Una vita che sto qui di Roberta Skerl con Ivana Monti

Ivana Monti teatro
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Il monologo è dirompente e, se nella prima parte dello spettacolo, sembra prevalere il divertimento, con il passare dei minuti si entra in un universo emozionale del tutto diverso e tutt’altro che lieve. Dietro alla protagonista Adriana (una straordinaria Ivana Monti, intensa e quasi travolgente anche per le modulazioni di una voce capace di esplorare con naturalezza i diversi colori dell’anima) e alla sua storia personale, si muove una vicenda molto più ampia. Più di un trentennio di storia italiana vissuta e osservata dall’ottica di una singola persona che, attraverso la sua esperienza, ci restituisce la dimensione più autentica e a tinte fosche in cui ha vissuto (o più precisamente sopravvissuto) una rilevante fetta della società milanese, la parte più disagiata e più umile, tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta.

Adriana oggi ha 80 anni. Ha appena ricevuto una lettera dell’ALER (Azienda Lombarda Edilizia Popolare) con la quale le è stato comunicato che dovrà lasciare, provvisoriamente (almeno in teoria) per lavori di “riqualificazione”, la casa situata nel quartiere periferico del Lorenteggio, in cui abita da quando aveva 17 anni. Sta riordinando le poche cose che possiede (vestiti, oggetti) e, nel frattempo, attraverso una parete discute animatamente con il vicino di casa, un immigrato africano di colore che la disturba con la musica troppo alta. L’interazione con il vicino, dietro alla quale si nascondono i problemi legati alla difficile integrazione degli immigrati e alla contemporanea perdita della vecchia identità locale, quasi contaminata in un mondo per vari aspetti irriconoscibile, costituisce l’occasione per un viaggio nel passato. Un viaggio insieme malinconico e nostalgico ma soprattutto doloroso, in cui compaiono le figure più importanti per Adriana. Innanzitutto i genitori (Umberto e Maria) e il figlio Roberto; il suo primo amore Sergio con cui scopre il sesso a 15 anni (il padre lo picchia perché Adriana gli ha detto di essere stata presa con la forza, ma non era vero); Alberto, giovane conosciuto alla bocciofila che si rivela una figura abbietta e senza scrupoli; il marito Gianni, che non è il padre di Roby e che vive da separato in casa senza prendersi alcuna responsabilità. Le figure maschili, con l’eccezione di suo padre, sono fallimentari e costringono a riflettere sulla condizione femminile, ieri disastrosa, oggi migliorata ma senza le rivoluzioni sognate.

Ivana Monti in
Una vita che sto qui foto Francesco Bozzo

Adriana parla di lei bambina, descrive un’infanzia molto difficile attraverso la tragedia della guerra durante la quale si dispiegano i suoi primi anni di vita. L’8 settembre 1943 e l’annuncio dell’armistizio (Adriana ha due anni); gli Alleati che sembrano dalla parte giusta ma che, intanto, bombardano Milano; le “fortezze dell’aria” che distruggono una scuola nel quartiere di Gorla uccidendo 200 bambini, le vittime innocenti per eccellenza di ogni conflitto; la Resistenza contro i fascisti e i nazisti alla quale partecipa il padre, che aveva tre amori: Stalin, la cantante Renata Tebaldi e il Milan; Porta Genova e i navigli, la fabbrica. Poi arriva improvvisa la rinascita, simboleggiata dalla riapertura della Scala nel maggio del 1946 con un concerto diretto da Arturo Toscanini, “il più grande dei direttori”, quello antifascista. Dentro al teatro ci sono i ricchi, chiarisce Adriana, ma sembra che tutti i milanesi partecipino a una sorta di evento catartico attraverso un impianto che diffonde la musica fuori dal teatro stesso. Si piange e si ride insieme, in via Torino come in via Manzoni. Poi le prime elezioni politiche del 1948, “le vincono loro”, la DC di De Gasperi. Quindi la gioia quando nel 1958 la mamma Maria ottiene la casa popolare di 48 metri quadrati, con il bagno interno. Un assoluto privilegio per quei tempi, una vera conquista…

Ancora il padre, che ha vissuto l’inaugurazione del secondo anello dello stadio di S. Siro. Può goderselo ben poco, una brutta caduta lo rende invalido e lo conduce alla morte nel 1960. La mamma all’inizio reagisce, dopo due mesi crolla e quel che resta della famiglia è sulle spalle della sola Adriana, che obbligatoriamente lavora dovendo anche assistere Maria. Non conosce che singoli momenti di leggerezza, ma il peggio deve ancora venire. Alberto si presenta bene: gioca alla pelota, frequenta il Vigorelli e S. Siro, ma per giocare ai cavalli… È un approfittatore che la porta sul lago facendole immaginare una vacanza a Laveno, proprio a lei che mai è uscita da Milano. Ma il sogno s’infrange subito: la porta da una zia che vuole avviarla alla prostituzione… A diciannove anni si ritrova incinta e perde il lavoro, si confida con la madre che, inaspettatamente, reagisce all’apatia e le dà un po’ di forza per continuare. A 28 anni lavora 10 ore al giorno in una portineria, un salto di qualità ma la sostanza non cambia. Adriana, che pure ha avuto alcune amiche ora fisicamente più acciaccate di lei, può veramente contare solo su se stessa.

Gli anni Sessanta: il miracolo economico e l’immigrazione interna. Dal Sud arrivano napoletani e pugliesi (i neri di ieri): generosi e “casinisti, hanno fatto loro Milano”, ricorda Adriana. Corso Buenos Aires e la metro rossa (cioè la linea uno), il Pirellone e la grande fabbrica, in cui aveva lavorato anche il padre. Non si capiva molto di quel che dicevano i meridionali ma, quando tornavano dal Sud, portavano sempre cose buonissime. Se avevi bisogno di qualcosa, loro c’erano: quindi una forma d’integrazione era (ed è) possibile.

Poi arriva la fine del decennio: il ’68 e la contestazione giovanile, il ’69 e l’autunno caldo, quindi il terrorismo e gli anni di piombo. Ma anche la criminalità comune: Vallanzasca e la Comasina, soprattutto la diffusione dell’eroina che falcidia i giovani. Anche Roby comincia ad assentarsi da casa, quando torna non è più in sé, le braccia martoriate dai continui buchi. Dorme intere giornate, non lavora e chiede continuamente soldi per la droga. Adriana non li ha, si può sempre farli all’Arena le dice il figlio: torna l’incubo della prostituzione che sembra diventare reale. Poi l’asettica comunicazione della polizia: Roby è morto. L’hanno trovato su una panchina, Adriana ricorda il Parco Lambro. È un altro luogo simbolo di una Milano ricca di drammatiche contraddizioni. Roby è stato ammazzato, ma da chi esattamente? Dal “sistema” che non ha combattuto abbastanza duramente la droga, secondo qualcuno usata per indirizzare le energie dei giovani verso l’autodistruzione? Lo Stato, c’è o no? Da che parte sta? “Assassiniiiii”, è l’urlo lancinante di una donna sola e di una madre tradita. La rabbia individuale, qui, si mischia con la rabbia sociale.

“E ora”, dice Adriana in conclusione, “a 80 anni dove vado? È successo tutto qui”, al Lorenteggio. Lo spaesamento, un futuro incerto e cupo di fronte al quale è difficile sperare, mentre la vita ormai è quasi passata. Un finale potente come tutto il monologo, insieme privato e pubblico, che testimonia la sensibilità storica e l’impegno civile di un’attrice di primaria grandezza.
Andrea Ricciardi

Una vita che sto qui
di Roberta Skerl
con Ivana Monti
regia Giampiero Rappa
scene Laura Benzi
luci Marco Laudando
assistente alla regia Maria Federica Bianchi e Beatrice Cazzaro
montaggio video Alberto Basaluzzo
macchinista Paolo Roda
elettricista Nicola Voso
sarta Simona Dondoni
scene costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti

Produzione Teatro Franco Parenti

Durata: 90’

 

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