
Il popolo dimenticato, meno voluto e più perseguitato al mondo. Tanti e tristi sono gli appellativi utilizzati per definire la popolazione dei Rohingya, tristemente al centro delle notizie internazionali delle passate settimane per la foto del cadavere di un bambino di 16 mesi affogato e riverso nel fango del fiume Naf e per il video degli agenti che percuotono brutalmente alcuni rohingya a gennaio. Le immagini hanno sollevato lo sdegno mondiale, manifestazioni di solidarietà e prese di posizioni dai vari governi. Ma la loro odissea va avanti da tempo e la situazione è peggiorata ad ottobre, quando l'uccisione di alcuni militari birmani è stata attribuita agli indipendentisti rohingya.
Fantasmi senza patria e senza diritti, anche la loro origine è controversa. Alcuni ritengono siano indigeni proprio del Rakine o Arakan, lo stato birmano dal quale fuggono. Altri li fanno provenire dal Bangladesh dal quale sarebbero emigrati dopo il 1823, anno in cui la Birmania perse l'indipendenza divenendo una colonia britannica. I Rohingya stessi sostengono invece di essere discendenti dei mercanti musulmani arrivati in Birmania via mare durante il medioevo. Quel che è certo è che i Rohingya sono un gruppo etnico di religione islamica, parlano una lingua indoaria che si rifà in gran parte a quella bengalese e per la maggior parte vive nel Myanmar (l'ex Birmania). Un censimento del 2012 ne registrava circa 800.000 proprio nello stato del Rakine, a nord della Birmania. Oggi i Rohingya sono quasi un milione ma circa 135.000 sono relegati in ghetti e in campi profughi nella zona di confine con la Tailandia, 65.000 riusciti a fuggire e molti vivono in campi per sfollati in Bangladesh.
Senza patria perché, nonostante rappresentino un quinto della popolazione del Rakine, non sono riconosciuti come minoranza etnica. Una legge del 1982 non solo nega loro la cittadinanza birmana, ma anche il diritto di varcare i confini dello stato senza permesso. Clandestini, apolidi e prigionieri.
Senza diritti perché l'assenza di cittadinanza comporta limiti di accesso all'istruzione, alla sanità e alla proprietà. La stessa legge vieta loro anche di avere più di due figli e di possedere terreni. Sono stati sottoposti a varie forme di estorsione, confisca delle terre, sfratto, tassazione arbitraria e restrizione finanziaria. Sono utilizzati principalmente come lavoratori-schiavi sulle strade e nei campi militari.
Ma perché sono perseguitati? Innanzi tutto per la loro terra, la loro sola ricchezza perché casa e sostentamento. Da anni ne subiscono l'esproprio, senza nessun risarcimento o compensazione, per far spazio ad attività economiche più redditizie come lo sfruttamento delle risorse naturali, la raccolta del legname e lo sviluppo delle industrie minerarie. La pratica del land grabbing (accaparramento delle terre), tanto in uso nelle nazioni in via di sviluppo, ha preso piede in Myanmar intorno al 1990 ad opera della giunta militare che stringe in pugno il paese, nonostante la timida svolta democratica degli ultimi anni. La situazione è peggiorata quando la nuova legge sulla terra del 2012 ha aperto le porte agli investitori internazionali, Cina e India soprattutto, facendo aumentare la necessità di terra da destinare ai grandi progetti. Ad aumentare sono state anche minacce, violenze e rappresaglie verso chi provava a reagire all'esproprio.
Ma soprattutto per la loro religione. Nel Myanmar il buddismo è una religione di stato e i monaci, che non vogliono perdere privilegi e vantaggi, impediscono ogni possibilità di sviluppo di questa minoranza anche dal punto di vista sociale e demografico. Sono visti come degli immigrati illegali arrivati dal vicino Bangladesh, li chiamano “bengali” in senso dispregiativo e negano loro ogni diritto. Dal 2012 ne hanno fatto anche oggetto di pulizia etnica dopo avergli imputato l'omicidio di una donna buddista nella zona di Tangup. L'accusa servì da scusa per bruciare le loro case, torturarli, ucciderli, violentare le donne e sfollarli nei campi profughi da cui hanno il divieto di uscire. Il monaco buddista Ashin Wirathu leader del gruppo “969“, il movimento contro i musulmani in Myanmar, giustifica la violenza come l'unica difesa contro il “grande piano” dei musulmani di trasformare il Myanmar in uno Stato islamico simile al confinante Bangladesh. Lo stesso monaco aveva accusato l'inviato per i diritti umani delle Nazioni Unite Yanghee Lee, di essere “una troia nel nostro paese” per avere criticato le leggi che discriminano di fatto donne e minoranze. Non a caso gli è stato affibbiato il soprannome di “Bin Laden buddhista”, nomignolo che ha accolto di buon grado.
In effetti il Myanmar è sotto l'osservazione delle organizzazioni internazionali da tempo, perché il “caso Rohingya” non è l'unico esempio di sopruso e discriminazione. Il paese, sotto varie forme e nomi, è in mano al Tatmadaw (esercito) dal 1962 quando, con un colpo di stato, istaurò un regime autoritario e repressivo. Dal 2010 il governo militare birmano ha avviato una serie graduale di riforme che ha permesso la scarcerazione di alcuni oppositori politici, tra cui l'icona della resistenza e Nobel per la pace Aung San Suu Kiy, e le prime elezioni “libere” nel 2015. Le elezioni videro la vittoria proprio della Lega Nazionale per la Democrazia, di cui Suu Kiy è leader, e la creazione di un governo civile di cui è a capo pur ricoprendo formalmente solo la carica di ministro degli Esteri. Quello che sta vivendo ora la Birmania è un complicato periodo di transizione dove la recente democrazia deve fare i conti con una Costituzione scritta da e per l'esercito, con una legislatura basata su due camere composte per un quarto da militari e con ministeri chiave (Difesa, Interni e Frontiere) anch'essi attribuiti a militari. Insomma Suu Kiy ha il governo, ma non il potere effettivo del paese, e quelli che una volta erano i suoi carnefici adesso sono alleati. Questo però non basta a giustificare le timide azioni intraprese a difesa della popolazione rohingya e in denuncia delle persecuzioni che sta subendo. Ha nominato Kofi Annan a capo di una commissione di conciliazione per ridurre le tensioni nel Rakine, ha promosso una commissione di inchiesta per verificare l'effettivo stato dei fatti, ha iniziato a discutere della possibilità di sciogliere il 969 di Wirathu perché “non necessario e ridondante” dato che esiste già una comunità ufficiale dei monaci (Sangha). Ma i risultati sono ancora pochi e deludenti. Da più parti è accusata di un silenzio assordante sulla questione, alcuni la giustificano. Andare contro il Tatmadaw adesso che il suo potere è ancora solo formale è un rischio troppo elevato. Il clero buddista, che si avvale dei militari per prosperare e dominare, darebbe vita ad una dura opposizione. Un nuovo scontro politico sarebbe troppo difficile da gestire per un governo che non ha né il controllo dell'esercito né quello di gran parte della pubblica amministrazione e potrebbe allontanare gli investimenti delle potenze che hanno messo gli occhi sulle risorse del Myanmar.
Intanto i migranti rohingya, che via terra e via mare cercano di sfuggire alle persecuzioni militari e buddiste, non trovano riparo. Il musulmano Bangladesh, che ne ha già accolti qualche centinaia di migliaia relegandoli in campi profughi ufficiali o di fortuna (gestiti principalmente dalle organizzazioni umanitarie), non fa niente per inserirli nella società. Indubbiamente parliamo di un paese che non sarebbe in grado di assorbirli tutti e procurare loro una sistemazione, sia per questioni economico-politiche che umanitarie.
Diverso è il caso di Tailandia, Malesia e Indonesia, paesi sufficientemente ricchi e grandi per poterli accogliere oltre che, nel caso degli ultimi due, a larga parte musulmana. Puntano il dito con sdegno verso l'etnocidio, ma non lasciano sbarcare i profughi che fuggono via oceano. Forniscono loro cibo e assistenza d'emergenza in mare ma, se i barconi si avvicinano troppo, li rimorchiano fuori dalle proprie acque. Ma di questo l'Europa ha poco da indignarsi.
Quando siamo testimoni silenziosi e inattivi di un'ingiustizia, ne siamo anche una causa.
Federica Crociani
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