
Al termine della lettura de La notte più buia, ho pensato subito che Roberto Gramiccia, senza per questo etichettarlo, appartenga a quella ormai non più folta schiera di persone spinte alla scrittura perché – parafrasando una felice intuizione di Francis Scott Fitzgerald – “si scrive un libro non per dire qualcosa, ma perché si ha qualcosa da dire”.
Se seguo questo filo interpretativo, è fin troppo evidente che l’autore ha molte cose da dire – forse una quantità tale che non riesce più a tenere sotto controllo – e allora lo fa quasi facendosi convincere e trascinare in questa stesura dalla constatazione dei danni, non solo materiali, causati dalla crisi da Covi-19. La pandemia, quindi, vista come una specie di cavatappi che libera la bottiglia ormai al colmo.
E lo fa non solo perché è un attento osservatore della realtà che lo circonda, certo, ma da medico – oltre che appassionato d’arte ed ex militante politico – lo fa perché lo sente o, almeno è quello che ho avvertito, perché è un dovere morale farlo.
Non c’è da stupirsi, perché Roberto Gramiccia appartiene a quella generazione, che è poi anche la mia, che se vogliamo vive quasi segretamente un senso di colpa dato dalla incapacità e/o impossibilità di sapersi riorganizzare e ritrovarsi, nuovamente tutti insieme, a difendere quegli ideali oggi messi un po’ da parte – non dico dimenticati, ma sicuramente guardati con sufficienza – che hanno modellato la nostra gioventù prima e la successiva crescita poi.
E in questa “fragilità” esistenziale, termine usato o sottinteso spesso nelle pagine del libro, acuita dalla violenza pandemica, l’Autore contrappone con veemenza il sostantivo “responsabilità” come giusto contrappeso. D’altronde non è un caso che Gramiccia confessi l’impellenza di dover raccontare, scrivere, e lo dice in maniera chiara al punto otto della premessa: “Scrivere questo libro corrisponde ad una esigenza. Non a una libera scelta”. Il suo non è un reflusso nostalgico sui “bei” tempi di ieri, alla Stefan Zweig per intenderci, o un’auto biografia, ma è l’analitica e profonda disamina sul “come eravamo” e sul “come siamo diventati”.
Ecco che pagina dopo pagina – come ho creduto di interpretare – tra aneddoti ironici, o dettagliati racconti di esperienze mediche, incontri con i protagonisti del mondo dell’arte contemporanea, l’autore mischia un po’ le carte, sparge una cortina fumogena, crea dei diversivi, quasi comici con il racconto delle traversie per i primi sussulti sentimentali, che quasi ci nasconde il reale messaggio che vuole venga catturato e cioè che i tempi che stiamo vivendo autorizzano e sollecitano una trasformazione radicale.
Il coraggio intellettuale di Gramiccia è paragonabile, a mio giudizio, magari forzando il parallelismo, a quello del prigioniero di guerra che accetta in assenza di alternative lo status al quale soggiace, sopportando privazioni e maltrattamenti perché sa benissimo due cose: la prima è che lui, sebbene recluso, è dalla parte del giusto; la seconda, è che nessuno potrà mai impedire ad un prigioniero il tentativo di fuga dalla prigione. Prigione che oggi è rappresentata, nella sintesi di Gramiccia, dal mondo del consumismo con la sua propaggine più pericolosa, quella globalista e iperliberista, che fanno da solido basamento alle idee sovraniste, autoritarie e nazionaliste che rischiano di portare l’umanità al suo annientamento. Non sono queste tesi ardite, frutto del pensiero di un pericoloso e attempato nostalgico che ai suoi tempi voleva fare la rivoluzione; no, è il mondo reale contro il quale lo scrittore non può fare altro che invitarci a una profonda riflessione offrendoci, come riporta il sottotitolo del libro, le “Cronache di una generazione”.
E forse il problema è proprio qui; la domanda che mi pongo è molto semplice e cioè: al giovane lettore che prenderà in mano questo libro, che effetto produrrà leggere, ad esempio, della calda passione con la quale lo scrittore descrive le notti passate nelle affollate e fumose sezioni del PCI di Torpignattara, o nel collettivo della facoltà di Medicina? Esistono oggi gli strumenti necessari alla gioventù per provare a vivere quelle sensazioni, ricche di speranze e di paure, sorrette tutte però dal convincimento inebriante che la partecipazione a quei momenti, seppure appartenenti alla “piccola storia”, avrebbe condotto alla riscrittura della Storia con la S maiuscola?
Non ho risposte da dare, questo lo ammetto, ma mi piacerebbe ad esempio che del breve ma intenso episodio “La signorina Podda” – insegnante dell’Autore alle scuole elementari – si cogliessero i delicati momenti nei quali la maestra si prodigava per alleviargli i dolori di un normale mal di pancia, “tenendomi sulle sue ginocchia almeno due ore”. Certo, incombenza sostenuta sebbene non prevista dal regolamento scolastico, ma proprio per questo maggiormente apprezzata dal piccolo scolaro che oggi la ricorda così: ”Non smetterò mai di essere grato a questa figura limpida e amorevole di professionista che ha reso sopportabili le mie angosce, traghettandomi verso il recupero di un decente equilibrio”. Allora, in virtù del racconto di un piccolo episodio di 50 anni fa, da quei gesti semplici ma generosi, o forse sarebbe meglio dire, umani di quell’insegnante, Gramiccia sembra ormai cosciente della irripetibilità di quei comportamenti, che anzi intervengono ad evidenziare ancora di più la nostra sempre più accentuata fragilità, naufraghi in un mare esistenziale ormai privo di regole e ideali.
E così il titolo del libro La notte più buia – usato dall’autore anche per ricordare, non a caso, un trauma psicologico sofferto da bambino – assume con chiarezza la forma di una grande cornice dove con sapienza, ironia, coraggio, Roberto Gramiccia inserisce i piccoli tasselli del suo vissuto, forse vicende minime, ma che nella loro compatta unità ci restituiscono, come in uno specchio, quella frattura forse insanabile con la Storia dei nostri giorni.
Stefano Ferrarese
Roberto Gramiccia
La notte più buia
Mimesis, luglio 2022
Pagine 288
€ 22,00
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