
Probabilmente non pochi avranno visto il recente film di Woody Allen, Irrational Man, la storia di un professore di filosofia che, sebbene molto in gamba e affermato, è tormentato dalla mancanza di senso nella vita. Nel film vengono citati vari filosofi, tutti in modo divulgativo e superficiale, ma comunque utile per operare una riflessione importante sulla condizione dell’esistenza umana. Di quell’essere nel mondo, cioè, fuori dalle pagine dei testi filosofici, ma forte del loro contenuto. A tal proposito scrisse J. P. Sartre, affermando che l’uomo è condannato alla libertà. Proprio quella bramata libertà che l’uomo cerca e rivendica e che deve giustamente avere tutelata come diritto inalienabile. È condannato perché non si può attribuire a nessuno la responsabilità di una propria scelta. In ogni caso, anche quando le circostanze sembrano farla da padrone, quando è il caso a metterci lo zampino e quando la malattia ci sorprende, nei ruoli, nelle questioni ambigue, rimane sempre inesorabilmente l’uomo stesso a dover prendere una decisione, grazie alla libertà. E così, che si condivida o meno questo punto di vista, anche se spesso si è accusato l’esistenzialismo di essere una filosofia effimera e libertina, si può constatare che invece, al contrario, essa responsabilizza del tutto l’uomo, proprio nel condannarlo alla libertà. Valore che si finisce superficialmente per odiare, pur bramandolo. Kierkegaard, uno dei padri dell’esistenzialismo, da parte sua aveva già scritto: “Ciò che io sono è nulla; questo procura in me e al mio genio la soddisfazione di conservare la mia esistenza al punto zero, tra il freddo e il caldo, tra bene e male, tra la saggezza e la stupidaggine, tra qualche cosa e il nulla, come un semplice forse. Paradossale è la condizione umana. Esistere significa poter scegliere, anzi, essere possibilità. Ma ciò non costituisce la ricchezza, bensì la miseria dell’uomo. La sua libertà di scelta non rappresenta la sua grandezza ma il suo permanente dramma.”
Chi non ha mai riflettuto sulla morte? E sulla contrapposizione fra bene e male? Chi non si è mai chiesto se il proprio modo di vivere sia giusto? Porsi queste domande equivale a chiedersi: “chi non ha mai preso un caffè o un’aspirina?” Chiunque l’abbia fatto, stando alla filosofia citata, è umano, profondamente umano, così come è umano provare angoscia al momento di scegliere di fronte ad un bivio, ad un aut-aut. Il sapore salato e frizzante di un’aspirina, l’amaro di un caffè al posto di una coccola dolce al miele, le esperienze fine a se stesse piuttosto che legate ad un senso, possono essere una forma di catarsi come il dolore che si autoinfliggono alcune persone per punirsi di qualche mancanza, angoscia, ansia, colpa che derivino proprio dalla condizione di esistere, da quello che Kierkegaard ha definito, in modo poco consolatorio, dramma.
Il protagonista di Bollicine racconto di Antonio Fresa (premiato a Milano e pubblicaato in “Vi… Racconto!” da Ellera Edizioni 2015) è un uomo che parla in prima persona e condivide la sua riflessione fatta davanti alle bollicine di un bicchiere d’acqua in cui è stata, con immensa perfezione, gettata un’aspirina. Un uomo qualunque che, giunto all’età di circa cinquant’anni, si trova in uno stato di profonda consapevolezza di se stesso e delle sue manie, tanto da essere in grado di condividerle senza timore e di applicare ad esse una spiegazione. Addirittura di farne una giustificazione di scelta importante. Citiamo:
Da questo paesaggio di fitta individualità sono nate le mie manie. Ne sono consapevole. (…) È tempo di aprirvi il mio cuore e mettervi a parte dei miei segreti. Non abbiate pregiudizi e ricordate che molti uomini potrebbero ringraziarmi per aver speso il mio tempo a salvare il mondo o almeno questa piccola parte d’Italia.
In fondo non è mai così scontata la moralità, l’etica di ciascun uomo, specialmente di quell’uomo che non abbraccia una condotta di vita condivisa da un gruppo, da una religione, da uno statuto. Ci sono le leggi, è vero, quelle che dovrebbero essere a tutela del diritto alla vita di tutti. Ma ci sono soprattutto le leggi interiori, l’etica, i dissidi, i vissuti. Tutte queste cose, private, a causa di certe esperienze, prima delle emozioni e poi gradualmente dei sentimenti, possono spingere qualunque uomo, di fronte all’aut-aut “vita-morte”, a far propendere la propria scelta verso la morte di sé stesso o di un altro uomo. E così tutti gli uomini, nella loro condizione più naturale di esseri gettati nel mondo, sono inesorabilmente potenziali suicidi o, peggio ancora, killer. Il protagonista anonimo del racconto, perso nella spirale delle sue riflessioni, giunge anche a chiedersi se la sua colpa sia proprio il non aver fede:
Sono malato, almeno credo: nostalgia, malinconia e passato. (…) Il non avere fede era la mia colpa?
Questi accessi di ira, questa insostenibilità dell’essere, questa malattia da cui si sente affetto, da cosa derivano? Le manie e i rituali quotidiani lo aiutano a mantenere uno stato di quiete rassicurante, ma basta un imprevisto a farlo ricadere nel gioco perverso dei suoi pensieri e delle sue paure. Che, ad un tratto del racconto, sembrano voler sfociare del tutto in un delitto:
Ancor prima di spiegare il senso delle mie azioni, premetto che ho giurato di applicare anche alla mia vita le rigide regole che ho usato per gli altri.
E comincia a farsi strada nella sua mente la voglia di operare un controllo spietato sulla vita di un’altra persona, su una vita giudicata quasi indegna e, come dire, sbagliata per i suoi gusti. Ma l’epilogo è ben diverso da quello che ci si aspetta, soprattutto dopo aver visto il film Irrational Man, il cui professore molto stimato dai suoi studenti, sceglie proprio di uccidere, attraverso un delitto perfetto. Come se questo potesse rispondere alla sua esigenza di dare un senso alla vita.
Perché pare che nell’atto di dare o togliere vita ci sia il desiderio di soddisfare il proprio sogno di onnipotenza nel non avere più alcun bisogno. Come potrebbe fare un creatore, un dio, un demonio. Oppure di appagare il senso della mancanza che difficilmente può essere soddisfatto in vita.
Infatti, sempre citando Kierkegaard: Nulla di finito, nemmeno l’intero mondo, può soddisfare l’animo umano che sente il bisogno dell’eterno.
Il protagonista del racconto di Antonio Fresa dice:
Quando ormai era in mio potere, ho usato la clemenza della provvidenza, quella grande immensa distanza che separa il creatore dalle creature. Ho scelto così per gioia che ogni suo successivo respiro rappresentasse un omaggio al mio potere. Potere è lasciar vivere chi si vorrebbe morto.
Egli, accortosi di essere ancora in grado di provare amore, pur detestando questo sentimento come fosse una tremenda condanna, una punizione, una sorta di macigno di Sisifo, opta proprio per la vita. E questo, comunque, non mina al suo ego, al suo desiderio di eternità. Semmai solo all’ eventuale vittoria nella codarda e paranoica fuga dal sentimento di amore. L’unica sua sconfitta, se così si può chiamare, è soltanto questa.
Eccoci tutti uniti e tutti legati. Da bere o da osservare: tutti noi siamo umili profeti della vita, umili attori della vita. ( …) Solo gli immortali possono non amare.
Il racconto di Antonio Fresa ci aiuta a tenere a mente che amare e sbagliare sono caratteristiche fondamentali dell’essere uomini obbligati a scegliere. Chi filosoficamente accetta che errare sia umano, e che il senso di colpa non possa essere un criterio valido per affrontare una vita, non può che accettare il fatto che lo sia anche l’amare, benché questo possa sembrargli impossibile. L’ interesse per qualcuno, la cura e l’impegno, non sono altro che elementi costituenti una forma di amore. Nutrimento per la vita che, anche in ambito nichilista, può trovare radice in piaceri semplici. All’interno di un pensiero nichilista o in quello esistenzialista per il quale “io sono nulla”, il logico epilogo potrebbe sembrare che “a nulla io devo tendere”. Come in un procedimento al limite che tenda a zero.
Malgrado tutto, al posto del pesante atto di porre fine alla vita, propria o di qualcun altro, possono intervenire piccoli elementi e dettagli che hanno importanza nella loro bellezza e piacevolezza: una consuetudine di cortesia in un bar o in un tabaccaio, un sistema di relazioni, la condivisione di un pensiero di tristezza (come quello che fa la barista al protagonista di Bollicine nel raccontare una improvvisa dolorosa morte), l’ascolto di un leggero disco jazz (come per Roquentin nella Nausea di Sartre o per Sandy un altro celebre film di Woody Allen Stardust Memories, 1980), o, perché no, la possibilità di meditazione data dalle bollicine di un’aspirina fatta cadere ad arte in un semplice bicchier d’acqua.
Adelaide Roscini
Aa. Vv.
Vi… racconto 2015
Antologia dei premiati al concorso Ellera – Vi… racconto 2015
Ellera Edizioni
pag. 80 ADE
Euro 0,99
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