UTØYA di Edoardo Erba. Una strage dimenticata.

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Utøya ci riporta al 22 luglio 2011 in Norvegia materializzando sul palco voci e corpi di alcuni testimoni di cosa accadde quel giorno visto con gli occhi di chi era a casa e stava discutendo con il marito se comprare o no un gatto o chi era a lavoro e stava pensando di portare i bambini dalla nonna.

Cosa la strage dell’isola di Utøya, paradiso dei giovani socialisti europei, significò per i norvegesi?

Una pièce teatrale ispirata al libro “Il silenzio sugli innocenti” scritto dal giornalista Luca Mariani che non si arrende alle prime evidenze, ma approfondisce quegli eventi indagando le profonde motivazioni che fanno si che ancora oggi la narrazione sulla strage di Utøya la faccia ricordare come una azione compiuta da un matto piuttosto che come una strage politica contestualizzata in una situazione internazionale che il “mass murder” Anders Behring Breivik aveva previsto nei suoi scritti, anticipando di diversi anni la rinascita di un fronte unitario di destra europea xenofoba ed intollerante che passa da Putin a Le Pen dalla lega italiana all’alleanza all’FPO austriaco fino all’alleanza delle destre al parlamento europeo del 2014.

Ci ritroviamo in una Norvegia che si sente al sicuro rispetto agli attentati terroristici che imperversano in quegli anni in Europa.
Tre coppie di norvegesi che ben rappresentano l’intera popolazione del Paese si trovano ad assistere con incredulità e sconcerto a quello che accadde quel giorno: abbiamo i genitori di una adolescente che è stata mandata per insistenza del padre al campeggio dei giovani laburisti sull’isola di Utoya perché considerata una scapestrata che pensa solo allo shopping mentre il padre vorrebbe che maturasse una sua coscienza politica e avesse degli ideali mentre la madre della ragazza contesta all’uomo le sue assenze materiali ed emotive dalla vita della figlia. La coppia di genitori rimane sgomenta già quando apprende che il palazzo del governo ad Oslo è stato oggetto di un attentato, come la maggior parte dei norvegesi ritenevano il proprio Paese al sicuro da qualsiasi attentato perché i norvegesi sono un popolo tollerante e pacifico e attribuiscono alla matrice islamica l’accaduto. Il sapere che il campeggio di Utøya è sotto attacco li pietrificherà nell’attesa di un “dolore annunciato” dinanzi al quale il loro rapporto non potrà sopravvivere.

Mattia-Fabris e Arianna Scommegna in Utøya.
Foto Serena Serrani

Abbiamo un fratello ed una sorella agricoltori che vivono in una fattoria, l’uomo disabile ha notato da diversi mesi il vicino di casa fare cose strane: ha comprato una grande quantità di fertilizzanti eppure il suo campo appare incolto gli sembra inoltre strano che un uomo solo abbia deciso di vivere li da solo e da solo mandi avanti una azienda agricola, vorrebbe oltrepassare il recinto che separa le due proprietà per osservare da vicino i suoi strani comportamenti, ma la sorella lo dissuade prontamente: “ricorda quello che ci hanno insegnato i nostri nonni e i nostri genitori su come dobbiamo comportarci con gli altri: buongiorno, buonasera e basta”.

Incontriamo poi la coppia più inquietante e quella che nello spettatore genera più sconcerto; i due agenti di polizia che erano di turno molto vicino all’isola di Utøya, ma che non intervennero perché attendevano ordini da Oslo, perché per usare le imbarcazioni dei turisti per raggiungere l’isola serviva un permesso speciale, perché non erano autorizzati all’uso delle armi, perché aspettavano l’intervento delle truppe speciali e attesero così sulla riva opposta a poche centinaia di metri dall’isola di Utøya sentendo risuonare gli spari delle armi di Breivik che sistematicamente uccideva 69 ragazzi e vedendo dalla riva i giovani gettarsi in mare per scappare a nuoto. Gli agenti non intervennero, rispettarono tutte le regole. La coscienziosità aveva vinto sulla coscienza.

Utøya genera nello spettatore tensione emotiva, ma fa nascere anche molte domande. La professoressa Isabella Merzagora dell’Università di Milano, criminologa forense, è intervenuta al termine dello spettacolo per dare una risposta alle molte domande del pubblico.
Il quesito comune ai più è se Breivik come “mass murder” sia da considerarsi in fondo un malato di mente, quello che la professoressa Merzagora evidenzia è che esiste nell’uomo la malattia, ma esiste anche il male, Breivik è stato considerato dal tribunale norvegese capace di intendere e volere il suo è stato un volontario, premeditato ed organizzato crimine politico.
L’aspetto che sconcerta di più i suoi connazionali e noi tutti è che lui fosse “uno di noi”; alto, biondo, bianco. Il ricorso all’”attenuante” della malattia mentale serve a noi per tentare di creare un distinguo, una linea di confine tra noi e lui.
Occorre ricordare che Breivik stesso chiese di essere dichiarato sano di mente; “se fossi stato un terrorista islamico ed avessi compiuto questa strage in nome della mia fede avreste forse chiesto la perizia psichiatrica?

Mattia-Fabris e Arianna Scommegna in Utøya.
Foto Serena Serrani

La verità processuale di quella strage che fa di Breivik l’unico colpevole non tacita le nostre domande: chi lo aiutò? chi lo sostenne? È così facile costruire una bomba con i fertilizzanti per un uomo solo? Come fu possibile compiere tutto da solo, riuscire a mettere una bomba al palazzo del governo di Oslo che fece 8 morti, prendere l’auto vestito da poliziotto armato, in Norvegia i poliziotti non portano armi, percorrere 40 chilometri andare ad Utøya e uccidere 69 ragazzi senza che nessuno lo fermasse? In quei giorni nessun giornale pubblicò il termine “socialista” o “laburista”, ciascuno di noi ha bene in mente cosa fu l’11 settembre o il Bataclan, ma ricordiamo il 22 luglio 2011 nell’isola di Utøya come l’atto compiuto da uno squilibrato mentre fu un’azione politica di destra con l’obiettivo di colpire le giovani leve della sinistra europea e per questo con Utøya passa tutto sotto silenzio.
Adelaide Cacace

Teatro Litta -Milano
fino al 16 febbraio
UTØYA
un testo di Edoardo Erba
con la consulenza di Luca Mariani, autore de Il silenzio sugli innocenti
regia Serena Sinigaglia
scene Maria Spazzi | luci Roberto Innocenti
con Arianna Scommegna e Mattia Fabris
co-produzione ATIR Teatro Ringhiera e Teatro Metastasio di Prato
con il patrocinio della Reale Ambasciata di Norvegia in Italia

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