
Con Antonia Battaglia, attivista, writer collaboratrice di MicroMega, che si è occupata ripetutamente del “caso” Taranto, cerchiamo di capire come mai non si riesca ancora a spegnere e convertire questa fabbrica di morte e quali scenari riserva il futuro prossimo.
Antonia, veniamo a conoscenza, anche grazie a diverse testimonianze e dossier, della fuoriuscita di polveri “killer”, ovvero “non classificate” e che quindi sfuggono al controllo delle agenzie ambientali preposte al monitoraggio. Di che tipo di polveri si tratta?
Vi ringrazio, innanzitutto, per l’intervista, che mi dà modo di parlare ancora di quello che accade nella mia città, Taranto.
Peacelink ha presentato, solo pochi giorni fa, un dossier che evidenzia come solo una parte delle polveri industriali provenienti dallo stabilimento, e che ricadono su Taranto, è monitorata dagli organi preposti. Ovvero, la fuoriuscita (e le inevitabili conseguenze sanitarie) di migliaia di tonnellate di polveri non vengono repertate dalle centraline dell’Arpa semplicemente perché la loro natura sfugge al controllo. E questo non per “colpa” dell’Agenzia ma perché questo è quello che prevede la norma italiana in materia di monitoraggio.
Taranto è un caso tecnico molto preciso, per il quale ci vorrebbe una valutazione specifica dell’impatto sanitario relativo alle polveri che non vengono misurate. Polveri che si depositano ed entrano nella vita delle persone, sulla pelle, nei polmoni, nei loro organi.
In pratica, per queste polveri non esiste una classificazione sanitaria e, di conseguenza, non c’è divieto. Come è possibile che, all’interno della normativa italiana, non vengano annoverate e incluse (e quindi inibite) tra quelle più nocive?
Il dossier di Peacelink “Non toccate quelle polveri” porta alla luce il dato drammatico che polveri pericolose per la salute dei tarantini non vengono registrate dalle centraline dell’ARPA, che sono per legge tenute a rilevare i valori di PM10 e PM 2.5 ma che non sono idonee a rilevare le polveri specifiche che inquinano Taranto ossia quelle con PM superiore a PM11 e inferiore a PM 0,7 (le centraline hanno filtri a cui sfugge ad esempio il PM 0,1 e le nano-polveri).
Dopo i cosiddetti “decreti salva ILVA”, si ha avuta l’impressione che la politica sia stata, e in parte sia ancora, un po’ troppo “tiepida” negli interventi limitativi sull’azienda. Cosa potrebbe fare invece, sia a livello locale che nazionale, per cercare finalmente di bloccare l’emissione e, più in generale, chiudere e riconvertire definitivamente la fabbrica?
Consideriamo che i decreti ILVA sono serviti fino ad ora solo a dare tempo allo stabilimento di portare avanti la produzione senza mettere a norma. L’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) avrebbe dovuto esser implementata anni fa e invece l’ultimo decreto ILVA allunga nuovamente i tempi di messa a norma e di realizzazione degli interventi più urgenti, addirittura fino al 2017 e oltre. Mentre le persone muiono, mentre ai Tamburi si soffoca.
La Corte Costituzionale aveva condizionato il diritto della fabbrica a produrre, dopo il sequestro dell’area a caldo nel 2012, al rigoroso rispetto del cronorogramma ILVA. Cosa che, 4 anni dopo, non é ancora accaduto.
La politica non sta dalla parte dei deboli, non sta dalla parte di chi lavora in fabbrica ogni giorno rischiando la vita perché se così fosse l’ILVA non sarebbe quello che è, un morto che cammina, uno stabilimento obsoleto e pericoloso che mette in pericolo migliaia di abitanti di Taranto e della Puglia e la vita dei suoi stessi operai. La politica, se stesse dalla parte dei Tarantini, avrebbe capito cosa vive chi abita ai Tamburi.
Come avviene sempre in questi casi, è la popolazione a pagare tragicamente il prezzo più alto. Ormai i tarantini convivono con il dramma: in tanti si ammalano e muoiono. Quali sono oggi in città le forme di “sopravvivenza” e di “resistenza”? Le tue sensazioni portano ad avvertire un maggiore senso di rassegnazione, oppure esiste una reale speranza di cambiamento?
Siamo una città “on the edge”. Il clima è pesante, teso, rassegnato in molti ambienti e attivissimo in altri. Credo che come da nessuna altra parte in Italia l’attivismo civico abbia comunque fatto miracoli.
Siamo una città di eco-sentinelle, di gente che legge decreti, che conosce la siderurgia, che sa benissimo cosa sia la politica e che ha il polso di quello che accade nel Paese perché lo subiamo sulla nostra pelle. I tarantini sono stanchi, incazzati, ma sono un popolo che cerca una via d’uscita attraverso la contestazione pacifica, attraverso l’attivismo scientifico, attraverso una vera e propria rivoluzione scientifica che è il cuore della di Peacelink.
Personalmente, credo che Taranto abbia bisogno di un cambio di paradigma epocale. Ma la politica stenta a risconoscere quello che accade fuori, nella società civile, tra le tantissime e attivissime associazioni. Noi ci siamo, siamo tanti e la rivoluzione a Taranto la stiamo facendo a colpi di conoscenze scientifiche, giuridiche, legali.
Taranto é al centro di numerose procedure europee, abbiamo lavorato indefessamente per anni per arrivare a questo punto, noi di Peacelink con la Commissione Europea ed il Parlamento, altre associazioni con la Corte dei Diritti Umani e con Amnesty International.
Siamo tutti un po’ eco-sentinelle con un “gusto europeo”.
Peacelink ha cominciato a “portare” l’Europa a Taranto nel 2013, adesso vorremmo concretizzare e auspichiamo che la prossima amministrazione possa lavorare nel senso di un coinvolgimento diretto con le Istituzioni Europee.
Infine gli scenari possibili (e auspicabili). Esistono nel mondo tanti esempi virtuosi di fabbriche che producono acciaio e che non uccidono nessuno. Quindi modelli applicabili ci sono, eccome. Tu, realmente, che idea ti sei fatta del futuro di questa fabbrica? Riuscirà la città a sopravvivere e a rinascere?
I modelli ci sono, sono tanti ma non credo che, al punto in cui siamo, possano essere ormai più applicati a Taranto.
Sono “figlia dell’ILVA”, mio padre ha lavorato tanti anni nello stabilimento e si è trasferito a Taranto da giovanissimo per quel motivo. Quindi non sono mai partita con nessun pre-concetto, anzi, al contrario. Ma dopo tutto quello che ho visto e che ho potuto osservare in questi anni, mi sono convinta che la situazione di Taranto sia talmente peculiare da non permettere più tante divagazioni. Mi spiego. Per poter realizzare uno stabilimento moderno e “performing” ci sarebbero voluti investimenti importantissimi che non solo garantissero una produzione senza inquinamento ma che provvedessero con estrema ugenza a mettere in sicurezza la falda, il suolo e il mare.
Invece sono anni che osserviamo, con dati scientifici alla mano, non solo una progressiva deteriorazione della questione ambientale ma il gravissimo acuirsi della situazione sanitaria.
Mi dico da anni, venendo contro alla mia visione originaria della questione, che l’ILVA non puo’ essere salvata perché per salvarla si dovrebbe radere al suolo, “ridare vita” a mare, suolo e falda e ricominciare. Ma nessun Governo, in Italia, lo farà mai. Nessuna amministrazione. Quindi credo che per salvare la cosa più preziosa, le vite umane, non resti che chiudere quella fabbrica.
Da lì nasce la mia volontà ferrea di coinvolgere le Istituzioni europee. Non solo come strumento di pressione politica, ma come mezzo per poter arrivare ad una erogazione di fondi importanti verso Taranto.
Cristiano Roccheggiani
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