
Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan ha vinto al primo turno le elezioni presidenziali svoltesi ieri. Il primo commento ufficiale è stato: «Il paese ha scelto, continueremo a servire la nazione per migliorare la democrazia»”.
Ma non è facile credergli per quanto è accaduto negli ultimi tempi soprattutto a cavallo delle elezioni amministrative dello scorso marzo quando il suo partito, Partito islamico Giustizia e Sviluppo (Akp) ottenne il 47% dei voti consolidando con la settima vittoria elettorale consecutiva il potere di Erdoğan. Questo avveniva nonostante gli scandali per la corruzione di ministri e parenti, la repressione delle opposizioni e la censura dei social network Twitter Facebook e YouTube. Leggi restrittive sui social media prima e una riorganizzazione dei poteri dei servizi segreti poi hanno ampliato le possibilità di controllo e di tacitare le opposizioni.
Non è facile credergli perché il suo obiettivo dichiarato e quello di arrivare al secondo mandato da presidente e festeggiare i 100 anni della nascita dello Stato turco fondato da Mustafa Kemal Ataturk, ma senza conservarne né la laicità né la separazione dei poteri che caratterizza l'attuale Costituzione. Finora il Presidente della Repubblica era stato eletto dal Parlamento ed aveva un ruolo super partes senza particolari poteri, mentre adesso potrà promulgare leggi, nominare alcune figure dello Stato e avrà il potere di indire nuove elezioni parlamentari. Non avendo la maggioranza sufficiente per dare una connotazione definitivamente presidenzialista alla repubblica turca Erdoğan farà di tutto per stravincere le elezioni parlamentari del 2015 per avere il numero di deputati necessari a finire il lavoro.
Il fondato timore di una larga fetta della società civile e dei partiti che si oppongono al suo dominio è quello di una svolta autoritaria e islamista più di quanto non abbia fatto fino ad oggi.
Il nuovo presidente ha ottenuto il 51,8% dei voti e si insedierà il prossimo 28 agosto. Nel frattempo dovrà dimettersi da capo del partito. L'Akp dovrà trovare un nuovo leader e soprattutto un nuovo premier in attesa delle elezioni parlamentari e che nelle intenzioni di Erdoğan dovrà seguire tutte le sue indicazioni. Difficilmente potremo assistere ad una situazione simile a quanto accaduto in Russia tra Medved e Putin perché il presidente uscente, Abdullah Gül è una personalità di tutt'altra statura e difficilmente si metterà al servizio del “sultano” come lo chiamano i suoi oppositori.
Il principale avversario, sia pur a debita distanza fin dai primi sondaggi, è stato Ekmeleddin Ihsanoglu, ex numero uno dell'Organizzazione della cooperazione islamica e candidato per il Chp e dell'Mhp, ha conquistato il 38,5% dei voti, mentre il leader del curdo Hdp non è arrivato al 10% anche se è un buon risultato che segna un momento storico per la Turchia [1].
«A trent'anni dall'inizio della lotta armata guidata da Abdullah Öcalan (leader in carcere del PKK, partito dei lavoratori del Kurdistan), la candidatura di Demirtaş ha portato l'impegno politico legale curdo ai suoi livelli più alti, attirando anche numerosi elettori turchi, grazie al suo linguaggio egalitario»[2].
Saleddin Demirtas, giovane avvocato di professione ha iniziato la sua carriera politica nel 2007 difendendo i diritti curdi e tutti coloro che in grande quantità sono sfruttati ed emarginati dalla società.
Possiamo riassumere le ragioni della vittoria elettorale:
– i risultati in economia che hanno consentito alla Turchia di diventare una potenza economica e che ancora nel primo trimestre del 2014 il Pil viaggiava ad un invidiabile +4,3%.
– la maggiore considerazione del ruolo internazionale, sia pur appannato dopo quanto successo ai suoi confini
– ad una legge elettorale che pone ostacoli di rappresentatività alle opposizioni
– ad una campagna elettorale dominata dall'Akp e dal suo leader senza limiti di spesa
– inadeguatezza del suo maggiore concorrente Ekmeleddin Ihsanoglu
Quest'ultimo era poco noto al grande pubblico con una leadership politica marginale e sostenuto da una coalizione composta da cinque partiti d'opposizione: il Partito Repubblicano del Popolo (CHP), i kemalisti principali antagonisti dell'AKP, il Partito del Movimento Nazionalista (MHP), il Partito della Sinistra Democratica (DSP), il Partito Indipendente Turco (BTP) e il Partito Democratico (DP).
Paradossalmente gli ostacoli maggiori per la strategia presidenzialista del nuovo presidente vengono da fuori perché se non ritrova una posizione migliore (dopo la brutale repressione di Gezi Park) nelle relazioni con l'Occidente avrà difficoltà a fronteggiare i tentativi di destabilizzazione che avvengono ai suoi confini in Siria e Iraq.
Lo scorso 13 giugno 49 persone sono state rapite nel consolato turco a Mosul dallo Stato islamico dell'Iraq e del Levante (ISIL). «La Turchia non riesce nemmeno ad aiutare i palestinesi sotto attacco a Gaza perché, come ricorda l'analista del quotidiano Radikal Murat Yetkin, “non ha più ambasciatori in Israele, Egitto e Siria. Non le restano più canali aperti per aiutare i palestinesi cui ha sempre allungato una mano” [3]».
Pasquale Esposito
[1] Per un'analisi dei candidati, Carlo Pallard, “TURCHIA: Elezioni presidenziali, gli sfidanti di Erdoğan”, www.eastjournal.net, 22 luglio 2014 in Elezioni ad est, Turchia with 0 Comments
[2] Fazıla Mat, “Turchia presidenziali: il binario parallelo di Diyarbakır”, www.balcanicauso.org, 10 agosto 2014
[3] Fazıla Mat, “Turchia elezioni: Erdoğan mira al presidenzialismo”, www.balcanicaucaso.org, 1 agosto 2014
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