
Calma, calma napoletani, come sempre veraci, con i tanti tifosi della squadra al seguito, in altre città italiane o all'estero, espressione di straordinaria empatia.
Dopo trentatré anni, una risurrezione, “miracolosa”, evocatrice del controverso analogo lasso di tempo della vita di יְהוֹשֻׁע (Yeshu'a, Ἰησοῦς, Iēsoûs, Giosuè, Yahweh, Gesù).
Per divertirsi, anche poetando volgarmente o inventandosi un inedito e catartico carnevale, dalla culla natia della collina di Pizzofalcone e delle aree limitrofe al Palazzo delle poste, quella mega fabbrica che occupa l'intera piazza Matteotti e gran parte del tracciato di via Monteoliveto, da Furcella a Piazza del Plebiscito, dalle zone di Avvocata, Montecalvario, San Giuseppe, Porto, Pendino, Mercato, Chiaia, San Ferdinando, Stella, San Carlo all'Arena, San Lorenzo e Vicarìa, alle colline del Vomero e Posillipo, ed oltre, c'è motivo, forse [1].
Certo oggi può brillare un solitario fiore rosso con intorno un terso cielo azzurro. Tuttavia, non è il caso di scomodare in modo filisteo l'Antropologia per tentare di spiegare l'andamento disinibito e disinibente dell'incendio folcloristico che s'annuncia e che, probabilmente, a lungo durerà; piuttosto, in queste circostanze va rammentata la Storia e la Storia – quella delle classi subalterne – narra che «con la forca, la farina e le feste io governo Napoli» diceva sarcastico la mattina del 22 Settembre 1798, Ferdinando, guardando il “popolo vestito a festa” occupare la rena di Margellìna, simbolo d'inconsistenza, di mancanza di fondamento. Il popolo, non la sabbia, intendeva subdolamente il borbonico sovrano.
Popolari e salutari sono altri i momenti della storia della “demoniaca” Parthenŏpe … ad esempio, quando, sull'onda della Rivoluzione francese, i patrioti napoletani riuscirono a scacciare il re e a instaurare una repubblica, al grido di «libertà, fraternità e uguaglianza». Era il 1799.
«Siete finalmente liberi! La vostra libertà è il solo prezzo che la Francia vuol ritrarne dalla sua conquista»; è la sola clausola del trattato di pace che l'Armata della Repubblica giura solennemente con voi fin dentro le mura della vostra capitale e sopra il rovesciato trono dell'ultimo re vostro», recita il Proclama di Championnet del 4 Piovoso, 23 Gennaio 1799.
La comparsa a Napoli dell'esercito francese del generale Championnet e l'investitura di un Governo provvisorio diede inizio, il 23 Gennaio 1799, alla Repubblica napoletana. La sua permanenza fu di 5 mesi e venti giorni, un periodo in cui, sulla dilagante ed inarrestabile spinta della Rivoluzione francese, la città, insieme alle province del Regno di Napoli, visse la sua fase di insubordinazione volta a sperimentare una forma di Stato di carattere rappresentativo – la Repubblica, appunto – dopo la fuga di re Ferdinando IV di Borbone a Palermo, sulla nave dell'ammiraglio inglese Nelson che vi attraccò il 27 Dicembre 1798.
In un lasso di tempo così fugace si esaurì la vicenda d'una generazione d'intellettuali e di rivoluzionari formati alla scuola di Giambattista Vico, di Gaetano Filangieri e dell'Illuminismo, che, consapevoli dei guasti sociali indotti dalle sopravvivenze medioevali dai secoli precedenti, partorirono l'idea che l'ordinamento statale fosse da trasformare e da rivoluzionare le forme di vita civile. Avvocati, medici, giovani delle professioni liberali, dei ranghi della nobiltà cadetta formata nei nuovi collegi militari e chierici destinati alla carriera ecclesiastica furono i protagonisti del 1799 a Napoli.
Dopo la fuga del re con tesori, denaro, mobilio e biancheria, divenne suo vicario generale il principe Francesco Pignatelli Strongoli, che il 12 Gennaio decise per la firma del gravoso armistizio di Sparanise (nei pressi di Caserta) con i francesi. Tuttavia, le clausole durissime per le classi meno abbienti fecero sollevare il popolo, che si sentì tradito.
Va ricordato [2]che i lazzari napoletani – i giovani dei ceti popolari della Napoli del XVII-XIX secolo – si armarono e si organizzarono per combattere, aprirono le porte delle prigioni per scegliere i propri capi militari e affrontare i francesi. Tra i seimila condannati liberati c'erano anche molti giacobini – i patrioti napoletani, come preferiva chiamarli lo storico e filosofo Benedetto Croce – arrestati nel corso delle persecuzioni del 1794 e del 1798, tra i quali una delle donne protagoniste della rivoluzione, Eleonora De Fonseca Pimentel.
Furono giorni di furore: le case dei giacobini, considerati nemici dalla plebe, furono saccheggiate; le loro biblioteche date alle fiamme; il teatro San Carlo fu occupato e i castelli della città – Castel Nuovo (noto anche come Maschio Angioino), Castel Sant'Elmo, il forte del Carmine, Castel dell'Ovo – assaltati. Il vicario Pignatelli fuggì travestito con gli abiti della moglie e con lui non solo i patrioti, ma anche gli esponenti delle classi abbienti, ritenuti colpevoli della catastrofe politica, economica e morale e di aver aperto le porte ai francesi. La totale “anarchia popolare” portò all'eccidio della famiglia Filomarino e, subito dopo, iniziò la battaglia di Napoli tra il popolo insorto e l'esercito di Championnet.
Il 21 Gennaio i giacobini riuscirono a entrare a Castel Sant'Elmo, estrema roccaforte della città sulla collina del Vomero, e dal suo versante più alto fecero sventolare, accompagnata da quattro cannonate, la prima bandiera tricolore improvvisata, fatta da un pezzo bianco dell'antica bandiera, un cappotto blu e alcune monture rosse. La Repubblica era stata proclamata. Due giorni dopo il generale francese s'impossessò del Castello e, per estensione, della città stessa. Dopo l'arrivo dei francesi, tra i vicoli della città si cantarono versi come: “È venuto lu franzese cu nu mazzo de carte ‘nmano. Liberté Egalité Fraternité tu rubbe a me, io rubbo a te”. Tra questi, anche quelli del canto più celebre dei lazzari, “A lu suono de le campane viva, viva li populane! A lu suono de li violini sempre morte a' Giacobbini!”. Folla varia, gente senza un mestiere, facchini, pescatori, marinai, manovali, per qualcuno “il popolo di Dio”, essi avevano combattuto da “capi intrepidi”.
Lo stesso Championnet scrisse al Direttorio – l'organo politico-istituzionale posto al vertice delle istituzioni francesi nell'ultima parte della Rivoluzione – che «Mai lotta fu più accanita, mai quadro fu più terrificante. I lazzaroni, questi uomini meravigliosi, sono degli eroi». Per il Corriere di Napoli e Sicilia non erano altro che «gente ignorante, credula, e sempre ingannata da i nobili aristocratici, da i preti fanatici, e da una Corte perversa e sanguinaria». I lazzari, insieme ai contadini, erano parte di quel popolo napoletano dal quale i repubblicani erano molto distanti per estrazione sociale, cultura e lingua e di cui non conoscevano i bisogni reali.
Dopo l'8 Maggio 1799, giorno della partenza dei francesi salutata con gioia da tutta la città, quel popolo non insorse, non si videro le scene di gennaio e non vi fu la caccia al giacobino.
Ma la Repubblica non ebbe vita facile. Il governo provvisorio, costituito da venti membri tra cui Carlo Lauberg, Mario Pagano, Melchiorre Delfico, Domenico Cirillo, Pasquale Baffi e Cesare Paribelli, in pochi mesi svolse un'intensa attività legislativa per rovesciare l'antico regime e gettare le basi di una società nuova, fondata sull'uguaglianza di fronte alla legge. Questi «grandi idealisti e cattivi politici», come li definì Croce, oltre a legiferare tentarono di coinvolgere proprio quel popolo nella Repubblica attraverso i giornali e le società popolari, organi importanti per la circolazione del dibattito politico.
. . . E così via. Altre convulsioni politico-sociali – la “reazione” – coinvolgeranno e sconvolgeranno il coraggioso popolo napoletano …
Le prigioni del Regno furono riempite di 40.000 cittadini, rinchiusi in massa nelle carceri di quel Castello, dei Granili, della Vicaria, il «carcere nefando, senza luce, senz'aria, senza sole», e nella famosa “fossa del coccodrillo”, tenebrosa e profonda caverna di Castel Nuovo. A Piazza Mercato, la stessa in cui erano stati giustiziati Corradino di Svevia (nel 1268) e Masaniello (nel 1647), fu eretto il patibolo per umiliare pubblicamente i condannati, tra le urla e lo scherno della folla. Uno tra gli estremi difensori della Repubblica, Gennaro Serra di Cassano, la osservò ed esclamò «perché il popolo non ha capito?»; Oronzo Massa chiese al boia di fare presto perché non aveva «tempo da perdere»; Giovanni Andrea Vitaliani suonò la chitarra fino al momento dell'esecuzione; Domenico Cirillo urlò al suo aguzzino: «In tua presenza, codardo, io sono un eroe!».
Francesco Mario Pagano, il “Robespierre di Napoli”, salì sulla forca calmo, davanti a un popolo silenzioso. Con essi anche quelle donne che tanto avevano dato alla Repubblica napoletana, Eleonora De Fonseca Pimentel e Luisa de Molino Sanfelice. Quest'ultima fu giustiziata l'11 settembre 1800, quando un macellaio come boia le dovette tagliare la testa con un coltello perché con la mannaia aveva sbagliato colpo.
Molti anni più tardi … nuovamente fieri i napoletani tornano a “fare la storia”. Le Quattro Giornate di Napoli sono ufficialmente ricordate e definite come una insurrezione popolare contro le forze di occupazione tedesche, avvenuta tra il 27 ed il 30 Settembre 1943.
Giovanni Dursi
[1] Cfr. “Un calcio a questo calcio”, Giovanni Dursi, 24 Agosto 2018, mentinfuga.com.
[2]Fonti: “La rivoluzione del 1799: la Repubblica napoletana”, Rosa Maria Delli Quadri, 13 Giugno 2021, National Geographic; “Repubblica napoletana del 1799”, Anna Maria Rao, FedOA – Federico II University Press, 2021.
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