
Una giovane donna originaria del Trentino, in seguito ad una grave perdita, decide di raggiungere l'Amazzonia, mettendosi a fianco di Suor Franca, un'amica della madre, in missione tra gli Indios.
Inizia così il viaggio di Augusta, su un barcone che scivola lungo il fiume e che approda di villaggio in villaggio a portare la fede, a rendere possibile l'incontro con quell'assolutamente altro che è Dio.
Lo scopo del viaggio di Augusta nasce, più che dalla fuga dal dolore – che continuerà comunque a portare dentro di sé – dal bisogno di trovare un nuovo equilibrio interiore capace di ridare un senso alla propria esistenza; un viaggio carico di domande che arriveranno a destabilizzare l'intera visione del mondo occidentale ponendo l'urgenza di questioni universalmente valide.
La prima ovvia domanda che Augusta pone a Suor Franca è quella sul senso della trasmissione della fede religiosa a popolazioni appartenenti ad una cultura talmente diversa per cui alcuni riti (come quello della confessione, del peccato ecc.) risultano quasi o del tutto incomprensibili; la domanda “dobbiamo chiedere perdono per cosa?” posta da un personaggio problematizza infatti l'incontro/scontro tra culture diverse e rivela l'arbitrarietà di un indottrinamento coatto di cui spesso noi occidentali, convinti di stare nel giusto, viziati di etnocentrismo, ci facciamo portatori.
Si potrebbe analizzare il terzo lungometraggio di Giorgio Diritti a partire da diversi fili tematici, ma sostanzialmente mi pare che il discorso principale si snodi su un duplice binario, che rivela poi sostanzialmente un duplice approccio dello stare al mondo speculare alle due culture a confronto: uno, tutto astratto, interiore, racchiuso entro le maglie delle sovrastrutture culturali e votato ad una rappresentazione metafisica dell'esistenza; l'altro, non mediato, diretto, votato ad un contatto diretto con quella madre terra e natura di cui facciamo parte, ma da cui abbiamo subito uno strappo quasi insanabile che continua a sanguinare come una ferita sempre aperta.
Cosicché il dolore che Augusta porta dentro di sé non è solo quello derivante dalla perdita del proprio bambino e dalla scoperta che non potrà più avere figli, ma anche proprio dalla progressiva consapevolezza di aver vissuto, fino a quel momento, una vita non autentica, viziata da un concetto di felicità artificiale che ha portato a parcellizzare la società in una serie di atomi – gli individui singoli – sempre più isolati gli uni dagli altri e proni ad inseguire e ricercare tutta una serie di bisogni e desideri indotti dalle leggi del mercato. La disperazione di Augusta è un po' la stessa del mondo occidentale che ha perso il valore e il senso della comunità e cerca il sollievo in un'entità astratta – Dio, la religione o altri idoli – anziché rivolgersi alla concretezza dell'amore e della solidarietà verso il prossimo, o anche al semplice, ma salvifico, contatto e ricongiungimento con la natura. In tal senso emblematica mi è parsa la metafora del fiore affidata alle parole del medico di un villaggio: cogliamo un fiore, strappandolo alla terra, lo facciamo a pezzi, lo sezioniamo, lo dividiamo in pezzettini infinitesimali allo scopo di studiarlo, ma così facendo finiamo anche per perderne l'intima essenza, facendolo, letteralmente, scomparire.
Il viaggio di Augusta, al contrario di quel che banalmente si potrebbe dire, non sarà un viaggio dentro sé stessa, ma proprio all'esterno di sé stessa, volto alla compartecipazione, guidato dallo sguardo di totale meraviglia e abbandono verso l'altro. Un'apertura a ciò che sta al di fuori, alla concretezza e materialità del puro esistere, stare, essere al mondo.
Un giorno devi andare perché, questo il senso, è solo là dove le cose necessitano di essere cambiate che si deve andare e non lo si può fare che sporcandosi le mani, lasciando ogni certezza, provando ad esserci e starci realmente: “devi andare, devi esserci, devi sperare”, come infatti scriverà Augusta alla madre. E il suo viaggio sarà progressivo, via via di sempre maggiore allontanamento dalle sicurezze e certezze del mondo occidentale – così come dalle elucubrazioni e speculazioni intellettuali e metafisiche – perché è solo lasciando andare qualcosa, eliminando il superfluo, che sarà possibile fare posto al nuovo. Così dai villaggi degli Indios insieme a Suor Franca, Augusta passerà a vivere nelle palafitte, a Manaus, anche chiamate “favelas”, strutture povere, misere, ma dove il senso della comunità supplisce alle carenze materiali e fa da collante per un'esistenza ridotta ai bisogni più elementari, ma anche per questo più autentica e immediata. Dopodiché, ancora insoddisfatta, Augusta si isolerà nella foresta, esponendo il proprio corpo alle intemperie, alle forze di una natura primordiale alla quale solamente ci si può affidare ricercando quel senso del sublime di cui parlava Schopenhauer, smettendo di preoccuparsi per la propria incolumità e facendosi parte di un tutto, ritornando a percepirsi tutt'uno con l'universo. Qui Augusta capirà non solo che l'amore è il contatto con l'altro vissuto nell'immediatezza dell'incontro, anche fugace, purché realmente aperto e non viziato dalla smania del dominio e del possesso, ma anche che ogni donna porta in sé quella capacità di essere madre, non necessariamente incanalata nel concepimento di un figlio proprio.
Senso della comunità, incontro con l'altro, capacità di accoglimento e di protezione, ritorno ad un contatto più diretto ed immediato con la natura, quindi con l'esistenza – intesa come mero esistere, esserci, toccare e sporcarsi con gli elementi, la terra, l'acqua, il fuoco, l'aria – ritrovato senso della vita proprio riconducendola ai suoi bisogni essenziali, questi e altri ancora i temi che Giorgio Diritti affronta in quest'ottima opera filmica che nella prima parte richiede un minimo di attenzione allo spettatore, ma che poi ripaga con un epilogo maestoso e immensamente toccante, affiancato da una bellissima colonna sonora che a tratti sembra riecheggiare i battiti del cuore di una natura sempre viva cui non si smette mai di anelare. E chissà che questa smania di assoluto cui tutti sempre tendiamo non sia in realtà il semplice richiamo di quella madre terra dalla quale proveniamo e a cui potremmo ricongiungerci solo aprendoci all'altro e non già attraverso una vana introspezione solipsistica. Il senso della vita, dunque, se un senso può darsi, è nella terra che calpestiamo, l'aria che respiriamo, l'acqua che beviamo, il sorriso dell'altro che ci viene incontro e non già in una ricerca estenuante oltre la fisicità dell'essere. Conduce dunque, Un giorno devi andare, ad una sorta di religiosità laica, consolante e appagante proprio perché raggiungibile da chiunque, a patto che si abbia il coraggio, appunto, di partire, di andare.
Rita Ciatti
Scheda del Film
Titolo: Un giorno devi andare – Produzione: Simone Bachini, Giorgio Diritti, Lionello Cerri– Genere: drammatico – Durata: 110'– Regia: Giorgio Diritti – Sceneggiatura: Giorgio Diritti, Fredo Valla, Tania Pedroni – Fotografia: Roberto Cimatti – Montaggio: – Esmeralda Calabria – Musica: Marco Biscarini, Daniele Furlati – Scenografia – Jean-Louis Leblanc, Paola Comencini – Attori Principali: Jasmine Trinca, Anne Alvaro, Pia Engleberth.
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