
Se un album musicale potesse essere un quadro, Tales From The Space Echo, l'esordio discografico dei Plants, sarebbe un'opera di Kandinskij: sì, proprio uno di quei quadri che presentano una grande varietà di linee confuse o marcate, spazi a volte definiti a volte nascosti, contrasti cromatici, forme sovrapposte.
Del resto, la musica è pur sempre una forma di espressione artistica. Ciò che abbiamo davanti, questa volta, è un connubio magico di suoni e parole, una composizione variopinta di strumenti che cercano ognuno il proprio ruolo: una tela, insomma, che pian piano conquista la sua fisionomia. Così come, nei quadri del pittore russo, ogni pennellata rivendica la sua centralità, ogni nota musicale composta dai Plants emerge in tutta la sua essenzialità. E così come, alla fine, ogni linea, pur apparentemente sconnessa rispetto al resto del quadro, in realtà è fondamentale per garantirne la giusta armonia, allo stesso modo ogni suono deve essere necessariamente ascoltato insieme agli altri.
I Plants sono una band romana, lontana dagli eccessi e dalla frenesia che la capitale inevitabilmente offre. Hanno sperimentato e cercato il loro sound, con semplicità e coraggio, evitando mode e percorsi già ampiamente solcati. Quando un gruppo musicale, pur servendosi di influenze, trova una propria originale dimensione, già dimostra di avere buone potenzialità, evidenziando vocazione, ispirazione e motivazione. Le loro influenze sono molteplici e si percepiscono ampiamente: lo shoegaze, che è presente in tutto il disco; certe atmosfere oscure, con venature post-punk, che rimandano inevitabilmente al grande filone della new wave; un suono, in alcuni momenti, più psichedelico ed evocativo che emerge con insistenza in qualche traccia.
L'apertura è affidata a Yosemite, brano che ci immerge immediatamente nelle sonorità che caratterizzano tutto il lavoro. Un intro dai contorni spaziali, inevitabile rimando allo stile dei Depeche Mode, esplode poi in un rock incalzante e frenetico, che trascina immediatamente l'ascoltatore in un insieme di energia e brillante vitalità. Su questa scia prosegue anche il pezzo successivo, Wide circle: questa volta, però, l'introduzione è affidata alla chitarra, vera protagonista del brano. A metà canzone, infatti, essa recupera la scena, diventando il colore predominante del nostro quadro e fondendosi con una batteria di nuovo molto propulsiva. La voce, in questo caso, ha un ruolo secondario e defilato, preferendo lasciare spazio a un intermezzo musicale molto suggestivo. Un vero e proprio affresco compositivo, con plettri e bacchette che si sostituiscono al pennello del nostro pittore.
Ma l'abilità dei Plants è quella di saper gestire diversi momenti: di saper fondere, insomma, colori tra loro complementari per ottenere effetti alquanto suggestivi. Il loro non è un album piatto, che va avanti sulla stessa linea per tutte le canzoni; anzi, la loro abilità è proprio quella di riuscire a modulare diligentemente forme e stili diversi. Tutto ciò, lo si avverte prontamente nei due brani successivi, probabilmente i più dolci dell'intero album e quelli in cui affiora maggiormente un'eco dei The War On Drugs. Lullaby – che non a caso significa “ninna nanna”- si caratterizza per un andamento meno frenetico che culla effettivamente l'ascoltatore, attraverso una ballata delicata che soltanto sul finale acquista vivacità. Sul medesimo andamento si colloca anche Life is changing, in cui, però, la chitarra tesse un tappeto di suoni che fa da cornice a un brano propriamente melodico.
Plants: Simone Cetorelli (voce), Paolo Fraddosio (chitarre), Gianluca Fraddosio (basso)
e Alessandro La Rosa (batteria)
Il disco è una miscela di suoni, melodie e voci che si alternano con costanza ed efficacia, dando compattezza a un album che trova proprio nei suoi continui cambi di direzione il suo vero punto di forza. Non sorprende, pertanto, che la vetta compositiva dell'album sia probabilmente Verte, la canzone in cui più si avverte l'alternanza tra momenti di quiete e altri decisamente più intensi. Il brano, inoltre, presenta un suono più pulito, che si graffia solo nel mezzo, facendo emergere il lato più psichedelico dei Plants. La voce, che in qualche circostanza è più marginale, qui si accende, affermando anch'essa la sua importanza all'interno della composizione musicale. Il cantato, ampiamente improntato sullo shoegaze, tocca vette più acute. In I.W.T.K., invece, le frasi vengono ripetute in modo evocativo per gran parte della canzone, in perfetta tradizione new wave, come i classici Joy Division o i più recenti National insegnano. Gli strumenti restati fino a questo momento in secondo piano, abbracciano adesso il loro pennello: il basso si fa intenso in I.W.T.K., supportato da una batteria che scandisce il tempo; le tastiere, invece, acquistano rilevanza in Nyx e, soprattutto, in Live'n'go, dove tessono la struttura principale su cui tutto il brano si muove e si adagia. Questa, la traccia conclusiva di un disco certamente riuscito, sfoggia un ritmo più dance e pulsante, che dà vita a quella che è, a tutti gli effetti, la traccia più ballabile dell'album.
Un quadro di Kandinskij fatica a essere compreso: allo stesso modo, tentare di definire o inserire entro rigidi schemi riepilogativi l'album dei Plants è un'impresa senz'altro ardua. Non sono rock, eppure le chitarre graffianti suggeriscono questa via. Non sono new wave, nonostante atmosfere più cupe e malinconiche non manchino. Non sono pop, anche se qualche ballata dal tono soffuso potrebbe farlo supporre. Sono semplicemente i Plants, quattro giovani ragazzi che dimostrano una notevole capacità espressiva.
Del resto, si può cercare di definire Kandinskij? Ognuno, inevitabilmente, lo interpreta e apprezza a suo modo.
Ascoltare (e vedere), per credere.
Lorenzo Di Anselmo
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