
In queste settimane il dibattito sul salario minimo a 9 euro lordi si è nuovamente riacceso in quanto entro ottobre del 2024 gli Stati europei dovranno accogliere la nuova legislazione sull'adeguamento dei salari minimi stabilita in una Direttiva emanata dal Consiglio europeo nell'ottobre del 2022, e pertanto il governo, a seguito della legge delega per il recepimento delle direttive europee e di altri Atti dell'Unione stessa, deve iniziare a predisporre gli strumenti per la disciplina della materia [1].
Il salario minimo rappresenta appunto la retribuzione minima che dovrebbe essere garantita ai lavoratori per una determinata quantità di lavoro. Questa definizione, rintracciabile tra l'altro nei documenti dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, trova la sua consacrazione e tutela già nella Costituzione italiana all'articolo 36 che recita: «Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa». Nell'articolo sono stati affermati due principi basilari e cioè quello della «sufficienza» e quello della «proporzionalità», che proprio con una legge che disciplinasse il salario minimo troverebbero (in parte) pratica attuazione.
Nella costruzione dell'impianto costituzionale, si immaginava che i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali registrate e con personalità giuridica, avrebbero avuto efficacia obbligatoria per tutti quei lavoratori appartenenti alle categorie per il quale il contratto si riferiva. La linearità del concetto, comunque, non riuscì ad abbracciare l'intera categoria dei lavoratori perché gradualmente si costituirono realtà datoriali non associati a nessuna organizzazione padronale, e pertanto non giuridicamente tenuti all'osservanza della normativa. Lo sbilanciamento, in quei casi, veniva corretto dalla giustizia del lavoro che applicava a beneficio del lavoratore, cioè alla parte più debole del rapporto, quel quantum di retribuzione estrapolandolo proprio dai minimi tabellari previsti dai contratti collettivi.
Adesso con la Direttiva UE alla quale ho accennato, non ci sono margini all'interpretazione stabilendo in maniera perentoria all'articolo 25 che ciascuno Stato membro con un tasso di copertura della contrattazione collettiva inferiore all'80% è obbligato ad adottare misure idonee a rafforzarla. Ovviamente, se la soglia è superiore a quella percentuale l'obbligo non esiste. La disposizione nasce dall'osservazione che gli Stati con una elevata copertura della contrattazione collettiva tendono ad avere una minore percentuale di lavoratori a basso salario.
L'Italia, ha un livello di copertura della contrattazione collettiva superiore all'80%. Quindi tutto bene per noi? Sembrerebbe proprio di no perché “dietro” quella percentuale, quasi in penombra, c'è il dato fornito da Eurostat per cui
«l'11,7% dei lavoratori italiani sono poveri. Nell'ultimo decennio, il tasso di povertà lavorativa in Italia è aumentato di circa 5 punti percentuali […]. Il lavoratore povero è di età compresa fra i 18 e i 64 anni che, pur lavorando almeno 6 mesi durante l'anno, vive in una famiglia il cui reddito disponibile equivalente è inferiore al 60% del reddito equivalente medio. La povertà lavorativa è quindi una forma di povertà relativa che esprime la difficoltà economica dei nuclei familiari in rapporto al livello economico medio e di vita dell'area territoriale in cui la persona vive» [2].
Non solo, ma questa crescita sta avvenendo in un contesto di evidente peggioramento causato – fra i tanti fattori le guerre in corso – a causa dell'inflazione. Questo contesto in rapido sviluppo, coinvolge proprio i processi dinamici della retribuzione come è stato osservato nel monumentale XXI Rapporto Annuale (luglio 2022) dell'INPS, Conoscere il Paese per costruire il futuro, dove si legge che
«se il quadro occupazionale appare promettente, segnali più preoccupanti vengono dalla dinamica retributiva[…] che dipende fortemente dalla attività e dalla copertura contrattuale. I contratti Collettivi Nazionali di Lavoro che coprono oltre 100.000 dipendenti risultano 27 e concentrano il 78% dei dipendenti privati; quelli che interessano più di 10.000 dipendenti sono 95 e ad essi fa riferimento il 96% dei dipendenti delle imprese private extra-agricole. Se la retribuzione media giornaliera per i dipendenti a full-time è pari a 98 euro, in sei tra i principali CCNL è inferiore a 70 euro. Per i dipendenti a part-time la retribuzione media giornaliera è pari a 45 euro, ma risulta inferiore ai 40 euro al giorno per i dipendenti di alcuni comparti artigiani (metalmeccanico, sistema moda, acconciatura/estetica)» [3].
Chiudendo la cornice normativa e statistica, è evidente come l'introduzione di un salario minimo sia stata auspicata da più parti – partiti, sindacati ed associazioni datoriali – le quali sanno benissimo, e questo è un dato da non sottovalutare, che la misura si rivolgerebbe proprio per i dati forniti dall'INPS, a fasce marginali della forza lavoro e il fatto che questo piccolo comparto sia costituito maggiormente da giovani, donne, immigrati, non può certo autorizzare nessuno a considerarlo un problema di secondaria importanza.
Ma tornando a quanto sancito dalla Costituzione italiana, sorge a questo punto una domanda: siamo sicuri che un salario minimo a 9 euro lordi l'ora, cioè 7 euro e spicci netti, sia sufficiente?
Per le opposizioni – Pd, Movimento 5 Stelle, Alleanza Verdi e Sinistra, Azione e +Europa – sembra di sì, o quantomeno quell'importo è considerato come il limite minimo sotto il quale non si può scendere. Di avviso totalmente contrario è il giudizio dato dal sociologo Marco Revelli che in una nota trasmissione televisiva ha commentato cosi: «9 euro lordi è lavoro servile, non saremmo nel campo del lavoro di una società moderna ma saremmo in una logica schiavistica al di sotto di quei livelli. La parola schiavista purtroppo è una parola terribilmente antica e noi stiamo precipitando al prima delle soglie della modernità»[4].
Di fronte ad una opposizione che comunque appare compatta a portare avanti la sua proposta, va registrato il risveglio della maggioranza sull'argomento e lo fa con una proposta partita dal capo gruppo di Forza Italia alla Camera, Paolo Barelli nel cui disegno di legge, dove in maniera forse sibillina non si parla di salario minimo ma di «retribuzione equa», precisa: «La differenza fra la nostra proposta di legge e la loro [cioè delle opposizioni, ndr] è che noi siamo d'accordo con quanto disse l'allora ministro del Lavoro Orlando nel 2021[…] e la stessa cosa disse Landini»[5]. In breve, Forza Italia è favorevole alla detassazione delle tredicesime, del lavoro notturno e dello straordinario per chi guadagna meno di 25 euro lordi l'anno.
Credo, poi, non vada perso di vista un dato di fatto e cioè che il lavoratore povero non è più identificabile nella fascia della storica «classe operaia» di marxiana memoria. Oggi, il lavoratore si deve confrontare con le sfide poste da un mercato del lavoro molto più agile e competitivo di quello novecentesco; ad esempio deve fronteggiare le conseguenze dettate dalle piattaforme digitali, dall'abbassamento del livello del welfare, dall'assenza di meccanismi retributivi che lo proteggono dall'inflazione. L'introduzione del salario minimo va visto come il primo passo per contrastare il degrado nel mondo del lavoro. Forse il salario minimo potrebbe anche togliere dal mercato quelle imprese che alimentano la precarietà e finiscono per non rispettare le normative sull'ambiente di lavoro e che magari fanno concorrenza sleale alle aziende «sane». Quest'ultimo aspetto riguarda sostanzialmente temi di sicurezza sul lavoro e di politica industriale, assente questa da anni nella politica italiana senza eccezioni, così come nel governo Meloni.
Tornando al salario minimo, il governo ha ritenuto più conveniente scaricare la pratica sui tavoli del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro (CNEL), liberandosi forse in modo improprio di una competenza tutta sua. Il paradosso dell'intera questione è che mentre il governo si è di fatto liberato di un problema che non ritiene tale o che forse non l'«affascina», è rimasto sordo anche ad una seria riflessione sull'argomento pervenuta – forse neanche tanto sorprendentemente – dal capitalismo industriale e finanziario, che nel consueto meeting a Cernobbio, ha messo in chiaro che «sostenere che è inevitabile mantenere gli attuali livelli salariali per garantire la sopravvivenza delle imprese, senza chiedersi se sia accettabile avere interi comparti basati interamente sul semi-sfruttamento, forse non è la strategia più opportuna per un Paese solidaristico»[6]. Un rimprovero al governo? Una lezione di etica sociale impartita dai nostri capitalisti? Sarei molto cauto comunque negli elogi. Bisogna ricordare che al di là della posizione della Confindustria resta il fatto che l'Italia è l'unico Paese per l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) dove gli attuali salari sono più bassi di 30 anni fa, e dove non si registra un'accelerazione nell'adeguare le buste paga all'inflazione, decurtandone il valore reale.
Ma c'è anche un altro aspetto che irrompe nel contrasto fra i diversi punti di vista e cioè la creazione di una possibile falla nella certezza del diritto, proprio quando il legislatore ha deciso di non decidere, delegando un Ente – il CNEL – che ha solo compiti consultivi, a pronunciarsi. Cosa che è avvenuta il 12 ottobre scorso, quando il CNEL ha approvato un documento contrario all'introduzione del salario minimo per legge affermando, in sostanza, che a questo scopo è sufficiente la contrattazione collettiva e bocciando, inoltre, un emendamento che tendeva almeno alla sperimentazione in alcuni settori, andando – più o meno coscientemente – in rotta di collisione con quanto affermato pochi giorni prima dalla Corte di Cassazione – sentenza n. 27713 del 2 ottobre 2023 – e cioè che i livelli minimi fissati dai contratti collettivi in molti casi sono insufficienti a garantire i principi sanciti dall'art. 36 della Costituzione sulla retribuzione [7].
La decisione del CNEL ha preso corpo basandosi su queste osservazioni:
– la povertà lavorativa è collegata, più che agli standard retributivi applicati, ai tempi di lavoro (cioè allo scarso numero di ore lavorate), alla composizione familiare del lavoratore e all'azione di redistribuzione dello Stato;
– la contrattazione collettiva pirata, relativa a contratti stipulati da sindacati poco rappresentativi o sconosciuti, è un fenomeno marginale;
– i contratti collettivi italiani anche quando sono scaduti assicurano un salario adeguato a una popolazione di 13.839.335 di lavoratori;
«In conclusione, tra i due percorsi possibili per l'introduzione nel nostro Paese del salario minimo, quello legale e quello contrattuale, il Cnel consiglia di adottare il secondo, accompagnato da un piano di azione nazionale a sostegno di un “armonico e ordinato ”sviluppo del sistema della contrattazione collettiva, ipotizzando meccanismi di sostegno e rafforzamento della sua efficacia» [8].
C'è nella posizione assunta dal CNEL un'arroganza di fondo che infastidisce non poco perché, e questa volta volutamente, si fa finta di non comprendere che i salari stabiliti dalla contrattazione collettiva possono essere disapplicati dal giudice e sostituiti da uno più congruo al fine di rispettare il dettato costituzionale. Infatti, la Corte di Cassazione con due sentenze innovative, che faranno storia, la n. 27711 e la n. 27769 del 2 ottobre scorso, ha affermato in modo perentorio il dovere del giudice di controllare l'adeguatezza del parametro retributivo applicato e, dove qualora questo non fosse in linea con il principio costituzionale fissato dall'articolo 36, viene concesso al giudice di individuare nuovi parametri (ad esempio il livello di soglia di povertà individuato dall'INPS) affinché venga assicurato l'allineamento retributivo al dettato costituzionale [9].
Insomma tra governo e CNEL si fa a gara per non intendere che il nostro ordinamento è ispirato a una nozione della remunerazione non come prezzo di mercato in rapporto alla prestazione svolta, ma come retribuzione adeguata per assicurare un tenore di vita dignitoso.
È tanto difficile capirlo!
Stefano Ferrarese
[1] Per i dettagli sul contenuto della Direttiva vedi https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=uriserv%3AOJ.L_.2022.275.01.0033.01.ITA&toc=OJ%3AL%3A2022%3A275%3ATOC,
[2] Valeria De Tommaso, La sfida della povertà lavorativa al welfare locale: quali prospettive per l'innovazione sociale?, 31 gennaio 2022
[3] INPS, XXI Rapporto annuale, Conoscere il paese per costruire il futuro, pag. 14 e ss.
[4] https://www.la7.it/in-onda, 12 agosto 2023
[5] Giovanna Casadio, Salario minimo, Forza Italia sfida il Pd: boccia i 9 euro, proposta di legge per la contrattazione, 22 ottobre 2023
[6] Emiliano Mandrone, Zio Paperone e il salario minimo, 14 ottobre 2023
[7] Salario minimo costituzionale: per la Cassazione va garantito
[8] Lucia Valente, Salario minimo: un conflitto istituzionale, 13 ottobre 2023
[9] Salario lavorativo: Corte di Cassazione, sentenza 27711/2023, 3 ottobre 2023
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