
Toni Ricciardi, è storico delle migrazioni e delle catastrofi presso l'Università di Ginevra. Tra i suoi lavori e ricerche anche il recente volume, Il terremoto dell'Irpinia (Donzelli Editore, realizzato insieme con Generoso Picone e Luigi Fiorentino).
Con lui abbiamo parlato del sisma, della sua narrazione e del racconto delle “terre meridionali” fra giornalismo, ricerca storica e letteratura.

Come prima cosa noi, in genere, chiediamo ai nostri ospiti di presentarsi ai lettori.
Mi sono formato a Napoli dove ho anche fatto il dottorato di ricerca occupandomi di temi della migrazione italiana. Poi mi sono ritrovato a vincere in Svizzera un post-doc undici anni fa e sono rimasto fino adesso qui a Ginevra. Sono storico delle migrazioni e delle catastrofi. Mi ritengo una persona molto fortunata perché mi occupo generalmente di temi che mi appassionano e che, in un modo o nell'altro, hanno a che fare anche con un percorso di vita.
Di recente, lei, con Luigi Fiorentino e Generoso Picone, è stato fra gli autori del libro Il terremoto dell'Irpinia. Il 1980 e il terremoto sono stati per molti di noi il segno di un cambiamento nelle aree della Campania e delle altre regioni coinvolte. Come racconterebbe quelle vicende e quali conseguenze indicherebbe? Quale memoria resta oggi di quel terremoto?
Questa è una bella domanda che meriterebbe almeno alcune settimane per la risposta. Lo dico perché, a quarant'anni di distanza il tentativo che noi facciamo nel libro, anche io nella mia parte, è quello di sottolineare come ci sia la difficoltà di avere una memoria condivisa che non sia trita e ritrita e piena di luoghi comuni. Si è diffusa negli anni una narrazione del terremoto che a un certo punto era stucchevole, stancante perché non si spiegavano gli eventi e perché c'era una quantità infinita di contraddizioni. Su questa vicenda era giunto il momento di iniziare un percorso di riflessione storica. Per parlare del terremoto dell'Irpinia si fa riferimento sempre ai risultati della Commissione d'inchiesta parlamentare. Oggi quei risultati, anche se molti possono essere ancora attuali, andrebbero riscritti come testimonianza di un momento storico che è stata la più grande catastrofe della storia repubblicana.
Purtroppo, lo dicono i numeri: 3.000 morti, 20.000 feriti, 300.000 senza tetto e la ricostruzione più grande della storia d'Italia con una spesa di circa 33 miliardi di euro. Il terremoto e la ricostruzione avvengono in una fase storica di cesura della storia repubblicana. Questo elemento, che molti hanno dimenticato, è spesso sottaciuto. Lo scontro politico sulla ricostruzione in Irpinia portò un cambio sistemico. Ad esempio, l'esperienza della Lega Nord si è andata costruendo anche sulla visione di un Sud sperperatore di risorse pubbliche. La Lega Nord divenne poi uno dei pilastri fondamentali per la svolta berlusconiana. Oppure pensiamo a quello che accadde nei primi anni ‘90 della storia d'Italia con la stagione delle bombe della mafia. D'altronde lo stesso Giuseppe Zamberletti, che certamente non potrà esser tacciato di essere amico della democrazia cristiana campana o irpina, dichiarò che lo scontro politico in Irpinia assumeva un valore romano. Il terremoto dell'Irpinia diventa così l'ultima finestra di grande attenzione verso il Mezzogiorno, perché esattamente nel fluire di meno di 10 anni si scatena il ritorno ai soliti luoghi comuni legati agli straccioni e ai malfattori. Se si vanno a vedere le ricostruzioni in altri luoghi in cui si sono verificati grandi terremoti, ci si renderà conto che nessuna vicenda è stata esente da ombre. Le vicende del terremoto del 23 novembre 1980 non vanno lette in una chiave territoriale, e questo è un altro grave errore, ma vanno contestualizzate all'interno di uno scenario nazionale se non internazionale. La contestualizzazione ci può portare a capire che cos'era l'Italia degli anni ‘80 e come, attraverso questo decennio molto particolare, sul quale ancora poco si è scritto, siamo giunti all'oggi. Alcuni dicono poi che l'anno chiave per capire le sorti di quello che siamo oggi è il 1977. Faccio questo esempio per dire che abbiamo bisogno di storicizzare gli eventi. La prima cosa che ho notato, durante queste settimane trascorse a promuovere il libro, è che mi sono scontrato con persone che immaginavano che il terremoto fosse ancora cronaca; come se tutti i guasti e i problemi dell'oggi derivassero dal terremoto.
Come è stata raccontata, secondo il suo parere, la ricostruzione e come può variare il nostro giudizio su quello che è accaduto ad esempio in Campania?
La narrazione della Campania è sempre duplice e complessa. Pur non volendo invadere campi che non sono i miei, bisogna ricordare il modo in cui quei luoghi sono stati raccontati, almeno a partire dalla stagione del Gran Tour. I grandi viaggiatori hanno narrato quei luoghi, compresa Napoli, e da quella narrazione è nata un'immagine che ha resistito a lungo. Ora bisogna intanto partire dal raccontare che cosa sono quei luoghi e come la gente percepisce quei luoghi.
I membri di una troupe che ha girato con me alcuni documentari in comuni dell'Irpinia non li ha trovati meno belli di tanti altri che si incontrano sul territorio italiano. Quello che hanno notato è però che si ha sempre l'impressione che manchi qualcosa. Per parlare di questo tema, anche nel libro mi rifaccio alle tesi di Hirschman sul concetto di felicità o di soddisfazione interiore che uno sente: esso va giudicato in termini assoluti o in termini relativi? Ovviamente in termini relativi nel senso che alcuni paesi dell'Irpinia, figli della ricostruzione, sono anche i figli di una malintesa idea di ricchezza e di sviluppo che hanno preso in prestito da altri luoghi. Per fare un esempio che potrebbe apparire lontano, ad un certo punto la pubblicità ha iniziato a proporre anche macchine di marchi prestigiosi come alla portata di mano di tutti attraverso un sistema di rate. Così è stato stravolto il mondo: quello che era uno status symbol che identificava una certa fascia sociale sembra messo a disposizione di tutti, costruendo così una certa immagine della ricchezza o dello sviluppo. In termini di narrazione e delle trappole della comunicazione, mi sia consentita inoltre una pillola di esperienza personale. Ero studente universitario o mi ero appena laureato, e stavo a Napoli nel periodo dell'emergenza rifiuti. Avevo una casa in affitto nei pressi di Santa Chiara. Quando scendevo da casa trovavo lo spazzino che puliva e non c'erano i grandi mucchi d'immondizia che vedevo in televisione. Eppure, la televisione mi raccontava di una città invasa dai rifiuti. Di certo i problemi c'erano, ma erano in altre zone della città. La narrazione però veniva cavalcata e non era facile dire che cosa era reale. Ci sono molte cose che non accadono solo a Napoli ma nello spazio urbano di tante altre città.
Diciamo che nella nostra esperienza ci sono anche i narratori dello sfascio territoriale: una figura epica perché ogni territorio che ha delle sofferenze necessita dei certificatori locali, perché se lo dici, tu che sei del posto, sei giustamente credibile. Ora non mi faccia fare nomi anche di personaggi che hanno costruito il loro successo su questo tipo di racconto. Sul terremoto è accaduta la stessa cosa.
Ritorniamo alla vicenda più generale e al dibattito sugli insediamenti produttivi e alle spese sostenute. Si è parlato molto spesso di interventi mai ultimati e di uno sperpero di denaro pubblico.
Il dato di fondo, per ogni possibile analisi, è che noi stiamo parlando di un territorio che era tra i più arretrati non d'Italia ma d'Europa. Sul perché di questo substrato economico potremmo parlare all'infinito; comunque, queste erano le condizioni al 22 novembre 1980. Stiamo parlando sostanzialmente dei 36 comuni disastrati: 18 in provincia di Avellino; 9 in provincia di Salerno; 9 in provincia di Potenza. Le successive scosse portarono il decisore politico ad allargare l'area del cosiddetto cratere arrivando ad oltre 630 comuni. Quando si parla di ricostruzione del dopo terremoto bisogna avere il coraggio di ripartire dalla famosa Legge 219 e da tutto il campo legislativo relativo all'intervento. Se parliamo della ricostruzione delle unità abitative private, o meglio se parliamo della ricostruzione di quello che l'evento sismico ha distrutto, possiamo dichiarare che dopo 10-15 anni grosso modo la ricostruzione privata era stata completata. Colpisce ancora un'altra volta che organi di informazione nazionale a distanza di quarant'anni intervistano gente della mia età – io ho 43 anni appena compiuti – e li spacciano come coloro che sono ancora in attesa del buono per la casa. In questa trappola sono caduti anche tanti miei colleghi. Facciamo un altro esempio di deformazione nella narrazione. Si dice sempre che un chilometro di superstrada è costata in Irpinia 24 miliardi. Dalle altre parti d'Italia quando costano? Qualcuno ricorda mai la complessità ingegneristica per realizzare la Salerno-Reggio Calabria rispetto al passante Bergamo- Brescia? E quando poi scopriamo che il Mose è costato più della Salerno Reggio Calabria?
Noi stiamo parlando dell'evento più catastrofico della storia d'Italia in un paese che non aveva strumenti organizzativi. La legge che istituiva la protezione civile era stata licenziata dalle Camere nel 1970 dopo il terremoto del Belice. La contemporanea nascita delle Regioni e lo scontro politico lasciarono non attuata questa scelta. Di fatto non esisteva alcuna organizzazione. Il secondo elemento è che noi non avevamo strumenti legislativi di tutela paesaggistica e ambientale la prima legge di tutela dei centri storici – piano del colore, come devi fare infissi e così via – è del 1994 e prende il nome da Giuseppe Galasso.
Potremmo dire, ricalcando altre vicende italiane, che ci sono i professionisti del terremoto che rinnovano una visione non sempre reale delle cose?
Indubbiamente è così. Mi sono meravigliato perché il libro non era nemmeno uscito e ho già avuto feroci critiche da gente che poi in privato mi ha anche confessato che il libro non l'aveva letto. Non può essere raccontato soltanto come un processo di spreco, malaffare e camorra. Ci sono stati anche risultati positivi e importanti. Insomma, se vogliamo costruire una memoria condivisa, nella quale tutti si possano riconoscere, è necessario tener dentro tutto quello che non ha funzionato e quello che ha funzionato. Aggiungerei un elemento centrale: un evento del genere determina – come, ad esempio, la pandemia che stiamo vivendo – un processo di accelerazione della storia. Mi rendo conto della difficoltà perché se, dopo quarant'anni, facessimo una ricerca bibliografica attenta scopriremmo che ci sono poche ricerche storiche e moltissimi libri scritti da giornalisti che, in un modo o nell'altro, danno la loro chiave di lettura. Per me l'occasione del quarantesimo anno dal terremoto è stato il momento di partenza di un'analisi che mi vedrà impegnato almeno per i prossimi dieci anni.
Come mai uno storico delle migrazioni si interessa al terremoto?
Partiamo da questo: se c'è un elemento identitario che caratterizza le italiane e gli italiani, con buona pace di tutto e tutti, è il fenomeno migratorio che ha toccato tutti dalle pendici delle Alpi fino a Lampedusa. Se restringiamo il campo alla Campania essa è una delle poche regioni meridionali, se non l'unica regione meridionale, a vivere tutte le fasi della storia migratoria italiana alla pari dei movimenti che sono accaduti al nord (Lombardia, Liguria, Veneto, Piemonte). Napoli non è mai stata una città di immigrazione è bene precisarlo.
Napoli ha vissuto un fenomeno migratorio significativo solo a partire dagli anni '80; Napoli però è sempre stato il luogo della partenza prima con tutta la storia del suo porto e poi come nodo ferroviario che convogliava tutto il flusso migratorio del Mezzogiorno. Nella fase della grande migrazione, la provincia di Avellino è una delle province che maggiormente offre persone alle migrazioni e questo dato viene segnalato anche nel primo annuario statistico del 1925.
Facciamo un salto verso un argomento che potrebbe apparire lontano dal nostro discorso. Come è nato il suo interesse per John Fante, lo scrittore americano la cui famiglia era di origine italiana?
Mi verrebbe quasi da dire che è un tratto biografico. Ho vissuto metà della mia vita in Svizzera e metà della mia vita in Italia. Non saprei definirmi. Sono irpino, altirpino, napoletano e svizzero: insomma sono tante cose perché non ho mai creduto in un concetto di identità fisso. Dopo che mi sono laureato, ho iniziato a interessarmi maggiormente a che cosa accadeva in un territorio che di fatto non conoscevo del tutto. Sono di una generazione post-terremoto e non ho nemmeno memoria di che cosa fossero i luoghi prima. Mi sono direttamente posto la domanda sul perché poi fossero stati ricostruiti in maniera così brutta. Non c'è stata soltanto la speculazione selvaggia Questo elemento non bastava a capire. Le persone sostanzialmente avevano una sete di modernità come quella che vedevano nella televisione commerciale. Ognuno anche a quelle latitudini voleva quel pezzo di modernità E questo ci porta a John Fante giovane: lo scrittore ha un legame forte con le sue origini senza mai esser stato a Torricella Peligna. Quando ho scritto di storia, soprattutto di storia della migrazione, ho sempre messo degli elementi di analisi che riguardassero le aree interne, perché avvertivo questo legame territoriale con un'area con la quale posso identificarmi ma che nei fatti non ho vissuto. Sembra un paradosso. Questa è la stessa dinamica che mi ha subito affascinato di John Fante. Mi sono sentito spinto, per dirla con Dostoevskij, a dare spazio e visibilità a chi inconsapevolmente la storia l'ha fatta, e forse l'ha pure scritta, ma che non si è reso conto di averla fatta.
Narrare la storia di chi ha lasciato la propria terra, non è narrare un fenomeno accessorio della storia d'Italia, ma un tema fondamentale attraverso il quale potremmo riscrivere la storia d'Italia o la storia d'Europa.
C'è proprio una disattenzione o incapacità a capire l'importanza di questi fenomeni demografici e migratori, specialmente adesso quando siamo chiamati a progettare un futuro che se non tiene conto di questi temi non può essere. Per la prima volta nella storia d'Italia il Mezzogiorno rischia di essere demograficamente meno influente rispetto a quello che è stato. Noi italiani adesso siamo intorno ai 60 milioni, ma le proiezioni dal punto di vista demografico ci parlano, tra qualche decennio, di una popolazione dimezzata. Oggi siamo, quindi, di fronte a una sfida epocale: le persone determinano la vita perché i luoghi possono morire, ma se scompaiono le persone, si interrompe ogni storia.
Antonio Fresa
Per saperne di più
Toni Ricciardi, è storico delle migrazioni e delle catastrofi presso l'Università di Ginevra. Codirettore della collana «Gegenwart und Geschichte-Présent et Histoire» (Seismo), è tra i coautori del Rapporto italiani nel mondo della Fondazione Migrantes, del primo Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo (Ser 2014) e membro del comitato editoriale di «Studi Emigrazione» e «Altreitalie», del comitato scientifico del Rim e del Centro di ricerca «Guido Dorso».
Nel 2011 ha vinto il Premio “Sele d'Oro-Mezzogiorno», Rai-Svimez, per gli studi sullo sviluppo nel Mezzogiorno”; nel 2015 “La Valigia di cartone” città di Castel del Monte (AQ).
Ha scritto, tra l'altro, Associazionismo ed emigrazione. Storia delle Colonie Libere e degli Italiani in Svizzera (Laterza, 2013) e L'imperialismo europeo (Corriere della Sera, 2016). Per i tipi di Donzelli ha pubblicato Morire a Mattmark. L'ultima tragedia dell'emigrazione italiana (2015, Premio «La valigia di cartone 2015»); Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone (2016) e Breve storia dell'emigrazione italiana in Svizzera. Dall'esodo di massa alle nuove mobilità (2018). Inoltre, con Irene Pellegrini e Sandro Cattacin, Suchard: un colosso dalle mani migranti. Storie di donne italiane nella cioccolata (Tau 2019); diretto insieme a Fiorenza Gamba, Marco Nardone e Sandro Cattacin, COVID-19. Le regard des sciences sociales (Seismo 2020); e curato insieme a Giovanna Di Lello, Dalla parte di John Fante. Scritti e testimonianze (Carocci 2020).
L'ultimo lavoro è dedicato all'evento più catastrofico della storia dell'Italia repubblicana – insieme a Generoso Picone e Luigi Fiorentino -: Il Terremoto dell'Irpinia (Donzelli 2020).
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