
Il 29 Marzo prossimo si terrà il referendum popolare per la conferma del taglio dei parlamentari dagli attuali 630 a 400 deputati e dagli attuali 315 a 200 senatori. La legge sarà promulgata se la maggioranza dei votanti l'approverà. Non è previsto un quorum minimo di votanti.
È molto probabile che ci sia un plebiscito per il “si”, anche per la notevole avversione che negli anni è stata sviluppata e sostenuta alla classe (casta) politica, ma noi vorremmo contribuire al dibattito per chiarire quanto siano distorte molte delle argomentazioni a favore del taglio dei parlamentari. Lo facciamo insieme alla professoressa Alessandra Algostino, docente di Diritto costituzionale nell'Università di Torino, studia da sempre i temi dei diritti fondamentali e delle forme di partecipazione politica e di democrazia. Tra i suoi molti scritti: “L'ambigua universalità dei diritti. Diritti occidentali o diritti della persona umana? (Napoli, 2005), “Democrazia, rappresentanza, partecipazione. Il caso del movimento No Tav” (Napoli, 2011), “Diritto proteiforme e conflitto sul diritto” (Torino, 2018).
Vorrei iniziare questa intervista chiedendole un'opinione su una considerazione fatta da due dei promotori del Comitato per il Sì delle Libertà, Raffaello Morelli e Pietro Paganini che spiegano come “La capacità rappresentativa esprime le scelte operate dai cittadini circa i progetti politici e circa i rappresentanti eletti per dibattere e decidere quale progetto attuare in via istituzionale, in base al raggrupparsi delle diverse Libertà dei cittadini che vengono rappresentate. In questa prospettiva liberale, il taglio aiuta a rendere più snello discutere e decidere, a rendere più trasparenti gli atti parlamentari, ad aumentare la responsabilità dei rappresentanti verso i cittadini”. Ma non mi pare che per la nostra Costituzione si possa parlare di prospettiva liberale?
La nostra Costituzione si situa nella prospettiva di una democrazia sociale, che coniuga i diritti di libertà, negativa con i diritti sociali, declinando l'eguaglianza non solo in senso formale (come eguaglianza di fronte alla legge) ma altresì in senso sostanziale. Ad essere delineato, nell'art. 3, comma 2, della Costituzione è un progetto di emancipazione sociale, insieme personale e collettiva, che va oltre la garanzia dei classici diritti propri dello Stato liberale.
Quanto alla rappresentanza essa mira a rispecchiare ed a dare voce al pluralismo, e al conflitto, presente nella società. Riducendo il numero dei parlamentari si incrementa il senso di estraneità rispetto alle istituzioni, diminuisce la possibilità per il cittadino di veder eleggere un “proprio” rappresentante, abbassando il grado di potenziale identificazione del rappresentato con il rappresentante. Si restringono le possibilità di scelta e si comprime l'angolo visuale della lente che specchia la realtà e la complessità della società.
In più di un'occasione lei ha espresso la sua contrarietà per un aspetto fondante per la democrazia e cioè il fatto che con questa riforma “ad essere depotenziato è il principio di sovranità popolare”. Puoi darci i contorni di questo depotenziamento?
Il principio di sovranità popolare, nella prospettiva di una democrazia rappresentativa, è concretizzato in primo luogo attraverso la rappresentanza. Si precisa: la sovranità popolare non vive solo nelle forme della rappresentanza, restando in particolare imprescindibile una partecipazione attiva dei cittadini, attraverso l'esercizio dei diritti e la mobilitazione dal basso, ma, indubbiamente, la rappresentanza ne costituisce una declinazione significativa. Attraverso il suffragio elettorale universale (e un sistema elettorale proporzionale puro), l'elezione dei rappresentanti e il ruolo dei partiti politici si dà voce a tutti i cittadini e forma e organizzazione alle diverse rivendicazioni e visioni del mondo, in modo da consentire in Parlamento il loro scontro e la loro mediazione (nel senso alto che questo termine può evocare).
Intaccare la rappresentanza, come avviene con la riduzione del numero dei parlamentari, depotenzia la sovranità popolare, in specie attraverso l'espulsione delle minoranze e lo scardinamento di presupposti ineliminabili della democrazia: il pluralismo e il conflitto.
Uno degli argomenti utilizzati in favore della riforma è quello della stabilità e della governabilità. La riforma potrebbe avere delle ripercussioni anche sul piano dei rapporti e dei pesi tra potere esecutivo e legislativo?
È diffusa l'osservazione che un Parlamento dai numeri più contenuti sia un Parlamento più efficiente ed efficace e, dunque, più forte ed autorevole. Si può obiettare rilevando come, ammesso e non concesso, che la riduzione dei componenti determini una maggior efficienza e compattezza dell'organo, questo presuppone l'adesione ad una specifica concezione: quella che ritiene che forza e autorevolezza discendano in primis dall'efficienza, dalla “governabilità”, assunta come un valore positivo, a prescindere dal suo rapporto con la rappresentanza, ed anche quando comporta un sacrificio in termini di rappresentanza. È una posizione riconducibile alle versioni maggioritarie della democrazia, in opposizione alla visione della democrazia, come eminentemente luogo della rappresentanza e di espressione del conflitto. Non la discussione, ma la decisione; non la rappresentanza del pluralismo, ma un vincitore, che, allontanandosi dalla tradizione del costituzionalismo, si vuole sempre più legibus solutus.
La governabilità può essere un valore, ma in sé non è necessariamente democratica, anzi, nella misura in cui segna il distacco rispetto alla rappresentanza, ovvero sacrifica pluralismo (reale o potenziale), costituisce rispetto all'ideale democratico una regressione. Ancora: quando si ragiona di efficienza, sorge ineludibile un interrogativo: efficienza in nome di che cosa? A favore di chi? Si palesa qui la connessione fra governabilità ed esigenze del mercato, donde pare che il fine non sia tanto costruire un Parlamento forte in quanto sede di discussione politica, di compromesso fra differenti visioni del mondo, ma in quanto organo efficiente nel ratificare decisioni assunte altrove, nella nebulosa della global economic governance, e, ça va sans dire, ancillare rispetto al Governo.
Veniamo ad un altro capitolo, il “regionalismo differenziato” che mi sembra un'altra picconata ad alcuni aspetti fondanti della Costituzione. Adriano Giannola, presidente della SVIMEZ, l'ha definito un “colpo di stato in un guanto di velluto”, perché attacca eversivamente, insieme alla Legge Calderoli, l'equità orizzontale e verticale prevista dalla Costituzione. Qual è la sua opinione in proposito? Vede rischi e se si, in che direzione?
In una battuta: il regionalismo differenziato, per come oggi si profila, veicola ed istituzionalizza diseguaglianza, con buona pace della solidarietà di cui all'art. 2 Cost. e, soprattutto, del progetto di eguaglianza sostanziale e di emancipazione sociale, di cui all'art 3, c. 2, Cost.
Un'ultima domanda: nel 2015 lei ha pubblicato il saggio TTIP. Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti: l'impero colpisce ancora. La presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, ha annunciato a Davos, dopo aver incontrato Trump: “Vogliamo chiudere un accordo tra qualche settimana per mettere fine ai problemi commerciali”. E l'Italia ci sta mettendo del suo nel settore agricolo. I movimenti, le associazioni, i sindacati sono nuovamente in allarme per una riedizione sotto altra forma del TTIP. L'impero colpirà ancora? Quali i pericoli maggiori rispetti ai diritti costituzionali?
Non si può che ripetere gli stessi discorsi e le stesse osservazioni fatte allora a proposito dei pericoli per i diritti costituzionali e, in senso ampio, per una forma di Stato che pone al centro la persona (non il profitto).
Pasquale Esposito
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