
Vecchiaia, solitamente, è sinonimo di saggezza, di consapevolezza acquisita, di sguardo lucido e, se necessario, critico. Solitamente, appunto. Perché vecchiaia può, talvolta, significare anche stanchezza, incapacità di andare avanti, assenza di stimoli e prospettive. Non uno scenario entusiasmante, insomma, a maggior ragione se a essere coinvolta in questo percorso di invecchiamento (e indebolimento), non è una persona, ma un Continente. Anzi, il Continente. Quel Vecchio Continente che da sempre è identificato in elementi come quelli di democrazia, certezze, solidità: l'Europa, in una parola. Il continente occidentale, infatti, nel XVI, venne definito il Vecchio Continente, per poterlo distinguere dal “Nuovo Mondo”, quello scoperto da Colombo nel 1492. Purtroppo, però, a tale aggettivo non si accompagna un adeguato raziocinio ed equilibrio. E le conseguenze sono disastrose.
In poco tempo, infatti, tutte le sicurezze su cui si fondava l'Unione Europea sembrano essere venute meno; e se le basi vengono sradicate, è possibile che l'intera struttura crolli. Per il momento, si limita a vacillare, tentando una ripresa (non solo economica, anzi soprattutto culturale) che tarda ad arrivare. Attualmente, sembra mancare una linea condivisa tra i vari Paesi membri, e la necessità di proseguire verso una stessa direzione, sta lasciando sempre più spazio a logiche nazionaliste, a interessi di potere e a una totale assenza di strategie unitarie.
Quello della Brexit è soltanto l'ultimo dei terremoti che hanno sconvolto l'Europa ed è probabile, se la rotta non dovesse cambiare, che non sia nemmeno l'ultimo. Già da tempo, infatti, erano visibili le avvisaglie di una fragilità strutturale, che aspetta soltanto il momento adeguato per manifestarsi e mostrare tutti i suoi limiti funzionali. Insomma, l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea è, semmai, il sintomo di una crisi europea, l'effetto, certamente non la causa. Così come causa non lo è nemmeno il fenomeno dell'immigrazione, che continua a dividere opinione pubblica e partiti. Certo, chiudere gli occhi davanti a quello che è, ormai, un fenomeno destinato a proseguire per diverso tempo, non appare la soluzione adeguata; allo stesso modo, una questione di tali dimensioni, non può essere affrontata in maniera efficiente se non attraverso una politica condivisa, in grado di unire, non di dividere. Al contrario, invece, a livello europeo stanno emergendo sempre di più spinte nazionaliste, populiste, addirittura anche realmente xenofobe, che propongono la costruzione di muri e la chiusura delle frontiere. Istituzioni e uomini politici, invece, dovrebbero individuare possibili soluzioni in grado di risolvere le crisi (africane e mediorentiali), piuttosto che sterili tentativi di respingimento utili soltanto a ricacciarle indietro come se non esistessero. Perché se nemmeno il mare, le continue tragedie mortali e la consapevolezza di una possibile drammatica fine riescono a destituire persone disperate dal partire verso l'Europa, è miope pensare che un muro o chilometri di filo spinato possano spegnere la loro voglia di libertà, giustizia e vita. È proprio per evitare che la crisi dei migranti possa continuare a lungo, destabilizzando ulteriormente un'Europa già abbastanza debilitata, che le istituzioni europee debbono impegnarsi per trovare una nuova unità di intenti, altrimenti emergenze come quelle dell'immigrazione o dell'eventuale uscita di altri paesi dall'Unione sulla scia della Brexit, diventeranno una quotidianità inevitabile.
Che il Vecchio Continente stesse pian piano smarrendo la sua stabilità originaria, lo si era capito da tempo e ogni occasione, ormai, è un pretesto utile per far affiorare una crisi interna, evidentemente mai superata. Tale riflessione è approfondita sapientemente da Massimo Franco nel suo ultimo saggio, intitolato L'assedio. A proposito del tema dell'immigrazione, l'autore ritiene che sia lecito utilizzare il termine “assedio”, inteso, però, non come invasione straniera proveniente dall'esterno, ma come una crisi interna ai confini europei, che mette in discussione i suoi valori, la sua resistenza e la sua saldezza.
A tutto ciò si aggiunge una spaccatura territoriale del Continente, che rispecchia una frattura politica sempre più incolmabile. Da un lato, a Nord, i paesi forti, che camminano spediti, grazie anche a un'economia in crescita; dall'altro, a Sud, i “paesi periferici”, quelli deboli, privi di stabilità, caratterizzati da ampi strati di disoccupazione e da una ripresa che non sembra intenzionata a decollare. Si tratta di quegli Stati soprannominati piigs (pigs in inglese significa “maiali”), ossia Portogallo, Italia, Irlanda (ovviamente non un Paese meridionale, ma che rientra nella categoria), Grecia e Spagna. I paesi mediterranei, insomma, quelli lasciati da soli per troppo tempo a gestire consistenti flussi migratori, nonostante non avessero strutture e possibilità sufficienti per far pronte a emergenze simili, mentre gli altri procedevano spediti, supportati da una significativa stabilità economica. È evidente, dunque, che il Vecchio Continente sta velocemente smarrendo la sua identità originaria, la sua brillantezza politica e diplomatica. Una visione omogenea e condivisa sta lasciando spazio a una frammentazione fin troppo rilevante, incapace di proporre un modello di riferimento, ma anzi esposta a continui cambi di marcia, interessi sovrapposti, idee contrastanti e necessità antitetiche. E insieme ai suoi principi, pian piano, l'Unione sta vedendo scomparire anche la sua compattezza.
A settembre, l'Austria dovrà ripetere, a causa di irregolarità nello spoglio dei voti, il ballottaggio che, a fine maggio, ha dato la vittoria per una manciata di voti al Verde Alexander Van der Bellen. E a questo punto, l'esito appare tutt'altro che scontato. Proprio le recenti vicende europee, infatti, potrebbero determinare l'accelerata decisiva in favore del candidato ultra nazionalista ed euroscettico Norbert Hofer. La vittoria di quest'ultimo significherebbe un altro colpo alla stabilità dell'Unione Europea, proprio mentre l'effetto Brexit provoca già reazioni a catena in tutta Europa. È proprio di questi giorni, inoltre, la notizia che annuncia che a ottobre ci sarà un'altra importante consultazione popolare. I cittadini dell'Ungheria, infatti, dovranno esprimersi per stabilire se sono favorevoli o meno al fatto che il loro Paese accetti la quota di ripartizione dei profughi prevista dall'Unione Europea senza l'approvazione del Parlamento Ungherese. Per Orbàn – primo ministro ungherese e leader del Fidesz, il partito nazionalista, populista e conservatore – questo è un “segno di indipendenza”. Ma se dovesse vincere il no, questo sarebbe l'ennesimo sintomo di un'Europa “malata”, fragile e spossata.
Insomma, il Vecchio Continente sta davvero invecchiando, e nemmeno troppo bene. La stanchezza comincia a farsi sentire e il rischio di un collasso è dietro l'angolo.
Lorenzo Di Anselmo
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