Stato-mafia, le motivazioni della sentenza d’appello

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A quasi un anno dalla sentenza d’Appello emessa il 23 settembre 2021 dalla Corte d’Assise di Appello, la stessa Corte, il 6 agosto scorso, ha depositato le motivazioni della sentenza del processo  “Trattativa Stato-mafia”.

Ricordiamo che la sentenza del settembre passato aveva disposto l’assoluzione degli imputati Dell’Utri (“per non aver commesso il fatto”), dell’ex comandante dei R.O.S. dei Carabinieri Mario Mori, del generale dei Carabinieri Antonio Subranni e del colonnello dei Carabinieri Giuseppe Di Donno, accusati nel processo di Primo Grado di “minaccia a corpo politico dello Stato”, con la formula “il fatto non costituisce reato”. Unici condannati, i boss Bagarella – cognato di Riina – e Antonino Cinà.

Anche ad un osservatore distratto o per nulla interessato a quelle che ancora molti definiscono, con disarmante disinteresse, “beghe” interne al potere, appare evidente che se esiste una sentenza, questa non può che scaturire dalla valutazione di uno o più fatti, o meglio da una serie di comportamenti, di azioni od omissioni, messi in atto per il raggiungimento di un fine. Quindi, con buona pace di chi ha sempre sottovalutato o negato l’evidenza, la sentenza ammette che lo Stato ha trattato con la mafia. Chi aveva sempre puntato il dito accusatore contro i magistrati del processo di Primo Grado, con il pm Nino Di Matteo in testa, accusandoli di aver messo in piedi un teorema a dir poco eversivo, deve ora ricredersi. E non sono pochi quelli che devono cominciare a farlo.

Le motivazioni della sentenza di Appello certificano oltre ogni ragionevole dubbio che furono i carabinieri dei R.O.S. ad intraprendere iniziative – definite dalla Corte “improvvide” – a salvaguardia dell’“interesse dello Stato”, ma non ci dice quale “Stato”, sentendosi alle corde, l’avesse ordinata o avallata, spingendo nell’oblio con un sol colpo di spugna i ricorrenti depistaggi, menzogne e tradimenti proprio di molti uomini che in teoria servivano quello Stato ormai stremato.

A meno che, come sembra abbia fatto la Corte d’Appello, non si voglia sostenere l’ipotesi che i tre ufficiali abbiano pianificato tutto per proprio conto, tagliando fuori i loro diretti superiori – cioè il Ministro della Difesa, quello degli Interni, eventuale, e ovviamente il Presidente del Consiglio – il che potrebbe configurarsi come un reato ben più grave delle “improvvide” azioni messe in atto, anche perché l’aggettivo usato – leggiamo nel vocabolario “Treccani” – indica il comportamento di colui (o coloro) che non sa prevedere il futuro e soprattutto i mali che possono venire.

Quindi questo avrebbe caratterizzato l’agire dei tre ufficiali dei Carabinieri, un pericoloso gioco sviluppato a tentoni o per maldestri tentativi “avendo effettivamente come obiettivo quello di porre un argine all’escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più concreto ed attuale il pericolo di nuove stragi ed attentati”.

Obiettivamente sembra che le due cose stridano e collidano paurosamente. Insomma, le sensazioni che si ricavano leggendo o anche sfogliando velocemente le 2971 accuratissime pagine del dispositivo della sentenza, lasciano molte perplessità e incertezze. Si avverte quasi il tentativo, ben riuscito va detto, di ridisegnare la dinamica degli avvenimenti affinché, a fronte di una raffinata e inoppugnabile logica giuridica, si possano lanciare ciambelle di salvataggio agli artefici di quella che, comunque la si voglia vedere è e rimane, una resa per di più disonorevole alla mafia.

Seguendo la ricostruzione fatta dai giudici della Corte d’Assise di Appello si apprende che “la strage di Via D’Amelio era decisa e la sua esecuzione non fu accelerata dalla cosiddetta trattativa”. Una conclusione che nella sostanza destruttura la sentenza di Primo Grado che invece vedeva proprio nella conoscenza da parte del giudice Borsellino del dialogo intrapreso dai Carabinieri con l’ex sindaco mafioso di Palermo Ciancimino, il motivo scatenante l’accelerazione dei tempi dell’attentato nei suoi confronti.

Non solo; sempre nella sentenza di Primo Grado del Tribunale di Assise di Firenze, si affermava che la conoscenza da parte di Riina di una trattativa in corso aveva fortificato la sua convinzione di intensificare gli attentati per mettere in ginocchio definitivamente uno Stato già barcollante.

“È assai più probabile – prosegue il dispositivo della sentenza – incrociando le varie fonti di datazione degli avvenimenti in oggetto, che Riina sia stato edotto dell’iniziativa dei carabinieri del R.O.S. e della sollecitazione rivolta attraverso Ciancimino soltanto dopo che la strage di Via D’Amelio era stata commessa”.

Intanto dire “incrociando le varie fonti” significa che si sono dedotti – ma non provati? – una certa quantità di indizi – e non prove? – che hanno portato a ritenere verosimile la conclusione alla quale è giunto il Collegio giudicante.

Quelle quattro righe della sentenza ci inducono a credere che Riina forse avrebbe desistito dall’organizzazione dell’attentato se solo fosse venuto a conoscenza della trattativa in corso, il che presuppone che i giudici di Appello abbiano ritenuto che nei 57 giorni che intercorrono fra la strage di Capaci e la bomba a via D’Amelio, nessuno lo avesse avvertito e che il solerte e fidato Ciancimino avesse gestito la trattativa da solo, senza aggiornare il “Capo dei Capi”.

Altra chiave di interpretazione potrebbe essere quella – ormai però non più verificabile per la morte dei soggetti interessati – che Riina avesse avuto notizia, a stretto giro, del lavoro fatto dal giudice Borsellino sull’articolato rapporto mafia-appalti il che, se fosse dimostrabile, avrebbe potuto indurre il capo mafia alla frettolosa preparazione dell’attentato di via D’Amelio.

Molte altre sarebbero le osservazioni da fare sulle motivazioni di questa sentenza che genera ombre e perplessità, ma vorrei invece porre in evidenza il fatto che questa sentenza di Appello poggia le sue basi su idee e presupposti che ritengo, in prospettiva, allarmanti.

La prima considerazione, dalla quale credo non si possa sfuggire seppur con fastidio, riguarda quanto affermato in linea generale dalla sentenza stessa e cioè che la trattativa era pur sempre rivolta al fine della difesa dello Stato.

La seconda corre di pari passo ed è altrettanto pericolosa, perché se si giudica l’operato dei Carabinieri – quello cioè di imbastire una strategia che favorisse l’ala “moderata” all’interno della mafia – come azione utile alla difesa dello Stato, confermerebbe il concetto che comunque, date certe condizioni, si possa parlare con la mafia.

L’ultima osservazione nasce sommando le prime due e porta a concludere che la sentenza di Appello abbia svolto la funzione di cerniera per quell’idea che viaggia clandestina, che nessuno ha il coraggio di veicolare in forma definita e compiuta, e cioè che con la mafia si può convivere.

Idea aberrante, eppure qualcuno c’è stato che senza mezzi termini ha detto:”con mafia e camorra bisogna convivere e i problemi di criminalità ognuno li risolva come vuole” [1]. Questo campione del realismo politico e sociale è stato Pietro Lunardi, ministro delle “Infrastrutture e Trasporti” nei due governi Berlusconi del 2001-2005 e dal 2005-2006, con buona pace di tutti.

Stefano Ferrarese

[1] F. Viviano e Alessandra Ziniti, “Convivere con la mafia” Lunardi nella bufera, 24 agosto 2001

 

 

 

 

 

 

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