
In questi giorni sono in corso manifestazioni e iniziative in tutta Europa contro l’approvazione del Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP) tra UE e USA. Infatti dal 10 al 17 ottobre prossimo si svolge la settimana mondiale di protesta, gli “International days of action“. L’obiettivo è spingere affinché si blocchino i negoziati per il Ttip ma anche affinché il Consiglio e il Parlamento europei non ratifichino il Ceta, l’accordo con il Canada recentemente chiuso.
A Berlino la protesta è stata imponente con 250.000 persone in piazza a gridare la propria opposizione agli accordi. La chiusura sarà di sabato 17 ottobre a Bruxelles con il raduno di tutte le reti internazionali in un presidio contro il TTIP, quello fra Ue e Canada (CETA) e l’accordo TiSA per la liberalizzazione dei servizi. Nel frattempo sono state consegnate 3,2 milioni di firme per dire no.
Intanto con un e-book la Commissione Europea prova a difendere il Trattato sfatando «alcuni miti [sono 10 quelli elencati, ndr] … sviluppati attorno a quel che il Ttip produrrebbe o non produrrebbe. Contestazioni che semplicemente non sono vere».
Se certe questioni non fossero vere non si capisce perché dal 2013, quando è stato fatto il primo passo, si è dovuto attendere l’intervento dell’Ombudsman europeo, nel novembre 2014, spinto dalla protesta generalizzata ad obbligare la Commissione europea di rendere più accessibili i documenti anche se non sono mai stati pubblicati tutti i documenti. E non si capisce perché in occasione della votazione (436 SI tra i 709 deputati presenti) sulla risoluzione dell’8 luglio scorso il presidente dell’Europarlamento il socialdemocratico Martin Schulz, «con un’iniziativa anomala, ha eliminato l’emendamento 40 al testo che consentiva all’Aula di esprimersi su uno dei temi più controversi e cioè l’arbitrato internazionale (Isds) che dovrebbe redimere le dispute tra Stati e investitori. Di fatto ci sarà ma cambierà nome e non dovrebbe più essere un organismo privato, così come già funziona ora per molte controversie internazionali, ma un’istituzione composta da “giudici togati, nominati pubblicamente e indipendenti” e con “udienze pubbliche”. Un compromesso poco onorevole e con contenuti generici» [2].
È difficile accettare, per quanti paletti si possano creare, un sistema che legittima, quello dell’arbitrato internazionale, la possibilità che un interesse privato possa sopravanzare quello pubblico, comune che normalmente guida le leggi dello Stato. Un paio di esempi su cosa già accade? La Vattenfall, un’azienda svedese di energia elettrica ha chiesto 4 miliardi di euro di risarcimento alla Germania per aver abbandonato l’energia nucleare; mentre la Philipp Morris ha fatto altrettanto con l’Uruguay per il divieto delle sigarette ai minori di 18 anni e in generale per la pubblicità antifumo.
Il tema dell’arbitrato è di notevole rilievo perché di fatto un organismo terzo, che non appartiene alla magistratura ordinaria dei paesi a cui sono sottoposti i cittadini, potrà decidere su controversie con gli Stati che possono essere chiamati dalle aziende, a loro parere, danneggiate dalle leggi o iniziative degli stati nazionali. In questa maniera si mette in discussione l’unitarietà e soprattutto il campo di azione del potere giudiziario, uno dei tre poteri che nelle democrazie liberali sono il cardine della democrazia.
Inoltre è evidente che ci troveremo di fronte ad una disparità di trattamento: le multinazionali, in caso di controversie, si rivolgeranno all’arbitrato internazionale, mentre le aziende nazionali faranno ricorso ai tribunali ordinari. Questa disparità potremmo ritrovarcele anche tra gli stessi ricorrenti se pensiamo ai costi per la gestione dell’arbitrato che necessariamente saranno esorbitanti favorendo chi ha uffici legali in grado di affrontare giudizi in campo internazionale. In un rapporto del 2012 [3] sull’attuale sistema di arbitrato – ISDS – si parlava di una media di circa 8 milioni di dollari per i costi legali e di arbitrato che mediamente tra avvocati ed esperti rappresentavano l’82% del totale dei costi. Evidentemente nel caso in cui più aziende ricorrano insieme (mass claim), i costi si moltiplicano e se lo Stato perde deve pagare tutte le spese. In un caso di arbitrato le parti avevano speso quasi 40 milioni di dollari per le sole spese legali e solo per arrivare alla decisione tribunale che era competente a decidere nel merito.
Nel rapporto si afferma anche che sta nascendo una vera e propria “industria degli affari legali internazionali” e, a mio giudizio, questo aumenta i rischi di sperequazione. Una vera è propria industria potrà diventare una lobby che si muoverà su interessi propri accentuando le caratteristiche di questi sistemi gestiti da pochi e con tante disponibilità finanziarie.
Sempre nello stesso rapporto si legge che «le regole di assegnazione tali costi tra le parti sono molto flessibili e sono una fonte di incertezza sia per i ricorrenti e i chiamati in causa». Non è detto che accada sempre ma è probabile.
Come dire le piccole aziende e quelle artigianali che compongono il tessuto connettivo dell’economia italiana dovrebbero essere più attente nei giudizi verso il TTIP.
Pasquale Esposito
[1] “Ttip, la Commissione Europea svela in un e-book 10 falsi miti”, www.affaritaliani.it, 12 ottobre 2015
[2] Pasquale Esposito, “In Europa la democrazia perde terreno: sul TTIP manca un dibattito in Parlamento”, www.mentinfuga.com, 9 luglio 2015
[3] Organisation for Economic Co-operation and Development, “Government perspectives on investor-state dispute settlement: a progress report”, 14 dicembre 2012
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