
Dopo le elezioni di midterm, la battaglia politica negli Stati Uniti va verso le presidenziali del 2024 con vecchi e nuovi candidati. Di questo ma anche di diritti e democrazia abbiamo parlato con Eric Gad, analista politico e comunicatore digitale lavora nel campo della comunicazione politica tra il Comune di Roma e la Regione Lazio. Nel gennaio 2020, insieme ad Alessia Gasparini ha fondato The Union: podcast e pagina di approfondimento sui social sulla politica e sulla cultura degli Stati Uniti. Inoltre, collabora con la rivista Left dove scrive di esteri e temi sociali.
È una domanda che avrebbe bisogno evidentemente di molti approfondimenti. La sua collega Alessia Gasparini nel volume This is (not) America (verrà presentato il 24 prossimo nella sede della rivista Left) e a cui ha partecipato si chiede “Esiste ancora la democrazia negli Stati Uniti?”. C'è molto del diritto di voto spesso ostacolato da leggi statali e delle discriminazioni razziali nello “scivolamento” degli USA nella classifica per i diritti politici e le libertà civili. Che ne pensa?

Riprendendo la provocazione della collega Alessia Gasparini nel libro This is (not) America, rispondo dicendo che la democrazia negli Stati Uniti esiste ancora, ma da ormai diversi anni vive una fase di grande confusione esistenziale, sfociata in maniera plateale con l'assalto a Capitol Hill, dovuta, secondo me, principalmente a due macro-fattori: uno di tipo politico-istituzionale e l'altro sociale.
Dal 1789 a oggi, fatta eccezione per pochi aggiustamenti, l'architettura delle istituzioni statunitensi è rimasta pressoché invariata. Si elegge ancora il presidente attraverso il particolare sistema dei Grandi Elettori che può dar vita a presidenze che non hanno ottenuto la maggioranza del voto popolare, come è accaduto nel 2016 con Donald Trump e nel 2000 con George W. Bush. Poi anche il numero dei membri al Senato federale, due per ogni Stato, voluto all'epoca dai Padri Fondatori per un motivo preciso, in questo momento difetta di democraticità: ad esempio la California, attualmente terza economia al mondo, con una popolazione di 39 milioni abitanti ha la stessa rappresentanza a livello nazionale del Rhode Island che ha 1 milione di abitanti. È evidente che tutto questo dà vita a delle storture che, però, non vengono corrette perché negli Usa esiste la convinzione innata che la loro democrazia sia già perfetta e sacra così perché Dio ha scelto che gli Stati Uniti dovessero essere il faro che guidasse il mondo. Per il momento non ci sono segnali che vanno verso una direzione di revisione costituzionale.
Il secondo fattore ha a che fare con i cambiamenti demografici che stanno interessando gli Stati Uniti e che stanno portando il Paese ad essere sempre più multietnico: entro il 2040 i bianchi saranno solo la più grande delle minoranze. Questa situazione sta creando paura e tensione sempre più crescente tra la popolazione bianca più conservatrice che non vuole perdere gli antichi privilegi e il potere. È come se sotto i loro piedi stesse franando il terreno. L'elezione di Donald Trump, l'idolo di questa parte di America, subito dopo gli 8 anni di presidenza Obama è da interpretare come quasi l'ultimo disperato canto del cigno. Oltre a questo i legislatori più a destra del Partito repubblicano per ostacolare le minoranze, che votano nella stragrande maggioranza i democratici, alterano le regole del gioco democratico, nello specifico il diritto di voto, con norme e divieti assurdi (ad esempio, in Georgia le associazioni non possono portare bottigliette d'acqua o cibo agli elettori in coda davanti al seggio elettorale). Proprio queste limitazioni al voto e la più recente cancellazione da parte della Corte Suprema della sentenza Roe v. Wade del 1973, che proteggeva a livello federale l'aborto, hanno fatto sì che gli Stati Uniti scendessero al 59° posto della classifica diritti politici e le libertà civili di Freedom House.
A proposito di diritti. In concomitanza con le elezioni e deputati e senatori al Congresso si sono svolti una serie di referendum negli stati relativamente alla legalizzazione della marijuana, all'aborto ma anche alla schiavitù. Quali conclusioni si possono dare?
La questione principale emersa dai referendum votati alle elezioni di midterm è che la difesa del diritto ad abortire è un tema importante per tutte le elettrici e tutti gli elettori del Partito democratico e per una buona parte di quelli repubblicani. Lo testimoniano anche i sondaggi, più di 2 americani su 3 sono favorevoli all'interruzione di gravidanza.
L'8 novembre, sull'aborto si era chiamati a decidere in California, Michigan, Vermont, Kentucky e Montana e in questi cinque Stati si è votato in maniera convinta a favore della scelta delle donne. Il risultato non era per niente scontato nei conservatori Kentucky e Montana, come non lo era affatto in Kansas, altro Stato iper conservatore, dove a inizio agosto si è votato per un referendum simile.
Per quanto riguarda gli altri referendum, in Louisiana, Alabama, Tennessee, Oregon e Vermont si è deciso, finalmente, di eliminare dalle costituzioni statali quell'orrida norma che prevedeva la sopravvivenza della schiavitù sotto forma di lavori forzati come punizione per i carcerati. Un report dell'American Civil Liberties Union ha scoperto che 2 persone su 3 appartenenti alla popolazione carceraria statunitense svolge un impiego, ma lo fa in stato di schiavitù: senza paga o per pochi centesimi l'ora, senza diritti, tutele sindacali e sotto ricatto costante.
Mentre le vittorie referendarie della cannabis legalizzata per tutti gli usi in Maryland e in Missouri (ora sono 21 gli Stati che lo prevedono) non sono particolarmente sintomatiche di un avanzamento sul tema, ma sono anni luce avanti rispetto alla situazione in Italia.
Donald Trump è uscito malconcio dalle elezioni di midterm per le sconfitte rimediate dai suoi candidati, ma si è ripresentato per la corsa alla Casa Bianca. Ci crede veramente? Quanta parte del Partito repubblicano lo sostiene ancora? Anche se Jamelle Bouie, editorialista sul NY Times, ricorda di non sottovalutare la presa di Trump sugli elettori repubblicani. È l'estremo tentativo di difendersi dalle varie e gravissime inchieste a cominciare da quella dell'assalto a Capitol Hill?
Parto con il dire che per la prima volta il midterm è stato un referendum su due presidenti: quello in carica e il suo predecessore. Joe Biden ne è uscito rafforzato nonostante il Partito democratico abbia perso il controllo della Camera per pochi seggi, ma mantenuto il Senato guadagnando l'importante seggio in Pennsylvania con John Fetterman. Donald Trump, invece, è uscito indebolito da queste elezioni: i candidati da lui appoggiati alle primarie repubblicane nella maggior parte dei casi hanno perso poi le sfide contro i rivali democratici, dimostrando che le figure più estremiste non sfondano negli Stati maggiormente in bilico.
È sicuramente prematuro dare per finito Trump, ma la sua stella è notevolmente in calo. A parte le elezioni del 2016, vinte a sorpresa contro Hillary Clinton senza avere la maggioranza del voto popolare, The Donald è uscito sconfitto in tutte le successive tornate elettorali. Intorno alla sua figura sono cresciuti i malumori e, da dopo il midterm, c'è chi lo critica apertamente, mentre solo fino a qualche tempo fa chi contestava l'ex presidente era praticamente fuori dal Partito, come è successo a Liz Cheney, espulsa senza tanti complimenti. L'establishment del Partito repubblicano che si era alleato con lui per convenienza, senza mai apprezzarlo veramente, ha iniziato a voltargli le spalle. Donald Trump ha fatto l'annuncio della sua terza candidatura alla presidenza nonostante i vertici repubblicani già da quest'estate gli stessero chiedendo di aspettare.
L'ex presidente continua ad avere molti sostenitori nella base del Partito repubblicano, soprattutto tra le frange più estremiste e complottiste, ma senza un partito alle spalle che lo supporta e le diverse inchieste che pendono a suo carico, penso che la strada per Trump verso la Casa Bianca si faccia più complicata. In più, nuovi temibili avversari sono pronti a sfidarlo senza timore reverenziale alle prossime primarie repubblicane.
In suo articolo sul volume citato prima dal titolo Alla fine arrivano Newson e De Santis. I governatori rispettivamente della California e della Florida sembrano aver già cominciato a “punzecchiarsi reciprocamente per accreditarsi sia come front runner dei rispettivi partiti e sia per farsi conoscere su tutto il territorio nazionale”. Esprimo due visioni della politica americana diametralmente opposte. Quali sono i punti di maggiore contrasto? Che possibilità hanno di sostituirsi a Biden e a Trump nella corsa alla Casa Bianca? Gavin Newson può aggregare dietro di sé la sinistra radicale e De Santis i seguaci di Trump?
Dopo due elezioni presidenziali in cui si sono sfidati candidati molto in là con gli anni, nella politica statunitense si sta facendo strada una generazione di politici cinquantenni che è pronta a sostituire quella precedente. Nel Partito democratico, la speaker Nancy Pelosi, 82 anni, ha deciso dopo 20 anni di lasciare il suo ruolo di leader alla Camera. Non è chiaro, invece, se il presidente Joe Biden, che domenica scorsa ha compiuto 80 anni, voglia realmente cercare la riconferma. Nel caso Biden non dovesse ripresentarsi, tra i democratici penso che si candideranno alle primarie la vicepresidente Kamala Harris, Pete Buttigieg, Stacey Abrams e alla fine Gavin Newsom, che per me è quello che ha maggiori possibilità di vittoria. Newsom, che è stato rieletto governatore della California al midterm, è una figura di compromesso tra le varie anime democratiche, non è un progressista alla Alexandria Ocasio Cortez, ma si batte per la difesa dell'ambiente, dei diritti civili (aborto in primis) e per la regolamentazione delle armi fuoco. Su di lui penso che il Partito democratico possa trovare una buona sintesi. Mi piacerebbe molto vedere nel 2024 un ticket presidenziale Newsom-Abrams.
Trovare l'erede di Donald Trump nel Partito repubblicano è molto semplice: è Ron DeSantis. Il governatore della Florida, anche lui riconfermato nelle elezioni di medio termine, è la versione più concreta e aggiornata dell'ex presidente, un Trump 2.0 come l'ha definito il New York Times. Come ho scritto nell'articolo che hai citato, DeSantis è riuscito a fare in Florida tutto quello che i repubblicani speravano che Trump facesse da presidente degli Stati Uniti. Ha creato una polizia elettorale che ha il compito di scoprire ed evitare frodi durante le elezioni, ha fatto approvare al Congresso statale diversi leggi che andavano a normare cosa si potesse insegnare e cosa no nelle scuole della Florida. Su armi e aborto, temi chiave per l'elettorato repubblicano, esprime le classiche posizioni conservatrici di contrarietà a maggiori controlli nel primo caso, mentre è favorevole a forti limitazioni al diritto di abortire.
I maggiori punti di contrasto tra Gavin Newsom e Ron DeSantis corrono lungo le linee che dividono oggi gli Stati Uniti: diritti, armi e ambiente. E come racconto più diffusamente nel libro le loro posizioni non potrebbero essere più diverse. Negli ultimi mesi, i due governatori si sono più volte punzecchiati sui social e chissà se questi scontri ci accompagneranno fino a novembre 2024, quando avranno luogo le prossime elezioni presidenziali.
Pasquale Esposito
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