la si deve proprio a lei. Per lei la morte di Pasolini è stato un trauma terribile, era legatissima a Pasolini, legatissima alla sua persona ma anche alla sua attività artistica. Era veramente un sodalizio tempestoso, complesso però comunque era un sodalizio, e lei ha deciso, in assenza di Pasolini, di continuare a lavorare per farlo conoscere in tutto il mondo con intelligenza, con grande impegno. L'ha fatto fin dall'inizio: alla fine degli anni ‘70 ha costituito un Centro studi, l'Associazione fondo Pier Paolo Pasolini, che per trent'anni ha svolto un'attività internazionale ma anche un'attività di ricerca – dagli scritti alla bibliografia su di lui, gli studi critici, le rassegne stampa – su quella che era la percezione e la ricezione da parte dei diversi ambiti culturali. Motivo per il quale lei ha raccolto anche la documentazione – per dire –sugli attacchi che Pasolini riceveva: era un Pasolini come fenomeno a 360 gradi anche con riguardo alla provocazione del mondo sociale e della cultura.

Alla mostra allestita a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, Il corpo poetico [3], c'è una installazione molto eloquente realizzata su una intera parete, sulla quale sono riportati – in ordine cronologico – i giorni nei quali Pasolini è stato impegnato per difendersi (e farsi difendere) nei procedimenti a lui intentati nelle sedi giudiziarie, sia per fatti personali che per ragione dei suoi lavori…
Eh sì, veramente impressionante. Sai, poi Laura Betti aveva la particolarità che non era una persona esterna – cioè non era una studiosa, una persona che viene da fuori, un'estranea – ma era una donna che aveva partecipato a buona parte di queste vicende, che era stata testimone diretta, che le aveva vissute. Tra l'altro, lei era convinta che il punto culminante di tutta questa persecuzione che Pasolini aveva subìto – attraverso la stampa e anche attraverso la magistratura, almeno quella parte della magistratura che lo attaccava – fosse stato l'omicidio. Laura Betti era convinta che qui ci fosse stato il punto di arrivo ideale: non che coloro che avevano attaccato Pasolini fossero i responsabili materiali dell'omicidio, ma che ci fosse una responsabilità morale di queste persone, di questa Italia. Lei accusava questo mondo di avere la responsabilità morale, di avere additato Pasolini come un reietto, un individuo da eliminare, pericoloso, come un individuo abietto per vent'anni. Un lavoro di denigrazione sistematico, durato vent'anni, che aveva finito per provocare il formarsi del disegno – nella testa di qualcuno – che Pasolini si poteva far fuori. E di questo Laura Betti era convinta: che da parte dei cosiddetti poteri forti ci fosse stata una condanna a morte, dopo una condanna morale che gravava contro di lui da vent'anni.

Forse il paragone non è proprio esatto, però per certi versi è come per la parabola dell'antisemitismo – quello, ad esempio, che si è concretizzato nel primo dopoguerra – che è nato con il disprezzo, con la cultura del disprezzo dell'ebreo e che poi è sfociato nella sua eliminazione fisica, nella Shoah. E tu come ti innesti in questo impegno di Laura Betti, quando inizi?
Io arrivo alla fine della vita di lavoro di Laura Betti. L'avevo conosciuta – anzi l'avevo cercata – una volta che era venuta a Bologna. Ero andato a intervistarla perché ammiravo molto il lavoro che stava facendo e poi la ammiravo anche proprio come artista. Quando lei decise di trasferire il fondo Pasolini a Bologna, erano già alcuni anni che non la sentivo né vedevo. È stata una specie di concorso di circostanze: quando la Betti ha deciso di affidare alla Cineteca di Bologna l'archivio che aveva raccolto in tanti anni, a un certo punto ha pensato a una persona che qui a Bologna avesse una certa passione per Pasolini, che lo avesse studiato. Così, grazie anche a Goffredo Fofi – che io in quel periodo avevo conosciuto ed al quale avevo mandato degli scritti per la rivista che lui dirigeva in quel periodo, e il caso volle che fossero proprio scritti su Pasolini – fu proposto a Laura Betti il mio nome, lei si ricordò di quando mi aveva incontrato e quindi ci fu questa chiamata, che io ovviamente non dimenticherò mai. Mi ricordo benissimo la telefonata in cui lei mi chiese se avessi voluto occuparmi dell'archivio Pasolini: questa voce cavernosa e indimenticabile. E poi, naturalmente, il tono estremamente schietto con cui lei mi parlò e mi descrisse tutta la situazione, il contesto e i vari personaggi coinvolti. È qualcosa che – come puoi immaginare – rammento assai bene. Sono stato come adottato, perché poi con lei ho avuto un rapporto veramente molto felice. Ho assistito anche a scene truculente, a persone massacrate, umiliate, perché lei poteva essere crudelissima. Ma io ho avuto fortuna, da un lato per la mia passione per Pasolini (che mi aveva riconosciuto), dall'altro per la mia passione per il suo lavoro: perché io poi la ammiravo e ammiro tuttora proprio come artista. Per me è stata un'attrice straordinaria. Mi ha aiutato anche il cuscinetto della distanza, il fatto che il nostro non fosse un rapporto vissuto nel quotidiano: probabilmente sarebbe stato difficile vivere il lavoro comune nel quotidiano. Il fatto che ci fosse una distanza – io a Bologna e lei a Roma –faceva sì che il rapporto continuasse nel modo migliore e non venisse ad insaccarsi nelle situazioni peggiori. Ho scoperto una Laura Betti inedita rispetto ai racconti, alla vulgata su di lei: una Laura Betti generosissima, anche molto sofferta per tanti versi. Furono pochi mesi, purtroppo: lei ebbe un incidente domestico e di lì a poco dovette andare in ospedale, dove poi morì. Questo tempo trascorso per me è stato un grande accumulo di esperienze, molto varie: un lavoro che si diversifica in un'attività di ricerca, archivistica, ma anche in un'intensa attività editoriale, di saggistica, di critica. È anche un'attività didattica, che si esplica in conferenze, seminari… Purtroppo, una cosa che ti devo dire – e che mi rattrista – è che ovviamente negli ultimi anni sta venendo meno il rapporto con i testimoni, che quando ho cominciato erano ancora quasi tutti vivi, mentre adesso sono rimasti in pochissimi. Mi manca questo fatto di dialogare con loro, di interrogarli, di interpellarli, di cercarli: sia che fossero disponibili a parlare – come è successo con tanti – sia che invece in alcuni casi, purtroppo, fosse più difficile. Questo mondo è quasi completamente scomparso.

Ora sei un testimone dei testimoni, come un po' ti hanno presentato nell'inchiesta pubblicata qualche tempo fa sul il Venerdì [4]
Così mi sopravvaluti. Diciamo che ne ho incrociato più di qualcuno. Sarei veramente un testimone se avessi conosciuto Pasolini… Più che altro, quello che posso dire è che – avendo conosciuto e vissuto per intero questa fase – vedo anche più facilmente i tentativi di appropriazioni indebite, di mistificazioni: sono quelli che si stanno moltiplicando, perché mancano sempre più i testimoni diretti e perciò cresce la fuffa.

E queste celebrazioni del centenario della nascita di Pasolini? Ho pensato ad un certo punto che Pasolini, probabilmente, ci spiegherebbe che non si deve essere necessariamente fedeli a lui né alle sue passioni o alle sue interpretazioni, dalle quali si dissociò egli stesso, in vita, pubblicamente e senza troppe esitazioni. Tutto cambia, nell'uomo e fuori di esso. Eppure, l'insistenza con la quale si sente oggi la necessità di riprendere le sue analisi o i suoi interventi, in un mondo tanto diverso da quello degli anni '70, dal quale egli si è così tragicamente congedato, mostra indubbiamente l'assenza dolorosa di interpreti autorevoli e profondi in grado di spiegare, a noi che li stiamo vivendo, i drammi del nostro tempo, così sprovvisto non solo di ideologie, quanto piuttosto di idee e di visioni. Ti sembra una riflessione convincente? Abbiamo fatto delle celebrazioni agiografiche?
Intanto, io credo che Pasolini non vada celebrato, è una cosa che non va. È la celebrazione che non va, hai ragione. Purtroppo, molto spesso le riflessioni sui problemi si trasformano in celebrazioni e invece non dovrebbe essere così. Pasolini deve essere studiato e interrogato e analizzato criticamente; quindi, anche nelle sue contraddizioni, anche sugli aspetti più discutibili, su quelli più sconcertanti. Altrimenti, si riduce tutto a una incondizionata agiografia, ad una celebrazione e lo si riduce a un santino. Alcune iniziative che sono state fatte vanno in questa direzione, però io credo che siano comunque utili: penso che sia meglio che ci sia una celebrazione che piuttosto l'oblio. Dalla celebrazione comunque nasce un ragazzo di 15 anni che compra un libro di Pasolini, mentre dall'oblio non nasce niente, nell'oblio viene fuori il deserto. Poi, per quanto riguarda le analisi di Pasolini, io credo che il motivo per cui gli studiosi di tante discipline – la letteratura, la politica, l'antropologia, il cinema, il teatro – sentono tutti il bisogno di passare sempre attraverso Pasolini è proprio in questo fatto che lui si è reso conto di essere il testimone drammatico (ed anche traumatizzato) di questa fase epocale di trasformazione del Paese: il passaggio cioè dall'Italia agricola all'Italia industriale, che è stato veramente qualcosa di epocale e che ha cambiato completamente la vita, la cultura e la società nel nostro Paese, creando le premesse di quello che è il nostro presente. Per questo, per capire il nostro presente bisogna passare attraverso di lui. Però non prendendolo come se fosse un dogma. Pasolini era il primo – hai ricordato giustamente – ad abiurare da sé stesso; tutto il suo movimento era un movimento continuamente inquieto, fatto di violente sterzate e di rinunce, fatto appunto di abiure. Quindi, va tenuto presente questo, queste contraddizioni facevano parte del suo modo di muoversi, del suo modo di pensare, del suo modo di agire. Se uno nega la contraddizione, nega Pasolini.

Nell'articolo in memoriam su Die Zeit all'indomani della morte di Pasolini, Gideon Bachmann scrive: «con la sua tragica fine, egli ha offerto davvero un'ottima occasione a tutti quelli che amano ricostruire una propria verità a partire dalla realtà delle circostanze». Ed infine, con una frase definitiva: «è morto in tempo». Questa conclusione – così mi ha raccontato – verrà però “censurata” dal redattore del giornale. Disse Bachmann: «In effetti, dove poteva andare Pasolini dopo Salò? Aveva distrutto tutti i propri sogni, tutto quello che avrebbe voluto fare. Questo suo tentativo, durato una vita intera, di far capire alla gente cosa stesse perdendo, ogni giorno, ogni minuto della propria vita: i fondamenti dell'umanesimo, della comprensione umana, la devastazione della natura… Insomma, tutto ciò che oggi vediamo accadere drammaticamente a passi sempre più veloci. Con Salò in fondo lui ha dichiarato di non credere più a nulla». Che ne pensi?
Francamente, mi pare un giudizio sbagliato. Bachmann ha svolto un lavoro davvero molto prezioso come intervistatore, ma questa analisi – almeno personalmente – ritengo che si possa facilmente smentire. Basti pensare ai progetti che Pasolini aveva ideato. Credo che in realtà Pasolini, dopo Salò, coerentemente con la sua contraddizione, avrebbe preso delle altre direzioni. Certamente, era entrato in un circuito di rabbia che potremmo chiamare una furia visionaria; essa però avrebbe ispirato molto probabilmente delle opere di grande spessore. Pensa a Petrolio, che stava scrivendo e che non aveva finito. Od anche a questo film – Porno Teo Kolossal – di cui avrebbe iniziato le riprese nella primavera del ‘76 con Eduardo De Filippo. Quello che non condivido del discorso di Bachmann è che Salò fosse un punto finale: non era assolutamente un punto finale, era semplicemente un altro dei nuovi inizi di Pasolini. Pasolini aveva questa predisposizione alla visionarietà che si alimentava anche della sua stessa disperazione. Non era mai solo portato alla distruzione, semmai era portato alla provocazione e all'aggressione dello spettatore, questo sì. Salò sicuramente è un film aggressivo, ma non è un film che distrugge. È un film che rigenera, nel senso che costringe lo spettatore a guardare e subire un'esperienza estrema per cambiare, per provocarlo, per suscitare in lui delle reazioni. Ma poi Pasolini avrebbe fatto probabilmente San Paolo, che era su un'altra direzione ancora. Mi sembra ci fosse sempre in lui una volontà di esprimersi talmente forte da essere inconciliabile con l'idea dell'incenerimento o della dissoluzione.

Roberto Chiesi Pasolini il fantasma del presenteE qui veniamo alla tua ultima fatica, che è una riflessione assai approfondita sul cinema “finale” di Pasolini, quello degli anni '70, che nel tuo libro identifichi come “il fantasma del presente”. Scrivi a un certo punto: «I film in cui ha cercato di far rivivere le spoglie di un passato remoto per negare il presente, quasi contro i propri intendimenti, costituiscono la prova che non poteva risparmiare a sé stesso di affrontarlo, di combatterlo, quindi di convocarlo in modo fantasmatico dentro quegli illusionismi filmici evocati contro di esso. Questa tensione continua fra il sentimento ossessivo di un prima che si estende a comprendere quasi tutta la storia antica e moderna del mondo e un dopo circoscritto a pochi anni, ma che hanno il grande potere di essere definitivi, segna il respiro dei film che Pasolini realizza fra il 1970 e il 1975 e anche dell'ultimo progetto. Questi film […]  sono il terreno tormentato e lacerato di un'impossibile accettazione. Sono attraversati da dinamiche stridenti, contraddittorie e drammatiche, nelle quali si avverte la sofferenza profonda dell'autore che rifiuta e interroga, maledice e tenta di esorcizzare, di decifrare e trasfigurare quella materia che odia ma da cui non può allontanarsi. Il passato diventa la dimensione che non può ritornare ma che al tempo stesso è condizionata dall'assedio dei segni premonitori del presente: non c'è in Pasolini il passivo, trasognato abbandono a un tempo anteriore, vissuto senza la consapevolezza che quell'epoca fosse già potenzialmente compromessa dai primi indizi dei fenomeni di corruzione che l'avrebbero investita». È un po' il cuore della tua riflessione o mi sbaglio?
Ho voluto pubblicare questo libro raccogliendo in parte alcuni testi che avevo scritto su riviste e che poi ho rielaborato, aggiungendovi poi delle parti nuove. Mi affascinava personalmente tutto questo intrico di contraddizioni, a cominciare proprio dalla semplice constatazione che Pasolini rifiuta di filmare il presente direttamente, mentre invece lo rende oggetto di scrittura. Si vede chiaramente che il cinema era per Pasolini un modo di far vivere o di far rivivere qualcosa che amava. Il cinema è veramente l'espressione di un amore per un modo di essere uomini, per una civiltà, per i corpi, per i paesaggi, per gli ambienti, per i luoghi, per le storie… Tutta quella dimensione di cui Pasolini soffre traumaticamente la perdita, proprio in quegli anni, e per cui arriva alla consapevolezza che veramente quello è un mondo perduto definitivamente. Il cinema diventa la dimensione dove farlo rivivere; però al tempo stesso nei film che realizza – diciamo – fino alla fine del Fiore delle mille e una notte, si insinuano delle tonalità stridenti, dei segnali inquietanti. C'è comunque questo peso della morte, per cui in realtà c'è il presente che fatto uscire dalla porta rientra dalla finestra, è un fantasma, come dico nel titolo.
In genere, il fantasma che ci ossessiona è il passato, invece nel cinema di Pasolini è il presente il fantasma che aleggia, che è lì che sta premendo fuori dalla porta, che finisce per insinuarsi e che addirittura diventa il fuori campo di Salò; che è un film sul presente fatto attraverso il passato, fatto attraverso un passato che per Pasolini era stata traumatizzante – come per tutti gli italiani – e cioè il passato della Repubblica di Salò, del nazifascismo. Però, visto che Pasolini odia a tal punto il presente da non volerlo rappresentarlo direttamente, egli ricorre a questo travestimento temporale. In realtà, neanche a una rievocazione storica, perché se andiamo a vedere Salò non è affatto un film storico: ricorre a un incubo, ricorre alla dimensione onirica, come per Edipo re o per il Fiore delle mille e una notte: questa dimensione del sogno. E anche qui è molto affascinante: c'è questo passare attraverso il sogno o l'incubo per parlare della realtà, per arrivare alla realtà. Io ho trovato questo tipo di dinamiche molto affascinanti, molto complesse. Mentre poi, invece, Pasolini continuamente scrive del presente, ossessivamente, vive nel presente. In questo dimostra concretamente come la scrittura fosse per lui un esercizio diverso rispetto al filmare. Scrivere è una pratica con la quale lui può affrontare il presente, mentre filmare qualcosa è un'altra via, un'altra pratica sportiva.

Senti Roberto, da romano devo proprio farti una domanda su questo lavoro incompiuto – di cui parli nel libro – che è Appunti per un romanzo sull'immondezza, dove si incontra la condizione degli “scopini” (o “monnezzari“) di Roma [5]. Quel lavoro – mentre le cronache di oggi parlano della drammatica questione dei rifiuti nella Capitale come incapacità di gestione del caso da parte delle amministrazioni pubbliche – descrive un quadro molto diverso, segnato dalle condizioni difficili di lavoratori collocati nel basso della scala sociale. M'è venuto in mente che anche uno dei Racconti romani di Moravia [6] ha come protagonista (infelice) uno di loro: un uomo – che per vergogna sociale – nasconde all'innamorata il suo vero mestiere, dicendo genericamente di essere impiegato al comune. Fino a quando non la incontra poi inaspettatamente e drammaticamente, bussando alla porta di una casa dove la donna faceva la cameriera, porgendole un sacco aperto per ritirare la spazzatura. Insomma, in quegli anni, questi lavoratori umili ed umiliati generarono almeno una qualche simpatia…
Esistono innumerevoli abbozzi – potremmo dire cantieri letterari – che Pasolini aveva lasciato incompiuti perché non convinto, oppure perché preso da altri progetti. C'era poi un'irrequietudine che si esprimeva anche in questo, nel suo modo di lavorare e di vivere. Nel cinema, naturalmente, questo è impossibile, perché il cinema ha delle regole produttive per le quali se uno si impegna a fare un film, deve finirlo. Altrimenti, non ne farà più un secondo. Questo è l'unico caso in cui in cui Pasolini per varie ragioni ha accantonato il progetto, anche se queste ragioni non sono poi chiarissime. Io le faccio risalire al desiderio di realizzare la trilogia della vita, un progetto dal quale a un certo punto lui viene avvinto e che è proprio molto concomitante con le riprese per questo film sugli scopini. L'inizio della lavorazione del Decameron è talmente vicina – pochi mesi – che probabilmente si è trattato proprio di un amore messo da parte per un'altra passione che arrivava; oltretutto, c'era anche una questione pratica legata all'abbandono di questo progetto, cioè il fatto che comunque Pasolini fece queste riprese praticamente da solo, senza una troupe regolare, anche se con la pellicola e la macchina da presa messe a disposizione dalla Unitelefilm, la casa di produzione del Partito Comunista (che però non aveva appoggiato lo sciopero). Probabilmente Pasolini avrebbe anche accettato di finire il lavoro pagando lui stesso, senza grande imbarazzo. Certo, c'è il rammarico dovuto al fatto che è una delle ultimissime volte – l'altra saranno le riprese di 12 dicembre – in cui Pasolini riprende un mondo popolare senza nessun tipo di filtro. Ci sono le presenze fisiche dei netturbini che sono lì davanti a lui, sono proprio loro, non sono degli attori che fanno i netturbini; e lui li riprende anche mentre puliscono all'alba i mercati generali: sembrano dei dannati, con il forcone a spalare la verdura scartata, con quelle vanghe di ferro. C'era da spaccarsi la schiena. Infatti, avevano tutti problemi di salute gravissimi, lavoravano con attrezzature e con accessori inadeguati, quasi tutti finivano con l'avere delle gravissime conseguenze a livello fisico, col passare del tempo. È per questo che fanno questo sciopero, non ne potevano più di lavorare in quelle condizioni. Ecco, da un punto di vista tanto umano che politico, è importante sapere che Pasolini non rimanesse nella sua torre d'avorio ma si fosse messo al fianco di queste persone. Quando lui viene a sapere di questa situazione, agisce e va anche al di là di quella che era la miopia del PCI. E non agisce per opportunismo, non credo abbia mai agito per opportunismo. Purtroppo, quello che manca nel film è tutta la parte in cui dialoga, in cui interpella questi scopini durante lo sciopero. Mancando il sonoro, vediamo soltanto i volti, le reazioni, ma è assente la parola, che sarebbe stata ovviamente fondamentale per dare un senso a quelle immagini. Si tratta di un lavoro per il quale occorre ringraziare l'archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, che l'ha ritrovato: un'ora e mezzo di girato, molto generosamente messo a disposizione sulla piattaforma. È un tassello importante per capire come ci fosse ancora questo legame profondo di Pasolini col mondo dei diseredati. Ma mi collego a quello che dicevi prima sull'antisemitismo: in effetti, è la solitudine del diverso, dell'escluso, del rifiutato, dell'emarginato, del messo ai margini che alla fine accomuna anche realtà di proporzioni molto diverse. C'è un testo di Pasolini dove lui si accomuna al negro, all'ebreo, al mostro, al povero, a tutte quelle categorie a cui si può accostare quella che era la condizione riservata agli omosessuali. È un tema su cui ritorna, lo stesso tema di Porcile, dell'episodio della tragedia teatrale e poi della parte moderna del film, dove comunque viene evocato lo sterminio degli ebrei e che viene inserito in una storia che riguarda una trasgressione sessuale (un episodio di zooerastia che però è sicuramente una metafora della omosessualità). Si tratta, a mio modo di vedere, di una vicinanza – umana prima ancora che politica – a chi era emarginato, a chi era escluso.

Roberto Chiesi 8½ di Federico FelliniNon posso fare a meno di chiederti qualcosa su Federico Fellini, sul quale hai scritto un bel volume, analizzando la sua opera forse più celeberrima ed emblematica, 8 ½. Vorrei però partire collegandomi a La ricotta: Pasolini mette in bocca ad un giornalista ottuso una domanda per il regista, impersonato da Orson Wells, al quale fa chiedere che opinione abbia «del nostro grande regista Federico Fellini». La risposta è: «egli danzaEgli danza!». La domanda tuttavia – in origine – avrebbe dovuto interrogare il regista su cosa egli pensasse di Pasolini [7]. Fellini/Pasolini: cosa pensavano i due l'uno dell'altro?
Ti ringrazio di questa domanda perché riguarda un rapporto che mi interessa molto e che mi sembra piuttosto complesso. Provo a riassumerlo nel modo più breve possibile: c'era stato un rapporto di amicizia – anche abbastanza profonda – nella prima fase della collaborazione di Pasolini con Fellini. Poi però Pasolini si era sentito tradito da Fellini quando quest'ultimo non lo aiutò a produrre Accattone: il provino che Pasolini aveva girato non aveva convinto Fellini, ma soprattutto era stato rifiutato da quello che doveva essere il vero produttore del film, cioè Angelo Rizzoli. E Fellini non aveva assolutamente difeso – non credendoci – il progetto di Pasolini. Durante questa fase Pasolini scrisse e poi raccontò tutta la sua delusione, in alcuni testi diaristici che pubblicò sui giornali. Ci fu una volontà di attaccare Fellini, di metterlo di fronte a questa delusione che lui aveva subito e di denunciarla in un qualche modo. I due però si riavvicineranno perché Fellini aiutò poi concretamente Pasolini per i problemi di censura con Accattone.  Quando Accattone verrà infine realizzato, Fellini intervenne. Forse ebbe dei sensi di colpa; comunque intervenne. C'era sicuramente una grande fascinazione reciproca: Fellini è uno dei pochi cineasti italiani di cui Pasolini segua attentamente il cinema, di cui scrive: alle volte in termini di entusiasmo, come per La dolce vita, altre volte con più riserve, come per il Satyricon, poi di nuovo con entusiasmo per Roma. È l'unico, insomma, che attiri l'interesse di Pasolini, il quale non era in realtà particolarmente interessato al cinema degli altri. Pasolini non era assolutamente un cinefilo, non aveva una grande passione per il cinema degli altri, aveva passione per il suo cinema, per fare cinema. In questo, c'era proprio una forma di egocentrismo; amava fare cinema, non vedere i film di altri registi. Ma per Fellini fa un'eccezione, evidentemente. E credo che questa eccezione fosse dovuta al fatto che avevano entrambi – pur nell'estrema diversità delle poetiche e della concezione del cinema – delle affinità, che si possono riassumere in una. A Pasolini affascinava questa dimensione visionaria, cioè il sogno come dimensione dove rappresentare il reale; a suo modo, egli rende questa dimensione centrale nel suo stesso cinema. C'era questa affinità, questa empatia. E poi c'erano anche delle affinità di tipo proprio estetico, stilistico, come ad esempio il fatto di usare il doppiaggio come una fase creativa. Entrambi lavorano molto in sede di doppiaggio e lavorano molto sui dialetti: tutti e due usano voci dialettali, voci sporche, non vogliono le voci pulite e asettiche del doppiaggio tradizionale italiano. Cambiano spesso anche i film in sede di doppiaggio e di edizione, e questo è un elemento che li unisce. Per quanto riguarda Fellini, io credo che invece lui non amasse il cinema di Pasolini. Da quello che si può capire, Fellini godeva di un amore non ricambiato. Questo fatto poi è anche all'origine di un certo risentimento da parte di Pasolini, che aveva capito che Fellini non amava il suo cinema. Fellini aveva invece vari libri di Pasolini nella sua biblioteca; consideriamo che era un artista che non conservava le cose che lo interessavano privatamente e che poi tendeva a buttare, a disfarsi, a regalare, a disperdere le cose, il contrario di Pasolini. Quindi in realtà io credo che Fellini amasse molto di più Pasolini come scrittore e anche come poeta. Infatti, è interessante il fatto che –se uno va a vedere e legge quello che Fellini dice a proposito della televisione, a proposito del berlusconismo – si ritrovano degli echi della visione della televisione che aveva Pasolini. Anche se Fellini non lo cita mai, sembra che Pasolini sia un po' diventato – in quel caso – il suo punto di riferimento. Per quanto riguarda invece il caso specifico de La ricotta, la spiegazione, probabilmente, è nel fatto che il regista del film, interpretato da Orson Welles, è un po' per metà un autoritratto di Pasolini e per metà è invece l'immagine di quello che Pasolini non vuole diventare: ovvero, un regista mondano, realista, cinico, disilluso. Il riferimento a Fellini – che doveva essere in origine, come hai detto giustamente tu, riferito a sé stesso – è un riferimento al fatto che Pasolini aveva consapevolezza che Fellini era un artista che sapeva giostrarsi e anche relazionarsi con ambienti di potere con molta disinvoltura e abilità. Fellini sapeva per esempio relazionarsi con Andreotti, che era una incarnazione del potere in un senso quasi mostruoso…

Mi fai venire alla mente questo libro di Tomaso Subini [8] (che ho appena iniziato a scorrere e al quale, tra l'altro, sono arrivato leggendo il tuo). Nel primo capitolo lui ricostruisce con molta efficacia quando, nel secondo dopoguerra, il nostro Paese – inserito nello schieramento atlantico e quindi alleato degli Stati Uniti – dovette in un certo senso “aprire” qualche spiraglio sul fronte della censura cinematografica; e Andreotti (che aveva una responsabilità di governo come sottosegretario) si occupò proprio di questo, incarnando una linea che considerava «prioritaria la lotta ai film portatori di messaggi politicamente avversi, incitanti alla lotta sociale (in quegli anni, sulla scia dell'esperienza neorealista, molti e combattivi), piuttosto che a quelli (ancora pochi e timorosi) impegnati a sondare il limite del rappresentabile in materia sessuale» [9]. Fino a quando Andreotti non dovette passare il testimone a Scalfaro, con la transizione dal centrismo allo scelbismo, rischiando persino ex post di apparire – piuttosto paradossalmente – un “lassista” …
Eh sì, le vicende della censura nel cinema italiano sono interessantissime. Aggiungerei, su questo fronte, come dicevo, che è chiaro che Fellini – a differenza di Pasolini – ha dei rapporti continui con Andreotti, invita i maggiori vertici alle anteprime al Quirinale dei suoi film. Insomma, coltiva queste relazioni per fare i film che vuole fare, film che non andavano certo nella direzione auspicata da Andreotti. Fellini riesce ad approfittare del suo prestigio mondiale per ritagliarsi una libertà espressiva che è unica. Lui ha rapporti con questi uomini di potere ma non è che per questo faccia film servili, assolutamente no. Può fare i film che vuole fare: un film come Prova d'orchestra, anche se qualche anno dopo, è di grande allarme in quel momento nella storia d'Italia. Anche se – certo – Fellini non fa mai un cinema politico nel senso diretto come poteva fare Pasolini. Comunque, se uno pensa soltanto all'immagine di Anita Ekberg ne La dolce vita, vestita da prete…   Un'immagine che non viene censurata perché Fellini riesce – giocando sui suoi rapporti “diplomatici” – a farla passare, quasi come un'opera di illusionismo. Riesce a confondere questi personaggi che non vedono una cosa così trasgressiva: perché Anita Ekberg – con le sue forme, i suoi seni, che indossa il vestito talare – è una cosa abbastanza sconvolgente, se uno ci pensa bene, considerando l'Italia di allora, degli anni ‘50 e dei primi anni '60. Avrebbe dovuto scatenare un putiferio – e infatti poi La dolce vita avrà problemi – però non viene censurato. E poi c'è l'episodio de Le tentazioni del dottor Antonio, che è un attacco contro l'Italia beghina. Non sono certo film democristiani. Veramente lui sapeva danzare…

Direi che abbiamo danzato un po' anche noi. Grazie Roberto!
Paolo Sassi

[1] Oltre alle monografie dedicate ad Alain Delon (2002), Jean-Luc Godard (2003), Gérard Depardieu (2009), al cinema noir francese, al film 8 ½ (2018), al cinema di Ingmar Bergman (2018), tutte edite da Gremese, Roberto Chiesi ha pubblicato – per la Cineteca di Bologna – Appunti per un'Orestiade africana (DVD e booklet, 2008), La rabbia (2008), Fuoco! Il cinema di Gian Vittorio Baldi (libro e DVD, 2009), Labirinto Fellini (DVD e booklet, 2010), I magliari di Francesco Rosi (2011), L'Oriente di Pasolini (2011), Accattone (con Luciano De Giusti, 2015), Il mio cinema (2015), Salò o le 120 giornate di Sodoma (DVD e booklet, 2015), Pier Paolo Pasolini. Folgorazioni figurative (con Marco Antonio Bazzocchi e Gian Luca Farinelli, 2022) e Pasolini e Bologna. Gli anni della formazione e i ritorni (con Marco Antonio Bazzocchi, 2022).
[2] Cfr. https://cinetecadibologna.it/news/pier-paolo-pasolini-folgorazioni-figurative/.
[3] Cfr. https://www.palazzoesposizioni.it/mostra/pier-paolo-pasolini-tutto-e-santo: l'installazione è associata alla sezione intitolata dileggio, sulla quale v. anche il catalogo della mostra Pier Paolo Pasolini. Tutto è santo. Il corpo poetico, a cura di Giuseppe Garrera, Cesare Pietroiusti e Clara Tosi Pamphili, Milano, 5 Continents, 2022.
[4] Marco Cicala, «Delitto Pasolini, controinchiesta su un mistero», in Il Venerdì, 15 febbraio 2023. Cfr. https://www.repubblica.it/venerdi/2023/02/15/news/delitto_pasolini_indagini_sergio_citti-387987313/.
[5] Il girato è disponibile nell'archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, https://www.youtube.com/channel/UCEazbZIwdyiELVBhj1RAWRA?embeds_euri=https%3A%2F%2Fpasolinilepaginecorsare.blogspot.com%2F&feature=emb_ch_name_ex
[6] Alberto Moravia, ”Precisamente a te”, in Racconti romani, Milano, Bompiani, 1954.
[7] Cfr. Tomaso Subini, Pier Paolo Pasolini. La ricotta, Torino, Lindau, 2009, p. 36.
[8] Tomaso Subini, La via italiana alla pornografia. Cattolicesimo, sessualità e cinema (1948-1986), Milano, Le Monnier, 2021.
[9] Così Subini, op. cit., cap. 1, § 1.2 ed. Kindle.

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