Su lavoro e “grandi dimissioni”

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In questi giorni, il libro di , Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del e il tempo di riprenderci la vita (Einaudi, 2023), sta suscitando grande interesse. Discusso da esperti del mondo aziendale, universitario e sindacale, sui media e in quegli spazi autogestiti ed efficacemente aggregativi, i centri sociali, come, ad esempio, di recente al Vag61 di Bologna, presente l'autrice [1] che ha dialogato con Valerio Monteventi [2], Beatrice Busi [3] e Gianluca De Angelis [4], il libro sollecita riflessioni, non del tutto nuove, ma autentiche.
I contenuti di tali riflessioni, corrono da tempo immemore, come vero e proprio binario parallelo, accanto alla discussione ufficiale, pubblica e paludata, quella sul quadro macroeconomico, sulla congiuntura internazionale e l'area dell'euro, sull'inflazione risorgente, sugli andamenti di finanza pubblica e sull'indebitamento netto, sull'evoluzione del rapporti debito/PIL e, da ultimo, sul Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Gli angusti limiti di tale pubblica discussione sono evidenti: gli interventi, autorevoli o meno, convergono sulla definizione della quantità di risorse – il loro ammontare netto – messe in campo per rilanciare la “crescita” (questo il dogma che non è stato scalfito, dal 1968-1969 ad oggi), gli investimenti e le riforme.

Del lavoro, del suo specifico “mercato”, delle condizioni reddituali dei lavoratori, della formazione al passo con i tempi, vista la pervasiva introduzione delle tecniche d'automazione produttiva, di un perseguibile, gratificante socialmente, ampliamento delle prospettive occupazionali, se ne parla poco ed anche in modo inadeguato.
Un necessario ragionamento complessivo sul lavoro nel XXI scolo non è in agenda, continuando irresponsabilmente – il mondo imprenditoriale in primis e, a seguire una consistente parte dell'associazionismo espressione dei lavoratori o de datori di lavoro, appositamente costituito per la tutela di interessi professionali collettivi – a girare in tondo.

Le politiche governative sull'inerente questione, sono coerentemente avulse. Adottando misure palliative come, ad esempio, il programma “Garanzia per l'occupabilità dei lavoratori” (GOL, programma citato dal “Documento di economia e finanza” del 17 Aprile 2023) che ambisce a risolvere la drammatica situazione di indigenza dei soggetti privi di occupazione, il Governo, in buona sostanza, interviene esclusivamente con una pianificazione di investimenti per il rafforzamento dei servizi pubblici per l'impiego; oppure, con l'istituzione di un Fondo nuove competenze, volto a promuovere la formazione dei lavoratori, in particolare in quei contesti maggiormente esposti alla transizione ecologica e digitale, non tiene in conto che – a livello europeo e globale, tra spinte e controspinte – non si è ancora preso atto della difficoltà nel dover armonizzare il miglioramento della competitività economica delle imprese (garantire i profitti), con processi sociali di digitalizzazione integrata capaci di 1) raggiungere – “senza morti e feriti” (esclusi dal lavoro e privi dei requisiti di “cittadinanza” attiva)  – gli obiettivi di sostenibilità (in rif. anche all'Agenda 2030) e 2) consentire i cambiamenti necessari per una onesta transizione ecosistemica.

Se l'attuale Governo ritiene che “nel 2022 la crescita dell'occupazione ha accelerato (2,4 per cento dallo 0,8 per cento del 2021), portando il numero di occupati a superare la soglia di 23 milioni di addetti, valore massimo in serie storica, l'ISTAT (Maggio 2023) certifica che il tasso di disoccupazione totale scende al 7,6% (di un misero 0,1 punti), mentre quello giovanile sale al 21,7% (+0,9 punti).
Controverse ed inefficaci, quando non provocatoriamente evanescenti, dunque, paiono le considerazioni pubbliche attuali sul lavoro, in quanto precaria ed anacronistica appare la casa-madre ideologico-politica che estromette ogni possibile analisi teorico-scientifica.
Lo stesso apprezzamento critico può farsi con riferimento alla connesse politiche sociali governative, laddove l'accento cade meramente, nel DEF 2023, su sporadici interventi di sostegno alla famiglia, inseriti in un quadro generale caratterizzato da un considerevole calo demografico, dovuto al record negativo del numero di nascite raggiunto nel 2020 e nuovamente superato nel 2021, con 400.249 nati, dato inferiore dell'1,1% rispetto al 2020 e del 30,6% rispetto al 2008, anno del massimo relativo più recente delle nascite. Il fenomeno viene rapportato anche alla diminuzione del tasso di fecondità sotto i 30 anni con un rinvio protratto nel tempo che si traduce spesso nella rinuncia definitiva ad avere figli.

Ben venga una discussione sul lavoro e sulle politiche sociali, senza gli impacci retorico-manipolatori a garanzia di un sistema economico-sociale, istituzionale ed ordinamentale che si vuole “immutabile”, che si riveli utile a recuperare gli importanti contributi di Raniero Panzieri e Vittorio Rieser [5], volti a criticare la visione apologetica dello sviluppo tecnico-scientifico, tipica del marxismo istituzionalizzato:

«L'uso capitalistico delle macchine non è, per così dire, la semplice distorsione o deviazione da uno sviluppo “oggettivo” in sé stesso razionale, ma esso determina lo sviluppo tecnologico […], di fronte all'operaio individuale “svuotato”, lo sviluppo tecnologico si manifesta come sviluppo del capitalismo […], coincide con l'incessante aumento dell'autorità del capitalista […], [con] lo sviluppo del piano come dispotismo» [6].
Inoltre, se il tema è la fuoriuscita – auspicabilmente, indenne – dal lavoro “forzato” entro forme sostituibili, ma ritenute antieconomiche per il vigente “sistema” di produzione e riproduzione, l'autodeterminazione posta come obiettivo – secondo Gian Piero Quaglino [7] – è definibile come la percezione di poter essere liberi nelle proprie scelte e artefici delle proprie azioni.

Come sono e saranno gli individui che riescono ad autodeterminarsi? Su quale esperienza e su quali concetti può darsi la  Self-determination? Questo sembra essere il versante dal quale seguire le idee contenute ne Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprendersi la vita: far emergere un'oggettiva capacità e libertà di compiere scelte funzionali al proprio benessere e alle propria emancipazione dal lavoro salariato.

Francesca Coin, Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vitaIl libro di Francesca Coin serve a ricordare che è l'attività lavorativa a fornirci d'una identità sociale, a costituire il «il fondamento della nostra dignità di esseri umani». Tale certezza, nel testo è correlata alla questione della fenomenologia sociale, esponenzialmente crescente, delle “dimissioni”.
In verità il Great Resignation o Big Quit, il fenomeno delle dimissioni volontarie da un posto di lavoro, alla ricerca di alternative più appaganti, non è del tutto inavvertito. Negli Stati Uniti, secondo i dati dell'US Bureau of Labor Statistics, a Luglio 2021 ben 4 milioni di persone hanno dato le dimissioni. Nei mesi precedenti si è registrata una crescita costante – da Aprile 2021, periodo del massimo picco – di persone che hanno lasciato il proprio lavoro.

Un articolo di  Francesco Armillei su lavoce.info  rileva che, in Italia, c'è stato un balzo del 40% in più tra Aprile e Giugno 2021. L'85% in più rispetto al 2020, ben 484.000 dimissioni dal lavoro. La stessa esperienza pandemica ha radicalmente minato il paradigma del mondo lavorativo, portando milioni di persone a riconsiderare le proprie priorità e abbandonare la propria posizione. Evidente, tra i dati disponibili, il comportamento dell'abbandono del lavoro (meglio dire, del posto di lavoro) del segmento giovanile della forza-lavoro under 30, appartenente alla generazione dei “nativi digitali”, nati tra il 1997 e il 2012, e degli occupati in settori ad alto tasso di stress che decidono di voltare pagina, riconciliandosi con i propri affetti e le proprie passioni.
Si tratta di un fenomeno che tende ad espandersi, anche in Italia dove, secondo i dati più recenti del Ministero del Lavoro, le dimissioni sono aumentate del 23,2% da Aprile a Novembre 2021.
Tuttavia, secondo il CENSIS (Fonte: Censis.it, 9 Marzo 2022, Lavoro), il 56,2% degli occupati non è propenso a lasciare il proprio lavoro, nella convinzione che non troverebbe un impiego migliore. La percentuale sale al 62,2% tra i 35-64enni e al 63,3% tra gli operai. È vero che nei primi nove mesi del 2021 si registrano 1.362.000 dimissioni volontarie, con un incremento del 29,7% rispetto allo stesso periodo del 2020. Eppure, proprio nel 2020, quando a causa del Covid-19 il mercato del lavoro si era paralizzato, si era verificato un picco negativo di dimissioni: solo 1.050.000 nei primi tre trimestri, ovvero -18,0% rispetto al 2019. Si conferma però un trend di più lungo periodo di crescita delle dimissioni legato all'aumento della precarietà dei rapporti di lavoro. È, quindi, del tutto legittimo che la sociologa Coin si ponga alcuni quesiti e socialmente  interrogarsi sulla qualità della  «vita che stiamo vivendo, se è quella che vogliamo vivere». «Per molti la risposta è stata no, perché è cresciuta l'indisponibilità a sottostare a regole tossiche e vessatorie che numerosi contesti lavorativi impongono».
«A partire dal vissuto delle lavoratrici e dei lavoratori – soprattutto in Italia –», Francesca Coin analizza le

«ragioni della crescita di una tendenza del tutto inattesa, e mostra come oggi dimettersi significhi non solo impedire alle condizioni di sfruttamento di deteriorare la nostra salute e le nostre relazioni, ma anche riconquistare tempo per noi stessi e per la nostra vita. Già prima della pandemia un sondaggio svolto in 140 Paesi aveva reso noto che l'80% della popolazione occupata odia il proprio impiego. E così, dopo aver avuto mesi per riflettere sulla qualità della vita, tantissime persone esauste, esasperate e impoverite si sono organizzate per licenziarsi collettivamente dai settori della ristorazione, della sanità, della vendita al dettaglio, della cultura e da altri ancora. Dando forma a quello che è stato definito il fenomeno delle Grandi dimissioni».

Indubbiamente, l'analisi dei fenomeni come quello delle Great Resignation o dell'impatto di nuove forme di lavoro agile, chiama in causa le aziende e le loro modalità di rapportarsi ai collaboratori e di «ascoltarli». È altrettanto vero che la versione smart working, o versione settimana corta e weekend lungo, quattro giorni di lavoro alla settimana anziché cinque – evenienza connessa alla tradizionale, seppur lenta a realizzarsi, rivendicazione della riduzione dell'orario di lavoro -, oppure ancora più radicalmente verso le dimissioni in cerca di altro o anche addirittura di un'altra vita, sono ipotesi da verificare nel tempo.

Senza voler psicologizzare eccessivamente, è però conveniente riflettere sul presupposto che le persone, quando sono motivate, si prefiggono dei traguardi e per questo intraprendono azioni orientata all'obiettivo. Se l'azione è autodeterminata l'individuo la vive come liberamente scelta e emanante dal proprio Sé. Ciò implica, nell'individuo stesso, l'insorgere di curiosità, esplorazione, spontaneità e interesse nei confronti del proprio habitat di lavoro e vita. Il riferimento esplicito è a La teoria dell'autodeterminazione di Edward Deci e Richard Ryan (1985, 1991 [8].
Le Great Resignation, nondimeno appaiono come il risultato d'una coazione. Non è frutto d'una vera e propria “scelta”, un libero atto di volontà.

La teoria della motivazione intrinseca pone come basi motivazionali il bisogno di conoscenza, inteso come la volontà di risolvere le contraddizioni e le lacune degli schemi comportamentali già consolidati, e il bisogno di successo, inteso come la capacità di padroneggiare e controllare l'ambiente, di sentirsi competenti ed efficaci.

Questo è il cammino reale, una processualità storico-materiale che non si esaurisce nella “volontà di potenza” individuale o di piccoli gruppi, che potrà consentire di definitivamente superare – all'interno d'una Aufhebung materialisticamente fondata, per così dire – l' del e nel lavoro [[9]], intesa come “reificazione” e “feticismo”.

Il rinnovato senso dell'essere, l'esistenza intesa come forza espansiva e autosuperantesi, negli atti di “volontarie dimissioni” espressi da recente tipica fenomenologia sociale, nell'organizzazione del lavoro dato non prevedono che sia possibile smettere di esistere fuori da un contesto, economico e socio-culturale, come l'attuale determinato da permanenti “variabili” quali il tasso di crescita dello stock di capitale, il saggio di profitto, il livello del consumo e i salari.

Questo preciso contesto, in quanto individui relazionati, come mere “entità produttive di valore di scambio” non lascia scampo ad una opzione, tra diverse possibilità, che è definibile “personale”.

Non è onesto disconoscere, a questo proposito, che  tra Febbraio 2020 e Giugno 2021, i lavoratori autonomi – se l'opzione “dimissioni” a ciò allude – sono stati i più colpiti e l'Italia ha perso 470mila occupati; di questi, ben 378mila, oltre l'80%, sono lavoratori indipendenti. Lo sottolinea l'ufficio studi della Cgia. In 16 mesi le partite IVA sono diminuite di 776 unità al giorno. Ad aver subito gli effetti più negativi, piccoli commercianti, esercenti, collaboratori e liberi professionisti. Gli occupati tra i lavoratori dipendenti sono scesi 92mila unità.

È incontestabile, comunque, che rimane l'idea di una critica storico-politica che potenzino le categorie sociologiche.
Ogni persona ha il “sogno di una cosa”, consapevole che questo sogno non sia il dono di un Signore che ci attende oltre la morte, ma sia lo scrigno del mondo stesso che si critica, sia un rapporto disalienato con gli altri, con sé stessi, con il mondo che è sempre possibile a partire dalle contraddizioni reali che abitano quel mondo storico.

«Questo mondo ha un nome ed un cognome: Capitale / Lavoro, perché «considerare la libera concorrenza quale ultimo sviluppo della libertà umana, e la negazione della libera concorrenza come negazione della libertà individuale, è un'insulsaggine. Non c'è niente di più falso. Si tratta solamente di uno sviluppo libero su base limitata – quella del dominio del capitale. Il libero sviluppo delle individualità è possibile con la riduzione del lavoro necessario della società a un minimo» [10].

Giovanni Dursi                                                                                                            

[1]Sociologa che si occupa di lavoro e diseguaglianze sociali. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso la Georgia State University, negli Stati Uniti. Ha lavorato come Professoressa associata nel Dipartimento di Sociologia dell'Università di Lancaster, nel Regno Unito, e insegnato nel Centro di competenze lavoro Welfare società del Dipartimento di Economia aziendale sanità e sociale (Deass) della Supsi, in Svizzera. Tra i suoi scritti, Il produttore consumato (Il Poligrafo, 2006), Salari rubati. Economia, politica e conflitto ai tempi del salario gratuito (Ombre Corte, 2017) e Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (Einaudi, 2023).
[2] Nato nel 1954, è uno storico attivista dei movimenti di massa e protagonista – in diverse epoche – delle lotte proletarie e no-global; dal 1990 al 2004 è stato più volte Consigliere comunale (indipendente) a Bologna. Nel 1984, crea una Cooperativa editoriale che ha dato le stampe prima il giornale “Mongolfiera”, poi una cinquantina di libri ed, infine, il quindicinale “Zero in condotta”, ora online. È autore di numerosi libri di ricognizione storico-socio-politica, dal punto di vista delle classi subalterne.
[3] Ricercatrice indipendente e co-fondatrice del Centro di Ricerca e Archivio Autonomo transfemminista queer “Alessandro Zijno” (CRAAAZI).
[4] Ricercatore sociale, ha conseguito nel 2016 il dottorato di ricerca in Sociologia e Ricerca Sociale presso il Dipartimento di Sociologia e Diritto dell'Economia dell'Università di Bologna con una tesi sul processo di gratuitizzazione del lavoro dal titolo “Poste in gioco Lavoro e soggettività tra formale e informale, gratuito e remunerato”; ha svolto collaborazioni con l'IRES nazionale e la Fondazione “Giuseppe Di Vittorio”, ha curato la ricerca, al seminario Fillea Cgil del 16 Febbraio 2011, sulle condizioni di lavoro all'epoca della crisi.
[5] V. Rieser, La tecnica è neutrale e necessaria?, in «Gioventù evangelica», n. 4, 1964, p. 3; V. Rieser, Il socialismo di fronte alla tecnica, in «Gioventù evangelica», n. 6, 1964, p. 3.
[6] R. Panzieri, Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei “Quaderni rossi” 1959-1964. Scritti scelti, Bfs edizioni, Pisa 1994, p. 27.
[7] Gian Piero Quaglino, “Voglia di fare. Motivati per crescere nell'organizzazione”, Libri editi da Guerrini e Associati, 1999.
[8] Di questi autori, particolarmente importanti, tra i tanti, i seguenti lavori: Deci, E.L., Connell, J.P. e Ryan, R.M. (1989). Self-deterrnination in a work organization. Journal of Applied Psychology, 74, 580-590; Deci, E.L., Connell, J.P., Ryan,R.M. (1986). Self-deterrnination In a work organization; Dee i, E.L. e Ryan, R. M. (1985b). Intrinsic motivation and self-determination in human behavior. Plenurn Press, New York; Deci, E.L. (1980). The psychology ofself-determination. Lexington, Mass.: D.C. Heath, Lexington Books.
[9] Rif. , Scritti sull'alienazione. Per la critica della società capitalistica, Testi scelti e introdotti da Marcello Musto, Donzelli, Roma 2018, pp. 160,
[10] K. Marx, “Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie” (1857-1858), Институт марксизма-ленинизма (IMEL), 1939.

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