
Nel 1988 Carlo De Benedetti mosse una battaglia (finanziaria ) furibonda per la “conquista del Belgio”, aveva scoperto che la Société Générale de Belgique, società non particolarmente attiva né popolare, controllava oltre mille società: petrolio, energia, miniere, banche, assicurazioni, compagnie marittime, fabbriche d’armi, di tutto. La reazione del capitalismo belga fu intensa e violenta la battaglia fu persa per poco e il controllo del gigante fu mancato di un paio di punti.
Ci fu una ritirata con perdite, ma fu una delle grandi avventure finanziarie europee, nutrì l’autocompiacimento del pubblico italiano, che aveva creduto ai giornali che avevano parlato di “conquista del Belgio”. Forse il punto più alto dell’ambizione del capitalismo familiare italiano e di tutta l’organizzazione finanziaria del paese che sembrò in grado di poter competere nei mercati con tutti. Il massimo che il capitalismo relazionale interpersonale cioè dominato dalle relazioni e non dalla competitività.
Sono passati meno di trent’anni, e stiamo raccogliendo i cocci di un sistema che aveva già in se i germi dell’autodistruzione. Gli studi sugli effetti economici del libero commercio mostrano come questo avvantaggi le imprese più internazionalizzate e competitive mentre favorisce l’espulsione dal mercato delle imprese meno efficienti.
Nonostante le indicazioni del Sole 24 ore ( Simone Filippetti, 07 ottobre 2011 ) che solo tre anni fa affermava: il capitalismo familiare è diventato il baluardo di Piazza Affari. Regge meglio alla burrasca dei mercati l’Italia delle medie aziende. Performance alla mano, un sottile filo rosso accomuna i titoli che fanno a capo a famiglie imprenditoriali. Il sistema è andato in profonda crisi!
Il capitalismo familiare è stato preponderante nella realtà italiana e importante in Europa. L’impresa familiare è stata al centro della crescita e ha, a suo modo, contribuito allo sviluppo economico del nostro Paese. Ma le imprese di questo tipo non hanno le dimensioni giuste e non sono adatte ai cambiamenti imposti dalla globalizzazione e dalla competizione internazionale. Purtroppo come la storia degli ultimi anni ha rivelato non sempre l’ aforisma vincente è piccolo è bello e non sempre l’arte di improvvisare e arrangiarsi degli italiani è vincente!
I motivi della crisi si possono riassumere in scarsità di risorse umane, risorse finanziarie e di cultura di impresa. È evidente che un’azienda dove la selezione del top management è condizionato dai parenti più stretti e dalla loro formazione aziendale e professionale, trova grossi problemi soprattutto nel momento in cui subentra la seconda generazione, si rende necessario il ricorso al management esterno e alla formazione. Anche per questo, è stato finora privilegiato il mantenimento di dimensioni contenute e relazioni strette fra le famiglie di imprenditori piuttosto che la cultura d’impresa e la sfida al mercato.
Il discorso finanziario merita spazio particolare, perché i limiti maggiori per le imprese italiane sono di natura finanziaria. Le aziende sono tutte condizionate da una sottocapitalizzazione generalizzata e da un costante ricorso a crediti bancari soprattutto a breve e medio termine, cui si ricorre (ricorreva!) per la liquidità. Crediti bancari negoziati sul piano delle conoscenze personali e tuttalpiù garantiti da benevole fideiussioni personali dell’imprenditore. Nessuno strumento più innovativo (come le obbligazioni o altre forme di ricorso al mercato dell’investimento privato) è stato introdotto anche in un periodo di gravi difficoltà del sistema bancario come quello attuale. Questo ha acuito la fragilità del sistema paese. Ed ha messo in difficoltà capitalismo familiare made in italy e così le aziende più appetibili sono divenute le prede ideali.
Con un’aggravante per cui è stato possibile acquisire alcune grandi aziende provenienti da processi di privatizzazione più o meno contorti con investimenti ridicoli o con operazioni di ingegneria finanziaria al limite della truffa. Nel nostro mondo industriale al momento è significativa l’ assenza da settori industriali strategici, come ad esempio la telefonia di cui abbiamo venduto aziende competitive e di prospettiva come Omnitel e Wind a stranieri e brutalizzato e perduto la Telecom, la sesta azienda al mondo, che adesso è una piccola realtà di scarsa importanza strategica, o come l’aeronautica civile nella quale la vicenda Alitalia nelle varie fasi, ha dato il segno di tutte le inadeguatezze e limiti della nostra classe dirigente.
Gli effetti sull’occupazione di queste operazioni e dell’internazionalizzazione dei mercati sono noti: le imprese delocalizzano e spostano attività e sedi a seconda delle opportunità produttive, logistiche, fiscali, di presidio del mercato e di valore aggiunto che i differenti contesti possono offrire.
È così iniziato l’assalto alle imprese italiane!
Ormai in Italia oltre agli investitori europei e americani che tradizionalmente hanno sempre operato nel nostro paese, si registra l’attività di russi che privilegiano energia, acciai, telecomunicazioni e telefonia (Wind); cinesi che controllano oltre 150 aziende e di recente hanno acquisto i cantieri Ferretti, entrando nella cantieristica di lusso; indiani, oltre alla Mittal impegnata nella siderurgia, troviamo Fila (Batra), Klopman e altre aziende tessili; grida vendetta la vicenda Vdc di Anagni (televisori) acquistata dal gruppo Videocone praticamente dismessa.
Mentre le notizie di cessioni ad aziende straniere si susseguono a ritmo serrato ed è difficile tenere il conto e qualche volta le dimensioni o la notorietà rendono clamorose le operazioni.
Nell’ultimo mese solo il giorno prima della cessione dell’Indesit (a Whirlpool il 60,4% della compagnia valutata 11 euro per azione, 758 milioni totali), Krizia è passato definitivamente sotto il controllo dell’imprenditrice e stilista cinese Zhu Chong Yun , per un prezzo cash di circa 26 milioni di €. Ad aprile era toccato ad un altro marchio storico del made in Italy con la cessione di Poltrona Frau alla statunitense Haworth.
Dall’inizio della crisi al 2012 gli stranieri si sono aggiudicati circa 500 marchi, La Banca Dati S&P parla di 198 acquisti/fusioni negli ultimi tre anni con una spesa complessiva di circa 54 miliardi di euro a fronte di acquisizioni italiane di 129 aziende con una spesa complessiva inferiore ai 17 miliardi con una sproporzione sia per l’investimento complessivo, sia per la dimensione dei beni acquistati. La cifra investita in Italia sembra enorme ma in realtà si tratta di prezzi di saldo, solo qualche anno fa gli stessi acquisti sarebbero costati il doppio o il triplo.
Sono tutti riflessi del motto “piccolo è bello”, della mancanza di una politica industriale, dell’incapacità di “fare sistema” (che è diverso dal “capitalismo relazionale”), l’assenza dello Stato, la gestione miope da parte di sindacati legati a una visione antidiluviana e sessantottina delle relazioni sindacali. Probabilmente fa gioco anche il fatto che gli imprenditori italiani guardano al mercato interno soprattutto mentre gli investitori stranieri guardano a un teatro più vasto.
Non è detto che il fenomeno della svendita delle aziende rappresenti in ogni caso una catastrofe. Lo è se l’acquisto è solo un movimento speculativo, teso soprattutto a eliminare un concorrente o ad acquisire o ampliare la rete di commercializzazione o incrementare unicamente il know how di sistema. In questo caso l’azienda verrà velocemente ridimensionata e con ogni probabilità la parte produttiva trasferita se non chiusa. L’acquisizione deve essere il presupposto per un espansione su mercati nuovi. Questo avrà effetti sicuramente positivi su crescita dimensionale, superamento delle limitazioni finanziarie, crescita conseguente degli impianti produttivi e dell’occupazione. Quello che è sicuro è che la cabina di regia e le scelte strategiche saranno fatte lontano dal territorio italiano
Non ci resta che sperare sulle buone intenzioni degli acquirenti in modo da avere effetti positivi sull’occupazione e sul reddito. Per ora gli effetti sulla nostra Bilancia dei Pagamenti sono positivi perché le cifre investite in Italia finiscono tra le attività, ma non gli effetti a lunga scadenza perché i dividendi sono destinati all’estero.
Altro sarebbe se gli investimenti esteri fossero collegati a nuovi impianti produttivi con conseguenze immediate e positive sull’occupazione e sull’economia complessiva, ma l’appetibilità dell’Italia, nonostante le promesse dei politici, resta mediocre per i noti problemi (corruzione, malavita organizzata, burocrazia, tasse) ma soprattutto per la mancanza di incentivi adeguati. E la nostra vitalità sui mercati resta affidata solo alla appetibilità delle nostre aziende scalabili.
Francesco de Majo
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