
Con la professoressa Mara Morini abbiamo affrontato alcune tematiche sulla Russia: dai pregiudizi reciproci ai recenti interventi legislativi al ruolo di Putin nel paese e nello scacchiere internazionale.
Mara Morini è docente di Politics of Eastern Europe e Scienza politica presso l'Università di Genova e autrice del volume edito da il Mulino sull'evoluzione politica della Russia post-sovietica dal titolo “La Russia di Putin”.

Spesso quando si parla di Russia mi viene in mente il libro del giornalista e storico svizzero Guy Mettan, “Russofobia” in cui l'autore racconta del pregiudizio e anche delle falsità nei confronti di questo paese nel corso di una relazione millenaria. E questo in alcuni casi non ci fa ragionare con la giusta profondità, senza nulla togliere alle critiche sull'espansionismo di Mosca o all'assenza del rispetto dei diritti umani. Quali, secondo lei, i punti su cui si potrebbe provare a ridurre le frizioni tra l'Occidente ed in particolare tra Bruxelles e Mosca?
La “Russofobia” ha radici culturali e storiche che precedono le dinamiche politiche fra Occidente e Oriente degli ultimi decenni. Vi sono pregiudizi, direi reciproci tra le due parti, che difficilmente potranno essere scardinati nell'immaginario collettivo. Dobbiamo anche distinguere il livello di analisi. Sappiamo che dal punto di vista economico l'UE e, soprattutto, alcuni paesi europei come la Germania e l'Italia hanno rapporti commerciali di lungo corso con la Russia; un aspetto che favorisce le interazioni fra Bruxelles e Mosca. Vi sono anche rapporti di interscambio culturale, artistico e tecnologico che contribuiscono al “buon vicinato”.
Per ridurre le frizioni ci vorrebbe un approccio diverso degli USA e dell'UE che ragionano su schemi prevalentemente “occidentali” e prendono decisioni che non tengono conto delle specificità della Russia e dell'Oriente. Faccio un esempio. Pensare di democratizzare la Russia, instaurando un regime liberaldemocratico come in Occidente, è, indubbiamente, un progetto piuttosto ambizioso che non tiene conto delle caratteristiche culturali, storiche e politiche di questo vasto territorio. Pensare di farlo dall'esterno, fornendo, ad esempio, supporto all'opposizione extraparlamentare può produrre qualche effetto nel breve periodo, ma non si traduce automaticamente nella selezione di una classe dirigente, capace di rendere la Russia un paese democratico sulla base degli standard occidentali. Una strategia politica di questo tipo può determinare una reazione contraria. Maggiori sono le interferenze nella politica interna russa, come abbiamo visto con il “caso Navalnyj”, più restrittive e repressive sono le misure attuate dal Cremlino in tema di diritti civili e politici.
Politicamente, per contrastare la “Russofobia” il governo russo è ricorso a due strumenti principali: il canale youTube “Russia Today” e l'associazione culturale “Russkij Mir (Mondo/Pace russa)” che cercano di contrastare la “disinformazione occidentale” e diffondere la cultura russa nel mondo. Nel caso della fondazione “Russkij Mir” ricoprono un ruolo importante anche i valori religiosi e spirituali, rappresentati dalla Chiesa ortodossa che mira a unire le coscienze delle popolazioni post-sovietiche. In sostanza, le classi politiche dell'Occidente dovrebbero accettare la Russia come un partner non solo commerciale, ma politicamente rilevante, riconoscendogli uno “status paritario” (da sempre richiesto dal Presidente Putin) per la definizione di un nuovo assetto internazionale (multilateralismo) e cooperando in diverse settori strategici per evitare reflussi autoritari nell'area post-comunista.
A fine 2020 Putin ha firmato una serie di leggi approvate dalla Duma che rendono ancora più autoritarie le norme sulla sicurezza nel paese perché riguardano la pubblicazione di notizie su internet, la protezione dei dati e delle informazioni riguardanti apparati di sicurezza e altre figure chiavi dell'establishment. Siamo di fronte sempre più ad un sistema autoritario?
Nelle disciplina delle scienze sociali ci sono strumenti teorici ed empirici che servono a misurare il grado di libertà e di democrazia dei regimi politici. Un approccio quantitativo è utilizzato dall'istituto Freedom House che monitora lo stato della democrazia, della libertà di stampa e di Internet nel mondo. Dal 2004 la Russia è stata inserita tra i regimi non democratici perché non vi sono quelle che Robert Dahl ha definito “le garanzie istituzionali” per poter instaurare e consolidare un regime democratico. Tra queste garanzie vi sono le procedure elettorali, il grado di libertà e autonomia dei mass media, la presenza di una “rule of law” (Stato di diritto), il multipartitismo, un sistema giudiziario autonomo e così via. Nel caso russo questi elementi presentano delle forti criticità che non consentono di inserire la Russia tra i regimi democratici, anche se, come rilevano numerosi sondaggi, i russi si ritengono una democrazia. Allo stesso tempo, la Russia di Putin non è paragonabile al regime totalitario staliniano. Siamo dinanzi ad una tipologia di nuovi autoritarismi, piuttosto diffusi nel mondo, che presentano elementi riconducibili in parte alle democrazie e in parte ai vecchi autoritarismi del secondo dopoguerra. Ad esempio, le elezioni parlamentari presentano una competizione pluralistica, ma i partiti politici non hanno eguali possibilità di accesso alla competizione per vincoli legislativi e procedurali. Non hanno la medesima presenza e visibilità nei mass media statali. È una situazione che facilita l'affermazione di quello che viene definito il “partito del potere”, Russia unita, a sostegno del presidente Putin e del governo. Per preservare la stabilità della politica interna, minacciate da azioni di protesta dell'opposizione extraparlamentare sono state implementate leggi che monitorano attentamente i siti Internet in nome di una “legge sull'estremismo (politico e religioso)” che sanziona tutti coloro che esprimono forme di dissenso, riconducibili ai criteri previsti dalla legge. È stato un primo passo verso la formazione di una “rete sovrana (RuNet)” che può intervenire per bloccare interferenze, soprattutto esterne alla Russia, per difendere il paese. Medesime leggi sono state attuate per ridurre le proteste nelle piazze, inasprendo le motivazioni dei fermi amministrativi che, spesso, si traducono in veri e propri arresti. La minaccia rappresentata dal “caso Navalnyj” ha messo in luce la faccia autoritaria ancora presente in questo paese e posto in secondo piano gli elementi democratici della Russia postcomunista.
Nonostante la forza dell'apparato di sicurezza e i divieti le manifestazioni e le proteste in favore della scarcerazione dell'oppositore Alexey Navalny, vittima lo scorso agosto di un tentativo di avvelenamento, ci sono sembrate imponenti come imponente è stata la repressione. Quanto secondo lei, anche per i risvolti internazionali, questa situazione preoccupa Putin?
Prima di tutto una precisazione. Proteste con questi numeri, talvolta anche maggiori, si sono verificate anche in passato: in seguito alle elezioni parlamentari del 2011 e del 2016 e periodicamente numerose voci di dissenso si manifestano in diverse zone del territorio russo per questioni di difesa ambientale, infrastrutturale e dei diritti civili e politici. Il merito di Alexej Navalnyj, che conosce molto bene l'agorà virtuale, è quello di aver amplificato, reso trasparente e visibile a tutto il mondo cosa può succedere a chi osa sfidare il presidente Putin. L'arresto all'aeroporto, la spettacolarizzazione virtuale di questo evento, ha “internazionalizzato” la questione dei diritti civili e politici in Russia, e innescato una serie di reazioni di numerosi leader europei che hanno richiesto il rilascio immediato dell'oppositore.
Tuttavia, non credo che Putin sia particolarmente preoccupato di quello che possono pensare all'estero. Sa che le prossime elezioni parlamentari, che si svolgeranno a settembre 2021, potranno costituire un problema per il partito Russia unita perché potrebbe non ottenere la maggioranza assoluta dei seggi. Potrebbero verificarsi nuovi scontri che possono indebolire la sua immagine e aumentare il livello di sfiducia nei suoi confronti. Non è detto, però, che potrà avere una conseguenza diretta e immediata sulla stabilità del sistema di potere putiniano. Ciò che è accaduto in Bielorussia dovrebbe, comunque, costituire un monito per Putin: il tema della sua successione non può essere ulteriormente procrastinato. Vedremo se giocherà di anticipo ed eviterà un suo ulteriore indebolimento che potrebbe avvantaggiare chi mira a sostituirlo all'interno delle diverse fazioni (orientamenti ideologici) presenti nel Cremlino. Certamente, azioni di protesta collegate ad eventi politici interni sono usati nella narrazione del Cremlino come una dimostrazione dell'ingerenza di “agenti stranieri” per destabilizzare il paese. Visto che i russi considerano gli americani e gli ucraini come i principali nemici del paese, la principale preoccupazione di Putin è continuare a garantire buone condizioni economiche alla popolazione perché consapevole che solo in questo modo può contare sull'appoggio degli elettori russi.
Lo scorso anno sono state approvate da un referendum una serie di norme della Costituzione russa modificando l'impianto voluto da Boris Eltsin nel 1993. In tanti hanno visto una parte di queste riforme collegate alla necessità di Putin di gestire al meglio la sua successione e il futuro della Russia. Ce ne dà una lettura di questo aspetto? Non si parla molto di altre norme inserite nella costituzione come quelle socio-economiche come quelle che riguardano le pensioni e i salari. Quale la sua valutazione in proposito? Ci sono state da allora delle conseguenze pratiche sul fronte socio-economico?
La decisione di Putin di riformare la Costituzione ha colto di sorpresa anche il suo entourage. L'ipotesi di un “dopo Putin senza Putin” ha generato incertezze e preoccupazioni circa la stabilità dell'assetto di potere tra le diverse fazioni che lo compongono (si dice che ci siano tante fazioni quante le torri del Cremlino). Pare che inizialmente Putin avesse deciso di non ricandidarsi per puntare alla presidenza del Consiglio di Stato in un'ottica di “padre della Patria” com'era successo a Nursultan Nazarbaev in Kazakistan. Evidentemente le reazioni conflittuali nel suo “giardino d'oro” sono state tali da modificare in itinere questa prospettiva e accettare l'emendamento costituzionale che azzera il limite dei due mandati. La riforma ha previsto anche una ridefinizione dei rapporti fra governo e parlamento, cercando di coinvolgere quest'ultimo nella nomina del Primo Ministro e del diritto internazionale che sarà subordinato a quello interno. Ci sono stati anche interventi in ambito sociale relativi all'indicizzazione delle pensioni e al sistema di welfare (il salario minimo è fissato a pari o al di sopra del costo della vita). Tuttavia, non è ancora possibile valutare l'impatto delle riforme economiche e sociali della riforma costituzionale perché la pandemia ha, ovviamente, costituito la principale emergenza da affrontare. Da un punto di vista economico Putin ha potuto contare sui fondi di riserva federali che hanno consentito di affrontare l'emergenza senza incidere negativamente sul sistema di welfare e sulle condizioni economiche dei cittadini (anche se la disoccupazione è aumentata di qualche punto percentuale), reagendo meglio di altri paesi.
Veniamo alla politica internazionale. Nel Medio Oriente, dalla Libia alla Siria passando per l'Iran, la Russia sta svolgendo un ruolo di primo piano favorita anche da un ruolo dimesso degli americani nell'era Trump e da un'Europa, Italia in testa, che non è in grado di assumere un ruolo diplomatico rilevante. Quali sono gli obiettivi finali di Mosca e pensa che tra questi ci sia una stabilizzazione definitiva dell'area? L'arrivo di Biden alla Casa Bianca cambierà la situazione come sembra dimostrare il recente bombardamento in Siria e in quale direzione?
In questi ultimi vent'anni il principale obiettivo di Mosca è stato quello di essere riconosciuta come una potenza mondiale: la retorica putiniana ha puntato molto sulle “conquiste” a livello internazionale per rafforzare la propria immagine e stabilità interna. Non vi è dubbio che anche per il disimpegno americano la Russia ha dimostrato di essere una potenza regionale nel Medio Oriente, essendo capace di interagire non solo in Siria, ma anche con la Turchia di Erdoğan. Non credo vi siano elementi sufficienti per parlare di una stabilizzazione dell'area, ma certamente la Russia non vuol perdere la sua posizione di dominio, cercando di massimizzare i risultati geopolitici ed economici della sua presenza. La candidatura di Biden è stata percepita come un cambio di passo, una vera e propria discontinuità con la gestione trumpiana. Il recente scontro a parole tra Biden e Putin conferma questa ipotesi. “L'America è ritornata, la diplomazia americana è ritornata” è un chiaro messaggio che indica come gli USA di Biden vogliono riprendere un ruolo incisivo e determinate nella politica internazionale e nel rapporto con l'alleanza atlantica. Nel fare questo non mancheranno situazioni di scontro con la Russia: si pensi alla situazione politica in Bielorussia o al Donbass in Ucraina, alla questione del Nord Stream 2 con la Germania e la “sovranità vaccinale” della Russia (e della Cina). Inoltre, l'America di Biden si prefigge di promuovere i diritti umani, come in passato aveva promosso la democrazia con esiti decisamente deludenti e, pertanto, il caso Navalnyj continuerà a costituire argomento di scontro. Inoltre, la pandemia sta incidendo notevolmente sulla ridefinizione delle priorità dei singoli Stati con l'UE in affanno e sull'ordine geopolitico.
Michael McFaul in un articolo su Foreign Affairs mette in evidenza quanto sia tuttora molto forte la Russia, da un punto di vista militare, economico, tecnologico, e mette in guardia da un errore di valutazione fatto nel corso di questi anni nei confronti della capacità operativa di Putin in molti campi. Spiega anche che la Cina è in questo momento anche una buona spalla per la Russia. Lei che ne pensa? Biden rimetterà in agenda e con quali strumenti un confronto/scontro con Mosca?
Condivido l'analisi di McFaul. La presidenza putiniana ha investito molto nella modernizzazione dell'apparato militare e nelle nuove tecnologie. È indubbiamente molto competitiva sul piano degli indicatori di potenza. Il rapporto con la Cina è strumentale. La Cina può contare sull'apparato militare e la posizione strategica del territorio russo, così come la Russia può contare sul sistema economico cinese e costituire una valida alternativa all'ordine internazionale concepito e delineato dagli Stati uniti negli ultimi anni. D'altronde la Russia ha compreso che non ci sono margini di cooperazione e alleanza significativa con l'Occidente, soprattutto con l'UE cui imputa un'incapacità di fondo di emanciparsi dal dominio americano, e, quindi, si è rivolta verso il suo Oriente. Dapprima ha creato il sistema euroasiatico di commercio e, successivamente, ha avviato forme di cooperazione con la Cina, anche se è consapevole che costituisce, ad ogni modo, un pericolo ad Est. Nell'ottica del “il nemico del mio nemico è mio amico” la Russia ha avviato un'alleanza in chiave antiamericana, volta a creare un ordine multilaterale dove può avere un ampio margine di manovra nella diffusione di quei valori e principi che l'Occidente, secondo Putin, non è stato capace di difendere e valorizzare. Nel fare questo ogni strumento sarà lecito, ma probabilmente si continuerà nella direzione di una Information Warfare in cui fake news e cyber attacks costituiranno il principale terreno di scontro e strumento di soft power.
Un'ultima domanda. Lei è stata molte volte in Russia anche in via ufficiale da osservatrice elettorale ed ha potuto osservare la condizione della donna e dialogare della vita al femminile, cosa ne viene fuori?
Una realtà con luci ed ombre. Da un lato, ho avuto una positiva impressione relativa alla forza e alla grinta delle donne russe, come lavoratrici e nell'ambito famigliare. Sono determinate, preparate e capaci di cogliere gli aspetti positivi della “social life” e non si lasciano scoraggiare dalle situazioni di difficoltà. Un proverbio russo dice che “se l'uomo è la testa, la donna è il collo” per indicare il ruolo fondamentale che le donne hanno nella conduzione famigliare. Dall'altro lato, ci sono ancora elementi tipici di una società patriarcale che ritiene la donna come un “essere inferiore” che deve sottostare alla volontà dell'uomo: è un retaggio culturale e religioso difficile da scardinare nonostante alcuni tentativi dei movimenti femministi di questi anni. Esiste una lista delle professioni ancora proibite alle donne che evidenzia la difficoltà di riconoscere pari dignità e diritti civili alle donne. Ad esempio, in politica solamente il 16% delle donne sono state elette in parlamento, vi sono ancora disparità salariali di genere e la pandemia, purtroppo, ha messo in luce anche l'aumento dei casi di violenza domestica, incrementati anche in seguito alla legge per la depenalizzazione della violenza domestica che attinge ai valori “tradizionali e religiosi” della società che è racchiusa nel detto “se ti picchia vuol dire che ti ama”. E sinora sembrano inefficaci le rivendicazioni e le attività di sensibilizzazione sul tema da parte dei movimenti femministi.
Pasquale Esposito
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