
Benvenuti nel mondo delle isole di plastica. Il pianeta da alcuni anni ha un nuovo continente. Stiamo parlando dell’immenso conglomerato di rifiuti, plastica soprattutto, che galleggia nel Pacifico: Great Pacific Garbage Patch. Nel mezzo del nord del Pacifico rifiuti che si sono ammassati su una superficie stimata da 700.000 kmq a 15.000.000 chilometri quadrati. Per fare un paragone ricordiamo che l’Italia è poco più di 300.000 chilometri quadrati.
Ma non è la sola perché nell’Atlantico del Nord c’è un’isola di rifiuti plastici galleggianti per qualche centinaio di chilometri. E secondo un recente dossier commissionato da Legambiente [1] la situazione nel Mediterraneo è altrettanto grave. Il rapporto Expedition MED del gennaio 2011 parla di 500 tonnellate di rifiuti plastici in superficie e la concentrazione di frammenti plastici è maggiore di quella dei <<continenti spazzatura>>. La zona marina a cui si fa riferimento si trova a largo della Spa¬gna, Francia e nord dell’Italia. Dai prelievi effettuati al largo dell’isola d’Elba emerge che <<il numeero di frammenti rilevato sarebbe di 892.000 elementi per chilometro quadrato, contro una media di 115.000 frammenti plastici per chilometro quadrato>>.
Tornando al nuovo continente di plastica nel Pacifico gli studiosi ritengono che si sia formato a partire dagli anni Cinquanta e la conferma definitiva della sua esistenza è del 1997 quando l’oceanografo Charles Moore si è imbattuto casualmente nel vortice che si crea nell’area e che trattiene il putride ammasso di rifiuti.
Il vortice (North Pacific Gyre), formato da quattro correnti oceaniche, assembla tutti i rifiuti provenienti dai sistemi di trasporto marini, dalle piattaforme petrolifere e direttamente dalla terraferma (circa l’80% del totale). I rifiuti impiegano cinque anni per arrivare dalla costa ovest degli Stati Uniti e meno di un anno da quelle giapponese e cinese.
Ruotando lentamente in senso orario l’acqua forma una spirale e qualsiasi materiale galleggiante è sospinto verso il centro del vortice ed essendoci poche spiagge dove depositarsi tutto resta al centro con una concentrazione micidiale: sei chili di plastica per ogni chilo di plankton.
E difficile individuare e analizzare tutti i materiali che la compongono ed è complicato stabilire la profondità di queste isole galleggianti. Le osservazioni dai satelliti sono quasi inutili per la presenza della plastica che risulta invisibile e quindi bisogna navigare fino alle “isole”.
Recentemente l’oceanografa Kara Lavender Law della Sea Education Association, nel presentare i dati sull’altra grande pattumiera nell’Atlantico e precisamente nel Mar dei Sargassi, ha detto che lo spessore è di circa dieci metri. Utilizzando delle reti con maglie fittissime tra il 1986 e il 2008 hanno raccolto, in più di 6.000 pescate, circa 64.000 pezzi di plastica (meno di un centimetro di dimensioni e con un peso inferiore a 0,15 grammi) risultato di qualsiasi rifiuto che possiamo facilmente immaginare dai bicchieri, alle buste, agli spazzolini, alle suole di scarpe…
Si hanno notizie, anche se meno precise, di molte altre zone oceaniche che stanno accumulando plastica formando altre “isole” come per esempio nel Sud America.
Il disastro ambientale è enorme. Sono a rischio centinaia di specie animali, dai mammiferi agli uccelli, che ingeriscono questi materiali e ne restano intossicati. Quando poi i composti sono i policlorobifenili siamo all’inquinamento della catena alimentare che arriva all’uomo.
Un altro effetto dannoso è la propagazione di specie invasive che incollandosi sulla superficie di questi minuscoli pezzetti attaccano nuovi ecosistemi.
Da più parti si sta cercando una soluzione anche se quella più immediata potrebbero essere la bonifica delle aree come sta provando a fare l’oceanografo Richard Owen con un flotta. Più complesse e a lungo termine le soluzioni che portano ad isole di plastica colonizzabili dall’uomo come pensa di fare il progetto denominato Recycled Island.
Intanto affinché un bene comune come il mare sopravviva le strade migliori passano per tre verbi da coniugare alla plastica: produrre meno, conumare meno e riciclare di più.
Pasquale Esposito
[1] Il dossier ha il titolo “L’impatto della plastica e dei sacchetti sull’ambiente marino” ed è stato realizzato da Arpa Toscana e dalla struttura oceanografica Dapnhe di Arpa Emilia Romagna.
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